Giu
08
2021
0

La coltivazione di colture da biomassa in un’ottica di agricoltura sostenibile, rigenerativa e multifunzionale

Questo mese ripartiamo con un argomento più agronomico. Sono stato coinvolto nella stesura di un testo  sulle biomasse rivolto agli studenti. Tra le altre cose, si è parlato con i colleghi di vocazionalità dei terreni per la coltivazione di queste colture. Il risultato (si tratta una parte che non sarà pubblicata sul testo finale), è quello che leggete qui sotto.

 

L’aumento dei terreni dedicati a colture da biomassa ed energetiche non può essere incontrollato, per cui è necessario porre attenzione alla loro reale sostenibilità economica ed agroambientale. Infatti, i residui agricoli e forestali hanno un ruolo chiave nel mantenimento della fertilità dei suoli, nel controllo dell’erosione e nella salvaguardia della biodiversità edafica, per cui la loro rimozione può porre seri problemi agronomici e ambientali. È inoltre necessario considerare che le colture da biomassa ed energetiche, per quanto possano essere marginali, occupano suoli agrari destinati a produzioni alimentare. Per uno sviluppo realmente sostenibile di queste colture, è quindi necessario accertare la loro piena accettabilità economica, ambientale e sociale, e valutare la convenienza e l’interesse economico delle imprese agricole locali.

Per stimare la produzione potenziale di biomassa da colture dedicate, dovrebbero essere presi in esame diversi scenari produttivi sulla base (a) delle effettive possibilità di inserimento di ciascuna specie considerata nei contesti produttivi del territorio di riferimento (superfici potenzialmente destinabili), e (b) delle rese unitarie medie che queste possono garantire nei diversi ambienti pedoclimatici. È poi necessario valutare le superfici potenzialmente idonee mediante a) la stima delle superfici facilmente meccanizzabili, e quindi più adatte alla coltivazione di colture di carattere industriale, e b) la stima delle superfici ricadenti in areali rispondenti da un punto di vista pedoclimatico alle esigenze colturali di ciascuna specie considerata. Successivamente, all’interno delle aree prescelte, devono essere selezionati i seminativi ritenuti potenzialmente utili alla coltivazione di specie da biomassa, basandosi su parametri fisico-climatici, quali a) le classi di tessitura del suolo (medio impasto, pesante, sabbiosa e scheletrica), e b) i valori dell’indice di aridità stagionale (rapporto tra piovosità ed evapotraspirazione potenziale; utile per selezionare colture con un basso fabbisogno idrico).

Per una gestione sostenibile dei processi produttivi delle colture da biomassa e da energia è necessario definire gli areali di coltivazione più adatti per ciascuna coltura sulla base a) dei caratteri ecofisiologici delle colture (utili per determinare la maggiore affinità tra “classe pedoclimatica” e specie coltivata), e b) dei criteri quali-quantitativi di tipo agronomico, anche dal punto di vista tecnico e socio-economico. A titolo di esempio, dovrebbero essere privilegiate le colture che garantiscono produzioni pregiate (ad es., pioppo) negli areali dalle caratteristiche pedoclimatiche migliori, evitando l’introduzione delle specie più “rustiche” e produttive (ad es., canna comune e cardo) nei medesimi areali.

Le colture da biocarburanti, quali mais e colza, stanno ultimamente ricevendo molto sostegno politico, in quanto si suppone che mitighino i cambiamenti climatici e riducano la dipendenza dalle fonti di energia non rinnovabili. In realtà, questo bilancio energetico neutrale (per cui: CO2 fissata dalla fotosintesi = CO2 emessa per combustione), non tiene conto del suolo utilizzato e del fatto che queste colture rendono solo un decimo dell’energia per metro quadrato se comparate alle pale eoliche o ai pannelli solari. Inoltre, ci sono molte altre questioni ambientali che mettono in dubbio i benefici delle colture da biocarburanti: a) l’energia aggiuntiva necessaria per produrre, raccogliere, lavorare e trasportare la biomassa; b) il rilascio di gas serra più pericolosi della CO2; c) la conversione di terreni forestali (ripulitura, deforestazione) o l’aratura dei pascoli, che contribuiscono a rilasciare CO2; d) la diminuzione di biodiversità e gli effetti negativi sulle risorse idriche e sulla qualità del suolo, a causa della diffusione delle monocolture, dell’uso massivo di acqua per l’irrigazione e di prodotti agrochimici, e degli effetti dei nuovi flussi commerciali delle filiere di pellet di legno, biodiesel ed etanolo Le colture da biocarburanti pongono anche seri problemi etici, a causa della sottrazione di terreni potenzialmente coltivabili per produrre cibo e per l’enorme numero di persone che ancora oggi soffrono la fame (800 milioni, secondo la FAO).

Da quanto finora scritto, il sostegno alla produzione di biomasse e di biocombustibili potrebbe comportare incentivi perversi e serie ripercussioni sull’ambiente, per cui dovrebbe essere cambiata radicalmente in modo sostenibile (ad es., pratiche colturali poco intensive e a basso “input” energetico che proteggano i suoli, studio della vocazionalità dei suoli, rotazione delle colture, protezione della biodiversità e delle risorse idriche) per evitare danni ecologici e sociali. Per un uso realmente sostenibile delle biomasse, bisognerebbe prediligere l’utilizzo di residui colturali e rifiuti, e la coltivazione in zone marginali, più che predisporre nuove coltivazioni e aumentare il consumo di una risorsa preziosa e non rinnovabile come il suolo. Non c’è infatti beneficio nella sostituzione dell’uso non sostenibile del combustibile fossile con l’uso non sostenibile della biomassa e dei biocombustibili. Nella tabella in basso sono riportati, per alcune delle principali colture da biomassa, i relativi impatti su differenti aspetti pedologici e dell’agrosistema in senso più ampio.

 

Valutazione dell’impatto ambientale delle colture energetiche sulla base delle pressioni sulle matrici ambientali (A = basso, B = medio, C = alto rischio, n/a= criterio non rilevante ai fini della pressione considerata). Fonte: Agenzia Europea per l’Ambiente.

 

Lo studio degli aspetti agricoli e forestali è fondamentale per valutare il grado di vocazionalità del territorio allo sviluppo delle filiere da biomassa ed energetiche. In particolare, è fondamentale analizzare la distribuzione delle varie superfici sul territorio e classificarle in base ai caratteri pedoclimatici prevalenti. Partendo da questi dati, è possibile stimare sia i quantitativi massimi annui di biomassa residuale da attività agricole e forestali, sia le superfici potenzialmente destinabili alla coltivazione di specifiche colture dedicate e le rese medie prevedibili nei diversi areali di coltivazione.

Per le biomasse ligno-cellulosiche, possono essere considerate tre possibili fonti di approvvigionamento (residui selvicolturali, residui agricoli, coltivazione di colture dedicate), mentre, nel caso degli oli vegetali, si devono considerare le rese ottenibili dalla coltivazione già presenti nell’area. Lo studio di fattibilità si dovrebbe articolare nelle seguenti fasi: a) stima quantitativa della biomassa residua massima ottenibile, b) stima dell’estensione dei suoli potenzialmente adatti alle coltivazioni, c) stima delle rese unitarie ottenibili dalla coltivazione di ciascuna coltura dedicata nei diversi areali; d) analisi di scenari produttivi basati su ipotesi di diversi livelli di sfruttamento delle risorse potenziali e di adozione di impianti di conversione standard. Ogni suolo ha, infatti, in relazione ai requisiti delle differenti specie vegetali coltivate, una propria capacità intrinseca e potenziale di produrre biomassa, che può esprimersi diversamente in base alle tecniche agronomiche adottate. Inoltre, un particolare uso e gestione del suolo, a seconda del tipo di suolo, può migliorarne o degradarne la qualità e la fertilità. Per affrontare le problematiche del suolo associate alla coltivazione delle colture da biomasse ed energetiche, è importante a) definire criteri, indirizzi e metodologie (attitudine e valutazione dei suoli) per la verifica della congruità delle colture proposte rispetto alle caratteristiche e alle condizioni ambientali (sostenibilità ambientale), e b) studiare e approfondire l’impatto sulle risorse ambientali (degradazione del suolo, incorporazione di carbonio organico, consumo e qualità delle acque) e sull’approvvigionamento energetico da fonti rinnovabili (consumi energetici ed emissioni). Fortunatamente, le conoscenze disponibili a livello regionale, nazionale e comunitario, oggi abbondanti e di facile reperibilità sul web, sono una base di partenza eccellente per impostare una valutazione armonizzata della qualità e vulnerabilità dei diversi tipi di suolo in relazione alla produzione di biomasse, nonché dei possibili impatti su altri comparti ambientali.

La valutazione della combinazione pianta-suolo passa attraverso la considerazione prioritaria di alcuni aspetti prettamente agronomici, ma questi non devono mai essere separati dalle problematiche di tipo ambientale. Una combinazione ottimale pianta-suolo consente di sfruttare al meglio le potenzialità della pianta, richiede meno interventi e utilizzo di input esterni (ad es., fertilizzanti, ammendanti, agrofarmaci). A parità di proprietà edafiche, i principali aspetti agronomici da considerare sono l’adattabilità della coltura e la sua produttività, la sostenibilità economica (irrigazioni, nutrizione, difesa), la resistenza a condizioni climatiche avverse e la sua suscettibilità nei confronti di caratteristiche negative del suolo (compattazione e scarso drenaggio, aridità e salinità, pH non ottimali, scarsità di sostanza organica e di alcuni nutrienti, ecc.). Oltre alla pianta e al suolo, il terzo fattore da considerare sono gli aspetti ambientali e i rischi correlati. Infatti, è importante mantenere un livello minimo di carbonio organico per garantire la fertilità del suolo, contenere il rischio di erosione e di compattazione, e migliorare la qualità delle acque, in termini di riduzione di nutrienti e di fitofarmaci. In breve, è necessario proteggere il suolo per preservarne salute, qualità e fertilità, fondamentali per la coltivazione sostenibile di piante da biomassa ed energetiche.

La caratterizzazione fisica, chimica e biologica dei diversi tipi di suolo e lo studio delle loro dinamiche e funzioni, in combinazione con gli altri fattori ambientali, è quindi indispensabile per garantire la sostenibilità dei piani di coltivazione di specie da biomassa ed energetiche, e per valutare il loro potenziale impatto ambientale (vedi figura in basso). Un’errata pianificazione colturale può provocare effetti deleteri, quali a) la contaminazione del suolo dovuta all’uso eccessivo di input (prodotti fitosanitari, nutrienti, reflui zootecnici, fanghi), b) i processi di compattazione ed erosione, causati da una intensificazione delle lavorazioni, e c) l’impoverimento del suolo in carbonio organico e altri nutrienti (ad es., N, K, P) a causa dell’aumento dell’asportazione di biomassa. Questi fenomeni degradativi del suolo causano, a loro volta, effetti deleteri a medio e lungo termine, quali il calo della fertilità, la riduzione della capacità protettiva delle acque, la perdita di biodiversità e il rilascio di gas serra.

 

Esempi di correlazione tra proprietà del suolo e coltura dedicata alla produzione di biomassa al fine di determinare gli areali di coltivazione più favorevoli. P/ETP = indice di aridità stagionale (I), calcolato come rapporto tra piovosità (P) ed evapotraspirazione potenziale (ETP) del periodo primaverile estivo.

Written by Horty in: Senza categoria |
Apr
19
2015
1

Ancora sulla gestione sostenibile degli oliveti

Pubblico qui due brevi saggi appena scritti che spero possano servire in un periodo così difficile per l’olivicoltura meridionale.

 

Funghi

[In figura: funghi colturabili in un suolo di un oliveto gestito in modo sostenibile (sinistra) e in uno gestito secondo tecniche convenzionali (destra). Le piastre si riferiscono alla tessa diluizione di suolo (10-2). Si noti l’elevato numero di unità formanti colonie nella piastra di sinistra.]

 

 

Caratteristiche dei suoli dal punto di vista della sostanza organica e della fertilità microbiologica negli oliveti

 

Il principio chiave del concetto di sostenibilità è quello di soddisfare le esigenze del presente senza compromettere le necessità delle generazioni future. Se le risorse naturali, come suolo, acqua e sostanze nutritive vengono utilizzate a un ritmo più veloce di quello con cui sono reintegrati, il sistema di gestione dell’agroecosistema diventa quindi insostenibile. Un altro concetto alla base della sostenibilità è quello di mantenere un elevato livello di biodiversità anche attraverso l’adozione di tecniche di difesa fitosanitaria sostenibili (lotta integrata) per ridurre al minimo i rischi per la salute umana e per l’ambiente (direttiva UE 128/2009). Vigneti e frutteti sono alcune delle colture più importanti ed estese degli agro-ecosistemi mediterranei.

Le lavorazioni del suolo, in qualità di tecnica di aridocoltura, rappresentano la modalità di gestione del suolo più diffusa negli oliveti mediterranei. Gli svantaggi connessi alle lavorazioni continue del suolo, quali la degradazione e l’impoverimento dei suoli, sono ormai acclarate. Per queste ragioni, queste pratiche agronomiche tradizionali dovrebbero evolvere in una gestione nel suo complesso più sostenibile, volta ad incrementare il tenore di sostanza organica del suolo. In condizioni climatiche semi-aride, l’applicazione di fonti diversificate di sostanza organica può essere un fattore chiave per migliorare la qualità e la fertilità del suolo e per preservare le risorse naturali, principalmente suolo e acqua, evitando di conseguenza effetti negativi sull’ambiente. Inoltre, le pratiche agricole possono svolgere un ruolo importante nel sequestro del carbonio. Lo stock di carbonio può essere visto come misura del contributo relativo alla biomassa al ciclo del carbonio. La capacità di immagazzinare carbonio organico di un suolo (suolo visto come sink di carbonio e non come source che libera CO2 in atmosfera) dipende in larga misura dalle proprietà pedoclimatiche ma è bene ricordare che il sistema di coltivazione può svolgere un ruolo considerevole. Insieme con la gestione del suolo, un altro punto critico per una olivicoltura sostenibile riguarda la progettazione dell’impianto di irrigazione, che influenza una serie di parametri, quali l’efficienza dell’uso dell’acqua da parte delle piante, la qualità della produzione, e il contenimento dei patogeni. L’obiettivo finale delle sperimentazioni condotte negli ultimi anni (vedere bibliografia) è stato quindi quello di incoraggiare gli agricoltori ad adottare un sistema agricolo sostenibile nel suo complesso, allo scopo di promuovere la produzione di frutta di buona qualità senza determinare effetti negativi sull’ambiente.

L’olivo può essere considerato una specie paradigmatica per gli agro-ecosistemi mediterranei. Nei sistemi di allevamento tradizionali, adottati dalla maggioranza degli agricoltori del Sud Italia, la frequente lavorazione del terreno aumenta i fenomeni di erosione e di perdita di fertilità del suolo, e spesso riduce la diversità e la complessità microbica del suolo, che contribuiscono fortemente alla fertilità globale di un suolo. Le pratiche di gestione agronomica sostenibili, d’altro canto, stimolano e selezionano naturalmente i microrganismi del suolo che benefici per le piante, quali quelli coinvolti nei cicli dl carbonio e dell’azoto (che in linea di massima determinano la quantità e la disponibilità di macronutrienti disponibili per le piante) e quelli che promuovono la crescita delle piante e/o che fungono da deterrenti contro i microrganismi patogeni (per attacco diretto contro i patogeni, produzione di antibiotici naturali, effetti di stimolazione delle difese endogene e “sistema immunitario” delle piante).

Attualmente, nella comunità scientifica c’è un particolare interesse nella conservazione della biodiversità e nel suo ruolo nel mantenimento della funzionalità degli agro-ecosistemi. La comunità microbica del suolo, che comprende batteri, funghi, protozoi e alghe unicellulari, è coinvolta in vari processi fondamentali, quali la decomposizione e il ciclo della sostanza organica, la regolazione della disponibilità dei nutrienti, la formazione delle micorrize, la produzione di sostanze biologicamente attive e la promozione della qualità chimico-fisica del suolo. I microrganismi sono quindi in grado di influenzare la qualità del suolo e la crescita delle piante regolando la disponibilità e il riciclo degli elementi nutritivi. Per questo motivo, la complessità microbica di un suolo costituisce un indice di fertilità attendibile. I batteri sono gli organismi più numerosi del suolo. Infatti, un grammo di suolo può contenere anche miliardi di batteri. D’altra parte, i funghi che vivono nel suolo sono spesso i microrganismi dominanti in termini di biomassa (fino al 70-80% ella biomassa del terreno). La diversità microbica del suolo è alla base del ruolo fondamentale svolto dai microrganismi per il funzionamento degli ecosistemi terrestri. Infatti, maggiore è il grado di biodiversità intra o interspecifica e funzionale di un agro-ecosistema, maggiore sarà la tolleranza di quest’ultimo alle perturbazioni e la sua resilienza (intesa come capacità di ripresa in seguito ad un disturbo) a fattori ambientali sfavorevoli. Ciò si riflette anche in un aumento della tolleranza delle piante a vari stress ambientali (carenza di acqua e di nutrienti, condizioni climatiche sfavorevoli, comparsa di malattie, ecc.). Gli strati di suolo più superficiali rivestono in questo un’importanza fondamentale, considerando che la biodiversità microbica e il numero di microrganismi sono elevati soprattutto nei primi 20-30 cm di suolo, cioè in quel sottile strato sul Pianeta che ci permette di vivere.

La composizione, la complessità, la diversità genetica e l’utilizzazione dei nutrienti delle comunità microbiche del suolo sono fortemente influenzate da un sistema di gestione sostenibile. Nel caso degli oliveti, dopo diversi anni di gestione sostenibile (che ha previsto irrigazione a goccia, copertura del suolo con colture erbacee spontanee, fertilizzazione guidata e riciclo in campo del materiale di potatura), i risultati ottenuti mediante tecniche microbiologiche tradizionali e molecolari hanno mostrato differenze significative rispetto al sistema di gestione convenzionale, evidenziando una mFunghi colturabili in un suolo di un oliveto gestito in modo sostenibile (sinistra) e in uno gestito secondo tecniche convenzionali (destra). Le piastre si riferiscono alla tessa diluizione di suolo (10-2). Si noti l’elevato numero di unità formanti colonie nella piastra di sinistra. ntraaggiore diversità (genetica, funzionale e metabolica) e una maggiore quantità di specie microbiche, effetti dovuti soprattutto all’applicazione periodica di sostanza organica prodotta in situ. Le analisi microbiologiche hanno permesso di rilevare cambiamenti significativi, di tipo qualitativo e quantitativo, delle comunità microbiche del suolo in risposta alle pratiche colturali sostenibili adottate. I risultati degli studi condotti nell’ultimo decennio hanno evidenziato che:

  • la modalità di gestione del terreno ha un effetto significativo sulla numerosità e la biodiversità delle popolazioni fungine e batterica del suolo;
  • la popolazione fungina è più sensibile ai cambiamenti di gestione del suolo degli oliveti rispetto a quella batterica;
  • in mancanza di frequenti perturbazioni dovute all’azione antropica si crea un ambiente più favorevole allo sviluppo delle popolazioni microbiche;
  • la diversificazione delle comunità microbiche è sicuramente esaltata dalla pratica di apportare al terreno materiale organico di diversa qualità, dalle colture spontanee dell’inerbimento ai residui di potatura.

Questi risultati confermano la necessità di incoraggiare gli agricoltori a praticare la gestione del suolo sulla base di input di materia organica associati a lavorazioni minime del terreno (minimum tillage) al fine di migliorare la fertilità microbiologica del suolo. Le pratiche di gestione sostenibili sono quindi una misura efficace per gestire il suolo degli oliveti. Le informazioni ottenute da recenti studi (vedere bibliografia) potrebbero così essere di riferimento per gli olivicoltori che intendano scegliere tecniche e strategie di gestione del suolo più idonee alla gestione degli oliveti e alla conservazione delle risorse naturali.

 

 

La fillosfera e sua importanza per le difese naturali delle piante di olivo

 

L’interfaccia tra la parte aerea delle piante e l’atmosfera (fillosfera per le foglie e carposfera per i frutti) costituisce un habitat molto specifico per i microrganismi epifiti ed è normalmente colonizzata da una varietà di batteri, lieviti e funghi. Sia nella fillosfera che nella carposfera, i batteri sono di gran lunga gli organismi più numerosi, essendo spesso riscontrati a livelli di 106-107 cellule/cm2. I microrganismi che vivono in questo particolare micro-ambiente rispondono positivamente, sia in termini di abbondanza che di diversità microbica, alle differenti pratiche di gestione (lavorazione del suolo, irrigazione, concimazione, potatura) degli agro-ecosistemi. Partendo da questa base, recentemente sono state caratterizzare le comunità batteriche della fillosfera e della carposfera in piante di olivo mature sottoposte a due diversi sistemi di gestione (sostenibile e convenzionale) per diversi anni. La gestione sostenibile ha previsto la non lavorazione del suolo e apporti di sostanza organica provenienti da diverse fonti (irrigazione a goccia con acque reflue, inerbimento e residui di potatura).

Dalle indagini molecolari effettuate, è emerso che una gestione sostenibile del suolo ha modificato significativamente la composizione della comunità batteriche della fillosfera e della carposfera, aumentandone la biodiversità. Questo risultato è in linea con precedenti studi sulle comunità microbiche del suolo effettuate nello stesso agro-ecosistema. Oltre ai batteri epifiti, è stato riscontrato che i batteri endofiti presenti nei frutti (mesocarpo) del trattamento sostenibile sono stati in grado di sintetizzare alcuni fitormoni che agiscono come fattori di crescita per le piante (es. auxine e citochinine) e di produrre enzimi specifici coinvolti nella resistenza delle piante di olivo verso i principali agenti patogeni fungini di questa coltura. I microrganismi che vivono all’interno o sulla parte aerea delle piante, molti dei quali ancora poco studiati e/o sconosciuti, potrebbero quindi avere un ruolo analogo a quelli dei microrganismi che vivono nel nostro intestino (da 1,0 a 1,5 kg in una persona di corporatura media), i quali hanno un ruolo chiave nella stimolazione del sistema immunitario umano e contribuiscono alla protezione dell’organismo contro virus e batteri patogeni. Una gestione sostenibile dell’oliveto ha quindi un ruolo fondamentale per il benessere delle piante anche da questo punto di vista.

 

 

Grazie a loro, ho scritto:

 

Casacchia T, Briccoli Bati C, Sofo A, Dichio B, Motta F, Xiloyannis C (2010) Long-term consequences of tillage, organic amendments, residue management and localized irrigation on selected soil micro-flora groups in a Mediterranean apricot orchard. Acta Horticulturae 862: 447-452. ISBN: 978-90-6605-356-4

Pascazio S, Crecchio C, Ricciuti P, Palese AM, Xioyannis C, Sofo A. Changes in phyllosphere and carposphere bacterial communities in olive plants managed with different cultivation practices. In stampa.

Sofo A, Celano G, Ricciuti P, Curci M, Dichio B, Xiloyannis C, Crecchio C (2010) Changes in composition and activity of soil microbial communities in peach and kiwifruit Mediterranean orchards under an innovative management system. Soil Research 48 (3): 266-273.

Sofo A, Ciarfaglia A, Scopa A, Camele I, Curci M, Crecchio C, Xiloyannis C, Palese AM (2014) Soil microbial diversity and activity in a Mediterranean olive orchard managed by a set of sustainable agricultural practices. Soil, Use and Management 30 (1): 160-167.

Sofo A, Palese AM, Casacchia T, Celano G, Ricciuti P, Curci M, Crecchio C, Xiloyannis C (2010) Genetic, functional, and metabolic responses of soil microbiota in a sustainable olive orchard. Soil Science 175 (2): 81-88.

Sofo A, Palese AM, Casacchia T, Dichio B, Xiloyannis C (2012) Sustainable fruit production in Mediterranean orchards subjected to drought stress. In: Ahmad P, Prasad MNV, “Abiotic Stress Responses in Plants. Metabolism, Productivity and Sustainability”. Springer, New York, USA. Pp. 105-129. ISBN 978-1-4614-0633-4.

Sofo A, Palese AM, Casacchia T, Xiloyannis C (2014) Sustainable soil management in olive orchards: effects on telluric microorganisms. In: Parvaiz A, Rasool S, “Emerging Technologies and Management of Crop Stress Tolerance: Volume 2 – A Sustainable Approach”. ISBN: 978-0-12-800875-1. Academic Press, USA. Pp. 471-484.

 

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Apr
02
2024
0

Funghi per disinquinare

L’articolo di questo mese, con un taglio di dossier, si pone l’obiettivo di analizzare, comprendere ed affrontare la delicata tematica relativa all’inquinamento del suolo, in modo particolare quello legato all’inquinamento derivante dall’abbandono dei rifiuti plastici, descrivendone le cause, gli effetti e le azioni da applicare per contrastare questo fenomeno sempre più frequente. Lo scopo è quello di contrastare gli effetti negativi sugli equilibri ambientali ed ecosistemici, applicando un metodo naturale e abbastanza efficace: il micorisanamento, ovvero l’impiego dei funghi “mangiatori di plastica”, che hanno dimostrato di essere in grado di ridurre al minimo la presenza di plastica all’interno del suolo e rendere così sani ed utilizzabili quei siti che prima versavano in condizioni di degrado. Verranno considerate anche altre tipologie di contaminanti che alterano le caratteristiche dei suoli e di come il micorisanamento possa essere utilizzato ai fini del ripristino delle condizioni ottimali dei suoli.

L’inquinamento del suolo costituisce una delle forme di inquinamento ambientale più grave e diffusa. Infatti, gli equilibri ambientali e la biodiversità sono strettamente connessi alla presenza di un suolo fertile e sano. Tra gli effetti più importanti, l’inquinamento del suolo può interessare la salubrità delle falde acquifere e le riserve d’acqua, influenzando così, inevitabilmente, anche la qualità degli alimenti. L’inquinamento del suolo consiste nella presenza di sostanze tossiche che ne alterano le caratteristiche. Esse possono essere di origine naturale o sintetica e, in molti casi, hanno effetti negativi sugli organismi viventi, con dirette conseguenze sulla catena alimentare, e la salute e il benessere umani. Questo tipo di inquinamento può essere anche meramente fisico. In questo caso è rappresentato dalle alterazioni del suolo che favoriscono smottamenti ed erosione e che, a loro volta, causano una diminuzione del suolo fertile.

Perdiamo circa 24 miliardi di tonnellate di suolo fertile all’anno. In Europa, la superficie agricola rappresenta il 25% di quella totale e circa l’80% contiene residui chimici di sintesi. Sempre in Europa, sono presenti circa 2,8 milioni di siti industriali di cui si sospetta la contaminazione. La scarsità di suolo fertile altera interi ecosistemi, innescando una grave tendenza alla desertificazione.

Tra le principali cause dell’inquinamento del suolo ci sono i rifiuti solidi, liquidi e gassosi, provenienti dalle attività antropiche. Oltre ai rifiuti domestici, ci sono quelli speciali derivanti dalle attività industriali, come per esempio idrocarburi e rifiuti contenenti diossine, metalli pesanti e solventi organici. Essi sono troppo spesso i protagonisti indiscussi di veri e propri disastri ambientali che alimentano il business degli ecoreati e il degrado ambientale, con gravi danni per la salute e l’ambiente. I prodotti fitosanitari utilizzati per combattere le principali avversità alle piante, in modo particolare nell’agricoltura intensiva, costituiscono uno dei principali responsabili dell’inquinamento del suolo. Essi causano anche inquinamento idrico e sono responsabili di danni alla salute umana a seguito alla loro ingestione. Causano, inoltre, malattie professionali agli agricoltori e a chiunque venga in contatto con queste sostanze.

L’estrazione dell’uranio, il riprocessamento e lo stoccaggio delle scorie radioattive generano anch’essi un inquinamento radioattivo. In aggiunta ci sono i disastri ambientali dovuti a malfunzionamenti e incidenti di impianti nucleari (Fukushima, Cernobyl, Three Mile Island, ecc.). A questi si aggiungono anche i residui inutilizzabili di scorie radioattive che vengono sepolti in fosse oceaniche profonde o, in alcuni casi, interrati in zone geologicamente sicure e stabili. 

 

Effetti della plastica sui suoli

Le plastiche sono contaminanti emergenti di relativamente nuova scoperta. Molto si è detto sull’inquinamento degli ambienti marini e fluviali, su cui sono già attivi e funzionanti molti progetti tesi al recupero delle plastiche. Tuttavia poco, anzi pochissimo, si conosce sull’inquinamento dei suoli. Perché? Se è relativamente semplice separare le particelle di plastica dall’acqua, non lo è nel suolo, e le tecnologie attualmente a disposizione non sono abbastanza accurate. Parallelamente, però, è sempre più evidente la presenza di plastiche nei suoli, la loro influenza sul funzionamento degli ecosistemi, il fatto che entrino nella catena alimentare sino ad attraversare addirittura la placenta degli animali.

Un terzo della plastica prodotta nel mondo finisce nel suolo, e si stima che la quantità di plastiche negli ecosistemi terrestri sia da 4 a 32 volte maggiore di quella presente negli oceani.

La crescita delle piante viene inibita dalle alte concentrazioni di plastica nel terreno. L’accumulo di residui plastici influenza anche l’idratazione del suolo, il trasporto dei nutrienti, l’attività dei microrganismi e la salinizzazione, contribuendo alla ritenzione di contaminanti, come i pesticidi. Le microplastiche diventano parte della struttura del suolo legandosi alle particelle organiche. Con l’erosione causata da acqua e vento, queste particelle possono addirittura essere trasportate in luoghi lontani, raggiungendo bacini idrici e oceani. Le microplastiche sono poi ingerite dalla micro e mesofauna del suolo, come vermi, parassiti, collemboli, enchitreidi, accumulandosi così nella catena alimentare, con un potenziale di biomagnificazione, fino ad arrivare agli uccelli che si nutrono di questi piccoli animali (FAO, Soil pollution: a hidden reality, 2018, www.fao.org/3/i9183en/ i9183en.pdf – N. R. Eugenio, 2018).

Effetti delle micro- e macroplastiche sulla catena alimentare

Nella figura in alto sono visualizzate le zone dove sono presenti microplastiche in alta concentrazione: zone industriali, atmosfera, impianti di depurazione delle acque, terreni agricoli, spiagge, porti e dighe, città e strade, discariche (Global Change Biology, 2017). I tre cerchi in alto rappresentano uno zoom sugli effetti delle microplastiche sulla composizione chimica nel suolo (Fuller & Gautam, 2016), sul microbioma del suolo (Mccormick et al., 2016) e sull’ambiente biofisico (Huerta Lwanga et al., 2017; Liebezeit & Liebezeit, 2015; Maass et al., 2017; Rillig, Ziersch, et al., 2017; Zhu et al., 2018).

Foraggio rivestito con pellicola plastica per riparo dalle intemperie

La plastica è onnipresente in agricoltura. Infatti, le macroplastiche sono utilizzate come involucri protettivi attorno a pacciame e foraggi, coprono le serre e proteggono le colture dagli elementi, vengono utilizzate nelle tubazioni per l’irrigazione, sacchi e contenitori. Le microplastiche, invece, vengono aggiunte intenzionalmente ed utilizzate come rivestimenti su fertilizzanti, pesticidi e semi.

C’è solo una quantità limitata di terreno agricolo disponibile” – ha affermato Elaine Baker, Professoressa di Scienze Marine presso l’Università di Sydney e Direttrice ufficio GRID-Arendal (partner dell’UNEP) presso la stessa Università. “Stiamo iniziando a capire che l’accumulo di plastica può avere impatti ad ampio raggio sulla salute del suolo, sulla biodiversità e sulla produttività, tutti elementi vitali per la sicurezza alimentare”.

Nel tempo, le macroplastiche si decompongono lentamente in microplastiche di frammenti lunghi meno di 5 mm e penetrano nel terreno. Queste microplastiche possono modificare la struttura fisica del suolo e limitarne la capacità di trattenere l’acqua. Ciò può influenzare le piante, riducendo la crescita delle radici e l’assorbimento dei nutrienti. Gli additivi chimici nella plastica che filtrano nel suolo possono anche avere un impatto sul valore degli alimenti e portare a implicazioni per la salute, entrando nella catena alimentare.

La principale fonte di inquinamento da microplastica nel suolo sono i fertilizzanti prodotti con materia organica, come il letame, conosciuti come biosolidi, che dovrebbero essere più salubri per l’ambiente rispetto ai fertilizzanti di sintesi. Purtroppo nel letame si mescolano le microsfere, le minuscole particelle sintetiche comunemente utilizzate nel sapone, shampoo, trucco e altri prodotti per la cura personale, il che è motivo di preoccupazione. Esempi di fonti e trasporto di plastica e co-contaminati dalla produzione agricola all’ambiente (Fonte: “Plastics in agriculture: sources and impacts”, 2021).

Secondo uno studio, pubblicato il 1° luglio 2022 su Environmental Pollution e condotto da ricercatori dell’Università di Cardiff, i terreni agricoli d’Europa sono potenzialmente il più grande serbatoio globale di microplastiche a causa delle alte concentrazioni presenti nei fertilizzanti derivati dai fanghi di depurazione. Ogni anno, sui suoli dei terreni agricoli europei, sarebbero sparse tra le 31.000 e le 42.000 tonnellate di microplastiche.

Alcuni Paesi hanno vietato le microsfere di plastica, ma molte altre continuano ad entrare nel sistema idrico (nell’UE il divieto è scattato dal 1° gennaio 2021, ma in Italia è stato anticipato di un anno, valido solo per gli esfolianti e i detergenti a risciacquo), tra cui quelle dei filtri delle sigarette, dei sistemi di abrasione degli pneumatici e quelle derivanti dalle fibre sintetiche dei vestiti. Gli esperti affermano che le dimensioni e le composizioni variabili delle microplastiche le rendono difficili da rimuovere una volta che sono nelle acque reflue.

Attualmente, si stanno compiendo progressi per migliorare la biodegradabilità dei polimeri utilizzati nei prodotti agricoli. Alcuni teli per pacciamatura, utilizzati per modificare la temperatura del suolo, limitare la crescita delle erbe infestanti e prevenire la perdita di umidità, vengono ora commercializzati come completamente biodegradabili e compostabili, ma ciò non è sempre vero. Inoltre, i ricercatori sottolineano che la produzione di polimeri a base biologica non dovrebbe generare concorrenza per il suolo con quella utilizzata per produrre cibo. Possono essere utilizzate anche le cosiddette colture di copertura, che proteggono il suolo e non sono destinate alla raccolta. Queste soluzioni basate sulla natura (nature-based solutions, NBS) possono sopprimere le malerbe, contrastare le malattie del suolo e migliorarne la fertilità, ma si teme che possano ridurre i raccolti e aumentare i costi.

Nessuna di queste soluzioni è una bacchetta magica – ha aggiunto Baker – La plastica è economica e facile da lavorare, il che rende difficile provare a introdurre alternative “.

Secondo la ricercatrice, i governi devono “disincentivare” l’uso della plastica in agricoltura, seguendo il percorso dell’UE che ha limitato l’uso di alcuni tipi di polimeri nei fertilizzanti. Baker ha anche affermato che sono necessarie ulteriori ricerche per sviluppare prodotti, come alcuni tessuti alternativi, che non perdano microplastiche, mentre i consumatori dovrebbero essere incoraggiati a riconsiderare il loro consumo di plastica e i produttori a ridurre la quantità di plastica che usano.

Sebbene ci siano molte ricerche limitate all’impatto della plastica nel suolo, ci sono già prove di effetti negativi sulla salute e sulla produttività del suolo – ha concluso la ricercatrice – Ora è il momento di adottare il principio di precauzione e sviluppare soluzioni mirate per fermare il flusso di plastica dalla fonte e nell’ambiente”.

 

Il micorisanamento

Le complesse dinamiche che caratterizzano l’habitat dei suoli, costituiscono un ostacolo non indifferente alla ricerca scientifica, determinando una discrepanza tra i dati disponibili utili a stabilire l’entità dei danni e il tipo di intervento più idoneo al risanamento dei siti contaminati dalle diverse forme di inquinamento de suolo.

Il biorisanamento è una NBS che si basa sul metabolismo microbico di microrganismi, ambientali o artificiali, capaci di biodegradare e detossificare le sostanze inquinanti. Le diverse tecniche di micorisanamento si possono applicare in situ o in ex situ.

Le materie plastiche prodotte dalle diverse attività antropiche sono molteplici, con altrettante caratteristiche fisico-meccaniche, e la loro presenza in ambienti terresti deriva principalmente da fanghi attivi smaltiti in campo, teli di pacciamatura, irrigazione con acque reflue, inondazioni, ricadute atmosferiche, abrasione degli pneumatici, scarico illegale di rifiuti, ecc. Arrivate nell’ambiente, le plastiche hanno un impatto su tutti gli organismi viventi, causandone danni fisici e fisiologici, sino a provocarne la morte.

Secondo un rapporto della Commissione Europea ogni anno inaliamo o ingeriamo dalle 39.000 alle 52.000 particelle plastiche l’anno, l’equivalente di una carta di credito. Su queste premesse, la pratica del micorisanamento costituisce una valida soluzione alla riduzione di tali inquinanti nel suolo.

Le mascherine chirurgiche impiegano fino a 450 anni per decomporsi totalmente

Per secoli, i funghi che sono stati impiegati come prodotto alimentare proveniente dal bosco o da funghicoltura, oltre ad essere caratterizzati da esclusive proprietà aromatiche, organolettiche e proteiche, si sono rivelati essere più che semplici prodotti alimentari. Infatti, è stato scoperto che i funghi hanno una propensione unica a scomporre gli inquinanti, inclusi petrolio e pesticidi, e a estrarre o legare metalli pesanti, fino a contrastare persino le radiazioni (Ali & Di, 2017). I funghi sono inoltre in grado di filtrare l’acqua, supportando innumerevoli cicli vitali rigenerativi per gli ecosistemi.

Il micorisanamento è un metodo che utilizza il micelio dei funghi (la parte vegetativa di un fungo) in siti di terreno contaminati come trattamento riparatore. Gli enzimi prodotti da un fungo sono efficaci nell’abbattere molti diversi inquinanti. In sostanza, questo metodo sfrutta le naturali capacità di decomposizione dei funghi per ripristinare e rigenerare il terreno.

L’accumulo di metalli pesanti e sostanze chimiche tossiche nel nostro ambiente è un problema grave e sempre persistente. Queste tossine finiscono nella nostra catena alimentare (come metalli pesanti, PCB e diossine) e vanno incontro a bioaccumulo, ovvero l’accumulo graduale di una determinata sostanza chimica nel tessuto vivente di un organismo dal suo ambiente che può derivare dall’assorbimento diretto dall’ambiente o dall’ingestione di particelle di cibo. I miceli fungini possono rimuovere queste tossine nel terreno prima che possano entrare nelle nostre riserve di cibo e, infine, nel nostro corpo.

Il micelio è la parte vegetativa dei funghi: si tratta di filamenti bianchi sotterranei, chiamati ife, con una struttura siile a quelle delle radici e delle ragnatele, i quali sono colonizzano i suoli e altri ambienti ricchi di umidità, come i tronchi di alberi in decomposizione. Le ife sono deputate all’assorbimento di acqua e nutrienti.

Il micelio può essere persino resistente al fuoco e si è rivelato uno strumento straordinario per gli sforzi di risanamento ambientale. Alcune specie di funghi vengono addirittura “addestrate” nei laboratori per digerire rifiuti plastici, come mascherine polipropilene e guanti di plastica (Alexander, 2019). La maggior parte della degradazione avviene prima che si formi il corpo fruttifero; le tossine e i rifiuti vengono completamente assorbiti dal fungo in genere entro poche settimane (Alexander, 2019), un dato molto incoraggiante, visto che il tempo di degradazione delle plastiche nel suolo si può protrarre per decenni o secoli.

Micelio fungino

Il processo con cui i funghi decompongono la plastica coinvolge una famiglia di enzimi chiamati laccasi, i quali scompongono i polimeri in molecole più piccole, che possono poi essere assorbite dal fungo. Questo processo richiede da due settimane a diversi mesi, a seconda del tipo di plastica utilizzata.

Struttura tridimensionale di una laccasi

I funghi utilizzano una combinazione di enzimi per scomporre le catene di polimeri che costituiscono la plastica. Gli enzimi lavorano insieme ad altri microrganismi, come i batteri, per accelerare il processo. Oltre a scomporre la plastica, questi funghi rilasciano anche sostanze nutritive nel terreno, favorendo la crescita delle piante. Le laccasi sono in grado di scomporre le molecole più grandi in molecole molto più piccole, le quali possono essere assorbite dal fungo stesso o da altri microrganismi che vivono nel suolo. Infatti, i funghi si sono evoluti nel corso di milioni di anni per scomporre molecole complesse in componenti più semplici e più facili da metabolizzare. Questo processo è noto come biodegradazione: gli enzimi prodotti dai funghi rompono i legami tra gli atomi dei polimeri per rimpicciolirli e assorbirli nelle loro cellule. Come avviene per gli enzimi digestivi dell’uomo, i funghi digeriscono i polimeri.

Tempi di degradazione di diverse tipologie di rifiuti

 

Il ruolo dei batteri nel micorisanamento

Oltre ai funghi, anche i batteri svolgono un ruolo importante nel micorisanamento. Le popolazioni batteriche si affiancano a quelle fungine e contribuiscono a facilitarne i processi di decomposizione, producendo enzimi aggiuntivi che abbattono ulteriormente i polimeri. Questa categoria di batteri in grado di scomporre gli agenti contaminanti presenti nel suolo, comprende anche i batteri idrocarburoclastici (da qui la sigla BIC), ovvero organismi che si “nutrono” di petrolio utilizzandolo per i loro processi metabolici. I batteri secernono anche acidi organici che aiutano a sciogliere alcuni tipi di plastica e agiscono come catalizzatori per la produzione di enzimi fungini. Questa relazione simbiotica tra batteri e funghi rende il micorisanamento uno strumento ancora più efficace.

 

Funghi che degradano la plastica

Attualmente sono state identificate diverse specie di funghi mangiatori di plastica. Ognuna di esse presenta capacità più o meno accentuate nello scomporre diversi tipi di plastica, ma tutte e tre condividono alcuni tratti comuni.

Pestalotiopsis microspora

Questa specie è stata scoperta per la prima volta nei terreni della foresta amazzonica ecuadoriana, dove è stata osservata mentre decomponeva campioni di poliuretano espanso nel giro di poche settimane. È in grado di digerire sia le pellicole di polietilene a bassa densità (LDPE) comunemente utilizzate per gli imballaggi alimentari, sia le pellicole di polietilene ad alta densità (HDPE) tipicamente utilizzate per la produzione di bottiglie.

Pleurotus ostreatus e Schizophyllum commune 

L’inquinamento da plastica è una crisi globale e la scoperta dei funghi “mangiaplastica” è stata accolta come una soluzione rivoluzionaria. Due specie di funghi che si sono dimostrate promettenti in questo campo sono il Pleurotus ostreatus (il comune cardoncello) e lo Schizophyllum commune. Sul cardoncello ci ho lavorato anche io qualche anno fa e abbiamo pubblicato questo lavoro in cui è stato dimostrato che questo fungo è in grado di degradare persino sostanze medicinali.

Pleurotus ostreatus

Entrambi sono in grado di digerire il poliuretano, uno dei principali componenti di alcune plastiche. Sebbene siano necessarie da due settimane a diversi mesi per scomporre la plastica, a seconda del tipo utilizzato, questi funghi potrebbero essere uno strumento efficace per la bonifica dei rifiuti plastici.

Schizophyllum commune

Aspergillus tubingensis 

Aspergillus tubingensis è un’altra specie che ha la capacità di degradare poliuretano. È stata scoperta nel 2018 dai ricercatori dell’Università di Kyoto e da allora è diventata uno strumento importante per la bonifica dei rifiuti plastici. Questa particolare specie di funghi impiega circa due settimane per scomporre e consumare la plastica, a seconda del tipo di plastica utilizzata. Questo lo rende un efficiente digestore per sbarazzarsi efficacemente dei rifiuti di plastica.

 

Ma i funghi “mangiaplastica” sono commestibili?

La risposta breve è no: Aspergillus tubingensis e altri funghi mangiatori di plastica non sono commestibili e non dovrebbero essere consumati. Tuttavia, alcuni di essi, come il comune cardoncello, possono essere consumati. Inoltre, la ricercatrice australiana Katharina Unger ha creato un prototipo chiamato Fungi Mutarium che può essere utilizzato per coltivare questi funghi commestibili in grado di degradare plastica. Fungi Mutarium, un progetto di Livin Studio in collaborazione con l’Università di Utrecht, è un prototipo per coltivare una biomassa fungina commestibile, principalmente miceli, come un nuovo prodotto alimentare.

 

I potenziali benefici del micorisanamento

Il micorisanamento è un processo che prevede l’utilizzo di funghi per scopi di bonifica, come la degradazione di sostanze inquinanti quali gli idrocarburi derivanti dal petrolio (vedete, se vi va, questo lavoro che ho pubblicato qualche anno fa) o i policlorobifenili (PCB). Lo stesso processo può essere applicato alla plastica utilizzando alcune specie di funghi che si sono evolute nel tempo con la capacità di scomporre le catene di polimeri in composti più piccoli. Utilizzando le tecniche di micorisanamento, i ricercatori possono coltivare ceppi specifici di funghi che si nutrono di materiali sintetici come la plastica. Creando un ambiente in cui questi funghi possano prosperare, gli scienziati sperano che i loro sforzi portino a metodi più efficaci per scomporre i materiali artificiali in modo più rapido che mai. Grazie al micorisanamento, potremmo aver trovato un potente strumento per ridurre la nostra dipendenza dalla plastica e salvare il nostro pianeta!

Tra i benefici si possono annoverare:

  • Riduzione della necessità di spazio in discarica, grazie alla diminuzione della quantità di materiali non biodegradabili che vengono
  • Fonti d’acqua più pulite, grazie alla riduzione della lisciviazione dalle discariche nei corpi idrici
  • Uso più efficiente delle risorse, grazie alla trasformazione di ciò che altrimenti sarebbe un rifiuto in materiale

Utilizzando il micorisanemento, potremmo potenzialmente creare un’economia sostenibile e circolare basata sulla coltivazione dei funghi.

Un tipo di economia che ci aiuterebbe a ridurre la nostra dipendenza da materiali non biodegradabili, fornendoci al contempo fonti di cibo. Questo potrebbe rivoluzionare il nostro approccio alla soluzione di problemi ambientali globali, come l’inquinamento da plastica, migliorando al contempo i risultati in termini di salute della collettività.

 

Micorisanamento applicato ad altre tipologie di contaminanti

“Già in passato, i funghi hanno dimostrato grande capacità di sopravvivere e anzi di prosperare di fronte a mutamenti ambientali di grande portata: i funghi che decompongono il legno ebbero un ruolo importante nella transizione da un’epoca chiamata Carbonifero, in cui a causa dell’assenza di decompositori di lignina, il grande accumulo dei resti di alberi nel sottosuolo era stato causa di un importante cambiamento climatico. Proprio grazie alla loro capacità “decostruttiva” questi organismi hanno dimostrato capacità di sopravvivere alle devastazioni ambientali. Non soltanto la lignina, ma numerosi altri inquinanti possono essere digeriti e usati come fonte di sostentamento dai funghi: dai mozziconi di sigaretta ai pesticidi, a vari tipi di rifiuti agricoli, i funghi sanno trasformare vari inquinanti pericolosi per la vita umana e ripristinare ecosistemi gravemente danneggiati. I limiti relativi a queste pratiche di micorisanamento dipendono in larga parte dalla complessità di questi organismi: i funghi proliferano in modo irriducibilmente imprevedibile, così come il loro comportamento rispetto agli inquinanti rimane complesso. Il micorisanamento si configura come una forma di “digestione esterna”, o un’esternalizzazione di processi digestivi: un’associazione in cui organismi diversi intonano insieme una canzone metabolica che da soli non saprebbero cantare. In questa relazione, i funghi si configurano sia come tecnologie, che come partner degli esseri umani.”

Agganciandosi a questo concetto proposto da Merlin Sheldrake, biologo e scrittore naturalista, ci si rende conto di quanto sia vasto e complesso il mondo dei funghi, di come sia fondamentale la loro presenza negli ambienti per il mantenimento degli equilibri ecosistemici e di quanto siano variegate le loro funzioni in natura.

Oltre ad essere una pratica efficace e risolutiva, il micorisanamento trova impiego nel trattamento dei siti che oltre ad essere soggetti ad inquinamento plastico sono alterati dalla presenza di altri contaminanti. Ripristinare il suolo contaminato decomponendo le sostanze tossiche e risolvendo, alla base, il problema dello smaltimento è la missione di un interessante progetto dell’University of Wisconsin-Stevens Point che vede per protagonisti proprio i funghi. Oggetto della sperimentazione è stato un blocco di terra carico di petrolio. A novembre i ricercatori hanno iniziato a coltivarci funghi di buona qualità, con risultati sorprendenti. La terra non trattata si presentava fortemente odorosa di petrolio, mentre dove i funghi sono stati coltivati e cresciuti, invece, il suolo ha iniziato ad avere un buon profumo, un indizio che potrebbe essere il preludio di risultati interessanti.

Sito inquinato da sversamento di petrolio

L’olfatto, ovviamente, non fornisce una prova definitiva. Ma gli studiosi ritengono che le analisi di laboratorio possano confermare l’ipotesi più ottimistica. La speranza, insomma, è che i funghi abbiano saputo portare a termine il loro compito “ripulendo” di fatto il terreno dalle sostanze nocive che avrebbero potuto renderlo inutilizzabile.

Anche nei casi più critici di inquinamento del suolo non mancano i vantaggi. Per esempio, nel suolo contaminato da metalli pesanti, i funghi assorbono le sostanze nocive diventando a loro volta tossici. Ad essere ripristinato però è il terreno che, di conseguenza, non deve più essere bonificato. A quel punto, quindi, lo smaltimento riguarda solo i funghi. Con conseguente risparmio di spazio in discarica. Grazie a questo processo è quindi possibile ridurre i costi di smaltimento. Nel corso degli anni, gli esperimenti non sono mancati. Il micorisanamento è stato utilizzato anche per decontaminare i terreni dai pesticidi. Si trovano, infatti, studi di come i funghi riescano a scomporre pesticidi e molti farmaci. Paul Stamets, nel suo libro “Mycelium Running”, descrive molto bene come i funghi Trametes spp. e Psilocybe azurescens riescano a scomporre addirittura una potente neurotossina, il dimetilfosfonato. Grazie a queste capacità, il micelio della coltivazione di funghi, si presenta anche come la soluzione per filtrare l’acqua da Escherichia coli, colera, Listeria e altri agenti patogeni; fosfati, fertilizzanti, interferenti endocrini, metalli pesanti e rifiuti tossici a base di petrolio. Nel 2017, inoltre, alcuni ricercatori cinesi hanno isolato un altro fungo in grado di digerire il poliuretano. Pare, infatti, che ci sia un fungo, il Pestalotiopsis microspora, che ha una caratteristica molto particolare: si nutre quasi esclusivamente di poliuretano. Questo materiale è un polimero plastico particolarmente resistente, utilizzato in molteplici contesti, che si decompone in modo spontaneo nel giro di centinaia di anni. Sedili, tubi, imbottiture, imballaggi: il poliuretano è praticamente ovunque, ma con questo fungo la sua permanenza nell’ambiente potrebbe essere ridotta, e di molto. Ciò che differenzia il Pestalotiopsis dagli altri funghi in grado di “aggredire” la plastica è che può farlo anche in ambienti anaerobici, dunque senza ossigeno. Questo vuol dire che, potenzialmente, potrebbe crescere e proliferare anche in luoghi come fondi di discariche, dando un aiuto fondamentale a degradare più velocemente le inquinanti materie plastiche. I benefici e i vantaggi di questo utile organismo naturale scoperta sono stati descritti dal team di scienziati di Yale in un articolo pubblicato sulla rivista Applied and Environmental Microbiology. I ricercatori hanno fatto sapere che sono riusciti a isolare l’enzima che il fungo usa per sciogliere il legame del poliuretano, la serina idrolasi.

L’efficacia di queste tecniche, tuttavia, appare ancora variabile e sembra essere condizionata da tanti fattori. Proprio per questo, saranno necessarie ulteriori ricerche negli anni a venire per esplorare le opportunità di una strategia che resta in ogni caso promettente. È stato osservato, infatti, che alcuni interventi con Pleurotus spp. hanno avuto pieno successo nel degradare gas sarin e alcuni gas nervini. I fattori fisici che influenzano tali processi sono la temperatura, la presenza di ossigeno ed il pH (i funghi preferiscono lavorare in condizioni di pH acido).

Gas nervino

Altri risultati soddisfacenti, utilizzando funghi dello stesso genere, sono stati ottenuti in un terreno contaminato da gasolio sottoposto a pratica di micorisanamento. Dopo quattro settimane più del 90% degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) è stato degradato a componenti non tossici, anche grazie alla sinergia che si era creata con la flora microbica naturale presente nel terreno.

 

Conclusioni

Il potenziale dei funghi come risorsa sostenibile nella lotta contro l’inquinamento da plastica ha preso sempre più piede negli ultimi anni. Con la scoperta di nuove specie di funghi in grado di scomporre diverse sostanze inquinanti o di digerire il poliuretano, scienziati e imprenditori stanno esplorando modi per sviluppare un’economia basata su questi funghi “mangiaplastica”. Da questo ne scaturisce che la coltivazione dei funghi non è solo un’opzione valida per ridurre i rifiuti di plastica ma potrebbe anche creare posti di lavoro e offrire opportunità economiche alle comunità colpite dall’inquinamento da plastica.

L’excursus dei funghi mangiaplastica è stato finora un’incredibile storia di successo. Dai loro umili inizi come semplici funghi che crescevano in natura a fenomeno globale. Non solo questi funghi stanno aiutando a ridurre la quantità di inquinamento da plastica nell’ambiente ma potrebbero costituire in futuro una fonte di nutrimento sostenibile e rinnovabile per le diverse popolazioni del mondo o per le generazioni future. Con ulteriori ricerche e sviluppi, questa tecnologia rivoluzionaria potrebbe un giorno fornirci un modo davvero sostenibile per ridurre la nostra dipendenza dalla plastica e i suoi effetti negativi sull’ambiente.

Written by Horty in: Senza categoria |
Gen
31
2024
0

Tra foglie e asfalto

 

In un contesto urbano sempre più dominato da strutture di cemento e asfalto, la crescente consapevolezza dell’importanza del verde nelle città sta promuovendo una rivoluzione silenziosa. Ci sono oramai esempi concreti in tutto il mondo sul ruolo cruciale che il verde urbano svolge nel plasmare il nostro ambiente e il benessere umano. Il verde in città porta con sé una serie di benefici diversificati, noti come servizi ecosistemici, che influenzano positivamente sia l’ambiente che il benessere delle persone. Le piante assorbono gas nocivi, come l’anidride carbonica e altri inquinanti atmosferici, contribuendo a migliorare la qualità dell’aria nelle aree urbane.

Inoltre, gli alberi e le aree verdi possono fornire ombra, riducendo gli effetti delle isole di calore urbane e contribuendo a mantenere temperature più basse nelle città, specialmente durante i periodi caldi, quando gli alberi evapotraspirano di più. Inoltre, la presenza di verde in città favorisce la biodiversità, fornendo habitat per una varietà di specie vegetali e animali, promuovendo così l’equilibrio degli ecosistemi urbani. Il verde urbano assorbe anche l’acqua piovana, riducendo il rischio di allagamenti e contribuendo alla sostenibilità delle città. Alberi piantati strategicamente possono offrire ombra agli edifici, riducendo la necessità di raffreddamento artificiale e portando a risparmi energetici. Dal punto di vista del benessere umano, la presenza di verde in città è associata a una migliore salute mentale e fisica. Passeggiare in parchi o giardini può ridurre lo stress, migliorare il tono dell’umore e promuovere un senso di benessere generale. L’agricoltura urbana e gli orti comunitari contribuiscono alla sostenibilità alimentare, offrendo un accesso locale a prodotti freschi e promuovendo uno stile di vita più sano. Inoltre, spazi verdi ben progettati rendono le città più attraenti, invitando le persone a godere degli spazi pubblici e contribuendo a una maggiore coesione sociale. Gli alberi e le piante agiscono anche come barriere naturali contro il rumore urbano, fornendo un ambiente più tranquillo e rilassante. In sintesi, integrare il verde nelle città non solo migliora l’aspetto estetico, ma fornisce una serie di vantaggi tangibili che contribuiscono alla sostenibilità ambientale e al benessere delle comunità urbane.

Tra le città virtuose in tal senso, Singapore ha recentemente inaugurato il Singapore Green Plan 2030. Si tratta di un movimento nazionale per portare avanti l’agenda nazionale di sviluppo sostenibile di Singapore attraverso cinque pilastri principali: Città Natura, Vita Sostenibile, Rilancio Energetico, Economia Verde e Futuro Sostenibile. Per raggiungere questi obiettivi, il governo di Singapore introdurrà una serie di nuove iniziative e obiettivi nei settori della finanza verde, della sostenibilità, dell’energia solare, dei veicoli elettrici e dell’innovazione. Gli incentivi possono essere utilizzati per incoraggiare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie nel campo dell’energia solare, dei veicoli elettrici e di altri settori della finanza verde. Gli incentivi forniti dal governo di Singapore possono dare alle aziende singaporiane la vitalità di cui hanno bisogno per avviare joint venture con aziende globali esistenti o per diventare leader di mercato in futuro. Singapore, con il suo progetto di “Città Giardino”, è un esempio paradigmatico. I giardini verticali e le iniziative di piantumazione massiccia hanno trasformato la città, riducendo la temperatura urbana e contribuendo alla qualità della vita.

Città come Portland, San Francisco e Vancouver stanno adottando politiche urbane incentrate sulla sostenibilità. Programmi di riforestazione urbana, parchi accessibili e la creazione di corridoi verdi contribuiscono significativamente al benessere urbano. In Giappone, la città di Kitakyushu ha investito in progetti di riforestazione su vasta scala, dimostrando come il verde in città possa fungere da strumento di adattamento ai cambiamenti climatici. Altri esempi salienti includono Oslo, con il suo impegno per una “città verde entro il 2030”, e Copenaghen, con la sua rete estensiva di piste ciclabili e spazi aperti. La strada considerata come la “mais bonita do mundo” è in Brasile a Porto Alegre e, se è così bella, il perché lo trovate in questo sito.

Durante i miei viaggi, mi sono sempre sorpreso di vedere come metropoli e capitali (mi vengono in mente, tra le tante, Tel Aviv, San Francisco, Tokyo, Amsterdam, Berlino, Bruxelles, ecc.), stiano investendo sempre di più in questi progetti verdi, mentre in Italia si è enormemente indietro e ogni tentativo di introdurre piante e spazi aperti è quasi sempre fortemente osteggiato, adducendo le più svariate giustificazioni (alberi che cadono in testa e sulle macchine, foglie che intasano i tombini, invasioni animali cittadine, radici che distruggono l’asfalto, costi di manutenzione alti, necessità di case, ecc.). Spesso queste argomentazioni, nel migliore dei casi, sono basate sull’ignoranza dei numerosi benefici degli alberi e delle zone verdi in città; inoltre, di nuove case non ce ne sarebbe proprio bisogno, dato l’enorme calo demografico italiano, né tantomeno sarebbero necessarie molte auto se ci fosse un trasporto pubblico capillare e integrato. Molto spesso, tali scuse sono invece mosse da forti interessi delle amministrazioni locali, che evidentemente ricavano molto di più dall’edificazione di nuove aree e dagli appalti di strade, cemento e asfalto. Il tutto è condito da una scarsa pressione dal basso da parte dei cittadini, che pagano ingenti tasse comunali ma non pretendono aree verdi nelle loro città. I cittadini poi pagano di tasca loro tutti i servizi (energia elettrica per condizionatori, manutenzione di strade a causa dell’enorme tarffico cittadino, parchi gioco e ludoteche private, costi per palestre e ansiolitici, servizi per animali da compagnia, ecc.), che invece gli spazie verdi fornirebbero gratuitamente. Nella città in cui vivo, Trani, ci si affida a fior di consulenze per mappare i pochi alberi e per identificare quelli in presunte cattive condizioni (e si pagano i consulenti), si tagliano questi alberi (e si pagano i tagliatori), si potano – male – quelli sani (e si pagano i potatori), ma stranamente non se ne piantano mai di nuovi, mentre le aree disboscate vengono poi prontamente edificate o cementificate (dei pericoli del soil sealing ne avevo parlato qui).

Persino negli industrializzati USA, ci sono esempi virtuosi e paradigmatici. A Davis, in California, mi è capitato di andare a trovare un amico, il quale mi ha raccontato la storia del suo quartiere, Village Homes, attivo dagli anni ’80, con 225 case e 20 appartamenti. Il progetto presenta un’organizzazione urbana innovativa. L’orientamento delle strade e dei lotti, seguendo l’asse est-ovest e nord-sud rispettivamente, massimizza l’utilizzo dell’energia solare. Il design delle strade, con numerosi vicoli ciechi, rende meno attraente l’uso dell’auto, promuovendo percorsi pedonali verso il centro della città. Le vie seguono avvallamenti dove l’acqua piovana è indirizzata per irrigare piante e alberi, inclusi frutteti e vigneti. Le strade sono strette e prive di marciapiedi, con cul-de-sac curvati, riducendo l’esposizione al sole. Le linee curve delle strade limitano la velocità delle auto. Percorsi pedonali e ciclabili alternati alle strade attraversano aree comuni con giardini, strutture ludiche e opere d’arte. Le abitazioni si affacciano su queste aree, accentuando l’importanza di spostamenti a piedi e in bicicletta. Il sistema innovativo di drenaggio naturale, con letti di ruscelli e lagune, trattiene l’acqua piovana nel terreno, contribuendo alla conservazione dell’umidità e offrendo un elemento visivamente interessante. Gli spazi verdi sono anche funzionali, nel senso che ci sono alberi da frutto e noci, con oltre 30 varietà piantate per garantire frutti maturi praticamente ogni mese. Aree verdi produttive e ornamentali, gestite dai giardinieri, sono collocate lungo i percorsi pedonali principali. Terre agricole comprendono giardini, orti e vigneti, con il 24% del cibo coltivato nelle strade e negli orti. Il progetto include diverse soluzioni abitative e ampie aree verdi, con il 40% del terreno di proprietà comune. Purtroppo, nonostante il successo dimostrato indicano il Village Homes come modello ideale di design urbano, pochi hanno replicato il progetto in oltre 30 anni, per ragioni rimaste oscure. Qui in basso, il quartiere fotografato da me l’estate scorsa. Non vi sembra bello?

 

 

Proprio mentre stavo scrivendo questo articolo, ho letto il libro molto bello di Stefano Mancuso “Fitopolis: La città vivente“, in cui l’autore ci invita a immaginare una città in cui gli alberi possono colonizzare soprattutto le strade cittadine e i centri storici. Mancuso offre una prospettiva illuminante sull’integrazione del verde nelle città e dimostra come la progettazione sostenibile e la promozione della biodiversità possano coesistere con l’urbanizzazione. La realizzazione di tali concetti potrebbe fungere da modello per la creazione di città più belle e vivibili.

Il verde nelle città non è più solo un’opzione estetica, ma una necessità imprescindibile per affrontare sfide urbane complesse. Fortunatamente, stanno emergendo molteplici vie per trasformare gli ambienti urbani in luoghi più sani, sostenibili e armoniosi. Questo rivela una tendenza crescente verso un’urbanizzazione equilibrata, in cui l’uomo e la natura si influenzano positivamente a vicenda. La sfida ora è coltivare e diffondere queste pratiche, affinché il verde possa continuare a prosperare nelle città del futuro.

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