Apr
02
2024

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Funghi per disinquinare

L’articolo di questo mese, con un taglio di dossier, si pone l’obiettivo di analizzare, comprendere ed affrontare la delicata tematica relativa all’inquinamento del suolo, in modo particolare quello legato all’inquinamento derivante dall’abbandono dei rifiuti plastici, descrivendone le cause, gli effetti e le azioni da applicare per contrastare questo fenomeno sempre più frequente. Lo scopo è quello di contrastare gli effetti negativi sugli equilibri ambientali ed ecosistemici, applicando un metodo naturale e abbastanza efficace: il micorisanamento, ovvero l’impiego dei funghi “mangiatori di plastica”, che hanno dimostrato di essere in grado di ridurre al minimo la presenza di plastica all’interno del suolo e rendere così sani ed utilizzabili quei siti che prima versavano in condizioni di degrado. Verranno considerate anche altre tipologie di contaminanti che alterano le caratteristiche dei suoli e di come il micorisanamento possa essere utilizzato ai fini del ripristino delle condizioni ottimali dei suoli.

L’inquinamento del suolo costituisce una delle forme di inquinamento ambientale più grave e diffusa. Infatti, gli equilibri ambientali e la biodiversità sono strettamente connessi alla presenza di un suolo fertile e sano. Tra gli effetti più importanti, l’inquinamento del suolo può interessare la salubrità delle falde acquifere e le riserve d’acqua, influenzando così, inevitabilmente, anche la qualità degli alimenti. L’inquinamento del suolo consiste nella presenza di sostanze tossiche che ne alterano le caratteristiche. Esse possono essere di origine naturale o sintetica e, in molti casi, hanno effetti negativi sugli organismi viventi, con dirette conseguenze sulla catena alimentare, e la salute e il benessere umani. Questo tipo di inquinamento può essere anche meramente fisico. In questo caso è rappresentato dalle alterazioni del suolo che favoriscono smottamenti ed erosione e che, a loro volta, causano una diminuzione del suolo fertile.

Perdiamo circa 24 miliardi di tonnellate di suolo fertile all’anno. In Europa, la superficie agricola rappresenta il 25% di quella totale e circa l’80% contiene residui chimici di sintesi. Sempre in Europa, sono presenti circa 2,8 milioni di siti industriali di cui si sospetta la contaminazione. La scarsità di suolo fertile altera interi ecosistemi, innescando una grave tendenza alla desertificazione.

Tra le principali cause dell’inquinamento del suolo ci sono i rifiuti solidi, liquidi e gassosi, provenienti dalle attività antropiche. Oltre ai rifiuti domestici, ci sono quelli speciali derivanti dalle attività industriali, come per esempio idrocarburi e rifiuti contenenti diossine, metalli pesanti e solventi organici. Essi sono troppo spesso i protagonisti indiscussi di veri e propri disastri ambientali che alimentano il business degli ecoreati e il degrado ambientale, con gravi danni per la salute e l’ambiente. I prodotti fitosanitari utilizzati per combattere le principali avversità alle piante, in modo particolare nell’agricoltura intensiva, costituiscono uno dei principali responsabili dell’inquinamento del suolo. Essi causano anche inquinamento idrico e sono responsabili di danni alla salute umana a seguito alla loro ingestione. Causano, inoltre, malattie professionali agli agricoltori e a chiunque venga in contatto con queste sostanze.

L’estrazione dell’uranio, il riprocessamento e lo stoccaggio delle scorie radioattive generano anch’essi un inquinamento radioattivo. In aggiunta ci sono i disastri ambientali dovuti a malfunzionamenti e incidenti di impianti nucleari (Fukushima, Cernobyl, Three Mile Island, ecc.). A questi si aggiungono anche i residui inutilizzabili di scorie radioattive che vengono sepolti in fosse oceaniche profonde o, in alcuni casi, interrati in zone geologicamente sicure e stabili. 

 

Effetti della plastica sui suoli

Le plastiche sono contaminanti emergenti di relativamente nuova scoperta. Molto si è detto sull’inquinamento degli ambienti marini e fluviali, su cui sono già attivi e funzionanti molti progetti tesi al recupero delle plastiche. Tuttavia poco, anzi pochissimo, si conosce sull’inquinamento dei suoli. Perché? Se è relativamente semplice separare le particelle di plastica dall’acqua, non lo è nel suolo, e le tecnologie attualmente a disposizione non sono abbastanza accurate. Parallelamente, però, è sempre più evidente la presenza di plastiche nei suoli, la loro influenza sul funzionamento degli ecosistemi, il fatto che entrino nella catena alimentare sino ad attraversare addirittura la placenta degli animali.

Un terzo della plastica prodotta nel mondo finisce nel suolo, e si stima che la quantità di plastiche negli ecosistemi terrestri sia da 4 a 32 volte maggiore di quella presente negli oceani.

La crescita delle piante viene inibita dalle alte concentrazioni di plastica nel terreno. L’accumulo di residui plastici influenza anche l’idratazione del suolo, il trasporto dei nutrienti, l’attività dei microrganismi e la salinizzazione, contribuendo alla ritenzione di contaminanti, come i pesticidi. Le microplastiche diventano parte della struttura del suolo legandosi alle particelle organiche. Con l’erosione causata da acqua e vento, queste particelle possono addirittura essere trasportate in luoghi lontani, raggiungendo bacini idrici e oceani. Le microplastiche sono poi ingerite dalla micro e mesofauna del suolo, come vermi, parassiti, collemboli, enchitreidi, accumulandosi così nella catena alimentare, con un potenziale di biomagnificazione, fino ad arrivare agli uccelli che si nutrono di questi piccoli animali (FAO, Soil pollution: a hidden reality, 2018, www.fao.org/3/i9183en/ i9183en.pdf – N. R. Eugenio, 2018).

Effetti delle micro- e macroplastiche sulla catena alimentare

Nella figura in alto sono visualizzate le zone dove sono presenti microplastiche in alta concentrazione: zone industriali, atmosfera, impianti di depurazione delle acque, terreni agricoli, spiagge, porti e dighe, città e strade, discariche (Global Change Biology, 2017). I tre cerchi in alto rappresentano uno zoom sugli effetti delle microplastiche sulla composizione chimica nel suolo (Fuller & Gautam, 2016), sul microbioma del suolo (Mccormick et al., 2016) e sull’ambiente biofisico (Huerta Lwanga et al., 2017; Liebezeit & Liebezeit, 2015; Maass et al., 2017; Rillig, Ziersch, et al., 2017; Zhu et al., 2018).

Foraggio rivestito con pellicola plastica per riparo dalle intemperie

La plastica è onnipresente in agricoltura. Infatti, le macroplastiche sono utilizzate come involucri protettivi attorno a pacciame e foraggi, coprono le serre e proteggono le colture dagli elementi, vengono utilizzate nelle tubazioni per l’irrigazione, sacchi e contenitori. Le microplastiche, invece, vengono aggiunte intenzionalmente ed utilizzate come rivestimenti su fertilizzanti, pesticidi e semi.

C’è solo una quantità limitata di terreno agricolo disponibile” – ha affermato Elaine Baker, Professoressa di Scienze Marine presso l’Università di Sydney e Direttrice ufficio GRID-Arendal (partner dell’UNEP) presso la stessa Università. “Stiamo iniziando a capire che l’accumulo di plastica può avere impatti ad ampio raggio sulla salute del suolo, sulla biodiversità e sulla produttività, tutti elementi vitali per la sicurezza alimentare”.

Nel tempo, le macroplastiche si decompongono lentamente in microplastiche di frammenti lunghi meno di 5 mm e penetrano nel terreno. Queste microplastiche possono modificare la struttura fisica del suolo e limitarne la capacità di trattenere l’acqua. Ciò può influenzare le piante, riducendo la crescita delle radici e l’assorbimento dei nutrienti. Gli additivi chimici nella plastica che filtrano nel suolo possono anche avere un impatto sul valore degli alimenti e portare a implicazioni per la salute, entrando nella catena alimentare.

La principale fonte di inquinamento da microplastica nel suolo sono i fertilizzanti prodotti con materia organica, come il letame, conosciuti come biosolidi, che dovrebbero essere più salubri per l’ambiente rispetto ai fertilizzanti di sintesi. Purtroppo nel letame si mescolano le microsfere, le minuscole particelle sintetiche comunemente utilizzate nel sapone, shampoo, trucco e altri prodotti per la cura personale, il che è motivo di preoccupazione. Esempi di fonti e trasporto di plastica e co-contaminati dalla produzione agricola all’ambiente (Fonte: “Plastics in agriculture: sources and impacts”, 2021).

Secondo uno studio, pubblicato il 1° luglio 2022 su Environmental Pollution e condotto da ricercatori dell’Università di Cardiff, i terreni agricoli d’Europa sono potenzialmente il più grande serbatoio globale di microplastiche a causa delle alte concentrazioni presenti nei fertilizzanti derivati dai fanghi di depurazione. Ogni anno, sui suoli dei terreni agricoli europei, sarebbero sparse tra le 31.000 e le 42.000 tonnellate di microplastiche.

Alcuni Paesi hanno vietato le microsfere di plastica, ma molte altre continuano ad entrare nel sistema idrico (nell’UE il divieto è scattato dal 1° gennaio 2021, ma in Italia è stato anticipato di un anno, valido solo per gli esfolianti e i detergenti a risciacquo), tra cui quelle dei filtri delle sigarette, dei sistemi di abrasione degli pneumatici e quelle derivanti dalle fibre sintetiche dei vestiti. Gli esperti affermano che le dimensioni e le composizioni variabili delle microplastiche le rendono difficili da rimuovere una volta che sono nelle acque reflue.

Attualmente, si stanno compiendo progressi per migliorare la biodegradabilità dei polimeri utilizzati nei prodotti agricoli. Alcuni teli per pacciamatura, utilizzati per modificare la temperatura del suolo, limitare la crescita delle erbe infestanti e prevenire la perdita di umidità, vengono ora commercializzati come completamente biodegradabili e compostabili, ma ciò non è sempre vero. Inoltre, i ricercatori sottolineano che la produzione di polimeri a base biologica non dovrebbe generare concorrenza per il suolo con quella utilizzata per produrre cibo. Possono essere utilizzate anche le cosiddette colture di copertura, che proteggono il suolo e non sono destinate alla raccolta. Queste soluzioni basate sulla natura (nature-based solutions, NBS) possono sopprimere le malerbe, contrastare le malattie del suolo e migliorarne la fertilità, ma si teme che possano ridurre i raccolti e aumentare i costi.

Nessuna di queste soluzioni è una bacchetta magica – ha aggiunto Baker – La plastica è economica e facile da lavorare, il che rende difficile provare a introdurre alternative “.

Secondo la ricercatrice, i governi devono “disincentivare” l’uso della plastica in agricoltura, seguendo il percorso dell’UE che ha limitato l’uso di alcuni tipi di polimeri nei fertilizzanti. Baker ha anche affermato che sono necessarie ulteriori ricerche per sviluppare prodotti, come alcuni tessuti alternativi, che non perdano microplastiche, mentre i consumatori dovrebbero essere incoraggiati a riconsiderare il loro consumo di plastica e i produttori a ridurre la quantità di plastica che usano.

Sebbene ci siano molte ricerche limitate all’impatto della plastica nel suolo, ci sono già prove di effetti negativi sulla salute e sulla produttività del suolo – ha concluso la ricercatrice – Ora è il momento di adottare il principio di precauzione e sviluppare soluzioni mirate per fermare il flusso di plastica dalla fonte e nell’ambiente”.

 

Il micorisanamento

Le complesse dinamiche che caratterizzano l’habitat dei suoli, costituiscono un ostacolo non indifferente alla ricerca scientifica, determinando una discrepanza tra i dati disponibili utili a stabilire l’entità dei danni e il tipo di intervento più idoneo al risanamento dei siti contaminati dalle diverse forme di inquinamento de suolo.

Il biorisanamento è una NBS che si basa sul metabolismo microbico di microrganismi, ambientali o artificiali, capaci di biodegradare e detossificare le sostanze inquinanti. Le diverse tecniche di micorisanamento si possono applicare in situ o in ex situ.

Le materie plastiche prodotte dalle diverse attività antropiche sono molteplici, con altrettante caratteristiche fisico-meccaniche, e la loro presenza in ambienti terresti deriva principalmente da fanghi attivi smaltiti in campo, teli di pacciamatura, irrigazione con acque reflue, inondazioni, ricadute atmosferiche, abrasione degli pneumatici, scarico illegale di rifiuti, ecc. Arrivate nell’ambiente, le plastiche hanno un impatto su tutti gli organismi viventi, causandone danni fisici e fisiologici, sino a provocarne la morte.

Secondo un rapporto della Commissione Europea ogni anno inaliamo o ingeriamo dalle 39.000 alle 52.000 particelle plastiche l’anno, l’equivalente di una carta di credito. Su queste premesse, la pratica del micorisanamento costituisce una valida soluzione alla riduzione di tali inquinanti nel suolo.

Le mascherine chirurgiche impiegano fino a 450 anni per decomporsi totalmente

Per secoli, i funghi che sono stati impiegati come prodotto alimentare proveniente dal bosco o da funghicoltura, oltre ad essere caratterizzati da esclusive proprietà aromatiche, organolettiche e proteiche, si sono rivelati essere più che semplici prodotti alimentari. Infatti, è stato scoperto che i funghi hanno una propensione unica a scomporre gli inquinanti, inclusi petrolio e pesticidi, e a estrarre o legare metalli pesanti, fino a contrastare persino le radiazioni (Ali & Di, 2017). I funghi sono inoltre in grado di filtrare l’acqua, supportando innumerevoli cicli vitali rigenerativi per gli ecosistemi.

Il micorisanamento è un metodo che utilizza il micelio dei funghi (la parte vegetativa di un fungo) in siti di terreno contaminati come trattamento riparatore. Gli enzimi prodotti da un fungo sono efficaci nell’abbattere molti diversi inquinanti. In sostanza, questo metodo sfrutta le naturali capacità di decomposizione dei funghi per ripristinare e rigenerare il terreno.

L’accumulo di metalli pesanti e sostanze chimiche tossiche nel nostro ambiente è un problema grave e sempre persistente. Queste tossine finiscono nella nostra catena alimentare (come metalli pesanti, PCB e diossine) e vanno incontro a bioaccumulo, ovvero l’accumulo graduale di una determinata sostanza chimica nel tessuto vivente di un organismo dal suo ambiente che può derivare dall’assorbimento diretto dall’ambiente o dall’ingestione di particelle di cibo. I miceli fungini possono rimuovere queste tossine nel terreno prima che possano entrare nelle nostre riserve di cibo e, infine, nel nostro corpo.

Il micelio è la parte vegetativa dei funghi: si tratta di filamenti bianchi sotterranei, chiamati ife, con una struttura siile a quelle delle radici e delle ragnatele, i quali sono colonizzano i suoli e altri ambienti ricchi di umidità, come i tronchi di alberi in decomposizione. Le ife sono deputate all’assorbimento di acqua e nutrienti.

Il micelio può essere persino resistente al fuoco e si è rivelato uno strumento straordinario per gli sforzi di risanamento ambientale. Alcune specie di funghi vengono addirittura “addestrate” nei laboratori per digerire rifiuti plastici, come mascherine polipropilene e guanti di plastica (Alexander, 2019). La maggior parte della degradazione avviene prima che si formi il corpo fruttifero; le tossine e i rifiuti vengono completamente assorbiti dal fungo in genere entro poche settimane (Alexander, 2019), un dato molto incoraggiante, visto che il tempo di degradazione delle plastiche nel suolo si può protrarre per decenni o secoli.

Micelio fungino

Il processo con cui i funghi decompongono la plastica coinvolge una famiglia di enzimi chiamati laccasi, i quali scompongono i polimeri in molecole più piccole, che possono poi essere assorbite dal fungo. Questo processo richiede da due settimane a diversi mesi, a seconda del tipo di plastica utilizzata.

Struttura tridimensionale di una laccasi

I funghi utilizzano una combinazione di enzimi per scomporre le catene di polimeri che costituiscono la plastica. Gli enzimi lavorano insieme ad altri microrganismi, come i batteri, per accelerare il processo. Oltre a scomporre la plastica, questi funghi rilasciano anche sostanze nutritive nel terreno, favorendo la crescita delle piante. Le laccasi sono in grado di scomporre le molecole più grandi in molecole molto più piccole, le quali possono essere assorbite dal fungo stesso o da altri microrganismi che vivono nel suolo. Infatti, i funghi si sono evoluti nel corso di milioni di anni per scomporre molecole complesse in componenti più semplici e più facili da metabolizzare. Questo processo è noto come biodegradazione: gli enzimi prodotti dai funghi rompono i legami tra gli atomi dei polimeri per rimpicciolirli e assorbirli nelle loro cellule. Come avviene per gli enzimi digestivi dell’uomo, i funghi digeriscono i polimeri.

Tempi di degradazione di diverse tipologie di rifiuti

 

Il ruolo dei batteri nel micorisanamento

Oltre ai funghi, anche i batteri svolgono un ruolo importante nel micorisanamento. Le popolazioni batteriche si affiancano a quelle fungine e contribuiscono a facilitarne i processi di decomposizione, producendo enzimi aggiuntivi che abbattono ulteriormente i polimeri. Questa categoria di batteri in grado di scomporre gli agenti contaminanti presenti nel suolo, comprende anche i batteri idrocarburoclastici (da qui la sigla BIC), ovvero organismi che si “nutrono” di petrolio utilizzandolo per i loro processi metabolici. I batteri secernono anche acidi organici che aiutano a sciogliere alcuni tipi di plastica e agiscono come catalizzatori per la produzione di enzimi fungini. Questa relazione simbiotica tra batteri e funghi rende il micorisanamento uno strumento ancora più efficace.

 

Funghi che degradano la plastica

Attualmente sono state identificate diverse specie di funghi mangiatori di plastica. Ognuna di esse presenta capacità più o meno accentuate nello scomporre diversi tipi di plastica, ma tutte e tre condividono alcuni tratti comuni.

Pestalotiopsis microspora

Questa specie è stata scoperta per la prima volta nei terreni della foresta amazzonica ecuadoriana, dove è stata osservata mentre decomponeva campioni di poliuretano espanso nel giro di poche settimane. È in grado di digerire sia le pellicole di polietilene a bassa densità (LDPE) comunemente utilizzate per gli imballaggi alimentari, sia le pellicole di polietilene ad alta densità (HDPE) tipicamente utilizzate per la produzione di bottiglie.

Pleurotus ostreatus e Schizophyllum commune 

L’inquinamento da plastica è una crisi globale e la scoperta dei funghi “mangiaplastica” è stata accolta come una soluzione rivoluzionaria. Due specie di funghi che si sono dimostrate promettenti in questo campo sono il Pleurotus ostreatus (il comune cardoncello) e lo Schizophyllum commune. Sul cardoncello ci ho lavorato anche io qualche anno fa e abbiamo pubblicato questo lavoro in cui è stato dimostrato che questo fungo è in grado di degradare persino sostanze medicinali.

Pleurotus ostreatus

Entrambi sono in grado di digerire il poliuretano, uno dei principali componenti di alcune plastiche. Sebbene siano necessarie da due settimane a diversi mesi per scomporre la plastica, a seconda del tipo utilizzato, questi funghi potrebbero essere uno strumento efficace per la bonifica dei rifiuti plastici.

Schizophyllum commune

Aspergillus tubingensis 

Aspergillus tubingensis è un’altra specie che ha la capacità di degradare poliuretano. È stata scoperta nel 2018 dai ricercatori dell’Università di Kyoto e da allora è diventata uno strumento importante per la bonifica dei rifiuti plastici. Questa particolare specie di funghi impiega circa due settimane per scomporre e consumare la plastica, a seconda del tipo di plastica utilizzata. Questo lo rende un efficiente digestore per sbarazzarsi efficacemente dei rifiuti di plastica.

 

Ma i funghi “mangiaplastica” sono commestibili?

La risposta breve è no: Aspergillus tubingensis e altri funghi mangiatori di plastica non sono commestibili e non dovrebbero essere consumati. Tuttavia, alcuni di essi, come il comune cardoncello, possono essere consumati. Inoltre, la ricercatrice australiana Katharina Unger ha creato un prototipo chiamato Fungi Mutarium che può essere utilizzato per coltivare questi funghi commestibili in grado di degradare plastica. Fungi Mutarium, un progetto di Livin Studio in collaborazione con l’Università di Utrecht, è un prototipo per coltivare una biomassa fungina commestibile, principalmente miceli, come un nuovo prodotto alimentare.

 

I potenziali benefici del micorisanamento

Il micorisanamento è un processo che prevede l’utilizzo di funghi per scopi di bonifica, come la degradazione di sostanze inquinanti quali gli idrocarburi derivanti dal petrolio (vedete, se vi va, questo lavoro che ho pubblicato qualche anno fa) o i policlorobifenili (PCB). Lo stesso processo può essere applicato alla plastica utilizzando alcune specie di funghi che si sono evolute nel tempo con la capacità di scomporre le catene di polimeri in composti più piccoli. Utilizzando le tecniche di micorisanamento, i ricercatori possono coltivare ceppi specifici di funghi che si nutrono di materiali sintetici come la plastica. Creando un ambiente in cui questi funghi possano prosperare, gli scienziati sperano che i loro sforzi portino a metodi più efficaci per scomporre i materiali artificiali in modo più rapido che mai. Grazie al micorisanamento, potremmo aver trovato un potente strumento per ridurre la nostra dipendenza dalla plastica e salvare il nostro pianeta!

Tra i benefici si possono annoverare:

  • Riduzione della necessità di spazio in discarica, grazie alla diminuzione della quantità di materiali non biodegradabili che vengono
  • Fonti d’acqua più pulite, grazie alla riduzione della lisciviazione dalle discariche nei corpi idrici
  • Uso più efficiente delle risorse, grazie alla trasformazione di ciò che altrimenti sarebbe un rifiuto in materiale

Utilizzando il micorisanemento, potremmo potenzialmente creare un’economia sostenibile e circolare basata sulla coltivazione dei funghi.

Un tipo di economia che ci aiuterebbe a ridurre la nostra dipendenza da materiali non biodegradabili, fornendoci al contempo fonti di cibo. Questo potrebbe rivoluzionare il nostro approccio alla soluzione di problemi ambientali globali, come l’inquinamento da plastica, migliorando al contempo i risultati in termini di salute della collettività.

 

Micorisanamento applicato ad altre tipologie di contaminanti

“Già in passato, i funghi hanno dimostrato grande capacità di sopravvivere e anzi di prosperare di fronte a mutamenti ambientali di grande portata: i funghi che decompongono il legno ebbero un ruolo importante nella transizione da un’epoca chiamata Carbonifero, in cui a causa dell’assenza di decompositori di lignina, il grande accumulo dei resti di alberi nel sottosuolo era stato causa di un importante cambiamento climatico. Proprio grazie alla loro capacità “decostruttiva” questi organismi hanno dimostrato capacità di sopravvivere alle devastazioni ambientali. Non soltanto la lignina, ma numerosi altri inquinanti possono essere digeriti e usati come fonte di sostentamento dai funghi: dai mozziconi di sigaretta ai pesticidi, a vari tipi di rifiuti agricoli, i funghi sanno trasformare vari inquinanti pericolosi per la vita umana e ripristinare ecosistemi gravemente danneggiati. I limiti relativi a queste pratiche di micorisanamento dipendono in larga parte dalla complessità di questi organismi: i funghi proliferano in modo irriducibilmente imprevedibile, così come il loro comportamento rispetto agli inquinanti rimane complesso. Il micorisanamento si configura come una forma di “digestione esterna”, o un’esternalizzazione di processi digestivi: un’associazione in cui organismi diversi intonano insieme una canzone metabolica che da soli non saprebbero cantare. In questa relazione, i funghi si configurano sia come tecnologie, che come partner degli esseri umani.”

Agganciandosi a questo concetto proposto da Merlin Sheldrake, biologo e scrittore naturalista, ci si rende conto di quanto sia vasto e complesso il mondo dei funghi, di come sia fondamentale la loro presenza negli ambienti per il mantenimento degli equilibri ecosistemici e di quanto siano variegate le loro funzioni in natura.

Oltre ad essere una pratica efficace e risolutiva, il micorisanamento trova impiego nel trattamento dei siti che oltre ad essere soggetti ad inquinamento plastico sono alterati dalla presenza di altri contaminanti. Ripristinare il suolo contaminato decomponendo le sostanze tossiche e risolvendo, alla base, il problema dello smaltimento è la missione di un interessante progetto dell’University of Wisconsin-Stevens Point che vede per protagonisti proprio i funghi. Oggetto della sperimentazione è stato un blocco di terra carico di petrolio. A novembre i ricercatori hanno iniziato a coltivarci funghi di buona qualità, con risultati sorprendenti. La terra non trattata si presentava fortemente odorosa di petrolio, mentre dove i funghi sono stati coltivati e cresciuti, invece, il suolo ha iniziato ad avere un buon profumo, un indizio che potrebbe essere il preludio di risultati interessanti.

Sito inquinato da sversamento di petrolio

L’olfatto, ovviamente, non fornisce una prova definitiva. Ma gli studiosi ritengono che le analisi di laboratorio possano confermare l’ipotesi più ottimistica. La speranza, insomma, è che i funghi abbiano saputo portare a termine il loro compito “ripulendo” di fatto il terreno dalle sostanze nocive che avrebbero potuto renderlo inutilizzabile.

Anche nei casi più critici di inquinamento del suolo non mancano i vantaggi. Per esempio, nel suolo contaminato da metalli pesanti, i funghi assorbono le sostanze nocive diventando a loro volta tossici. Ad essere ripristinato però è il terreno che, di conseguenza, non deve più essere bonificato. A quel punto, quindi, lo smaltimento riguarda solo i funghi. Con conseguente risparmio di spazio in discarica. Grazie a questo processo è quindi possibile ridurre i costi di smaltimento. Nel corso degli anni, gli esperimenti non sono mancati. Il micorisanamento è stato utilizzato anche per decontaminare i terreni dai pesticidi. Si trovano, infatti, studi di come i funghi riescano a scomporre pesticidi e molti farmaci. Paul Stamets, nel suo libro “Mycelium Running”, descrive molto bene come i funghi Trametes spp. e Psilocybe azurescens riescano a scomporre addirittura una potente neurotossina, il dimetilfosfonato. Grazie a queste capacità, il micelio della coltivazione di funghi, si presenta anche come la soluzione per filtrare l’acqua da Escherichia coli, colera, Listeria e altri agenti patogeni; fosfati, fertilizzanti, interferenti endocrini, metalli pesanti e rifiuti tossici a base di petrolio. Nel 2017, inoltre, alcuni ricercatori cinesi hanno isolato un altro fungo in grado di digerire il poliuretano. Pare, infatti, che ci sia un fungo, il Pestalotiopsis microspora, che ha una caratteristica molto particolare: si nutre quasi esclusivamente di poliuretano. Questo materiale è un polimero plastico particolarmente resistente, utilizzato in molteplici contesti, che si decompone in modo spontaneo nel giro di centinaia di anni. Sedili, tubi, imbottiture, imballaggi: il poliuretano è praticamente ovunque, ma con questo fungo la sua permanenza nell’ambiente potrebbe essere ridotta, e di molto. Ciò che differenzia il Pestalotiopsis dagli altri funghi in grado di “aggredire” la plastica è che può farlo anche in ambienti anaerobici, dunque senza ossigeno. Questo vuol dire che, potenzialmente, potrebbe crescere e proliferare anche in luoghi come fondi di discariche, dando un aiuto fondamentale a degradare più velocemente le inquinanti materie plastiche. I benefici e i vantaggi di questo utile organismo naturale scoperta sono stati descritti dal team di scienziati di Yale in un articolo pubblicato sulla rivista Applied and Environmental Microbiology. I ricercatori hanno fatto sapere che sono riusciti a isolare l’enzima che il fungo usa per sciogliere il legame del poliuretano, la serina idrolasi.

L’efficacia di queste tecniche, tuttavia, appare ancora variabile e sembra essere condizionata da tanti fattori. Proprio per questo, saranno necessarie ulteriori ricerche negli anni a venire per esplorare le opportunità di una strategia che resta in ogni caso promettente. È stato osservato, infatti, che alcuni interventi con Pleurotus spp. hanno avuto pieno successo nel degradare gas sarin e alcuni gas nervini. I fattori fisici che influenzano tali processi sono la temperatura, la presenza di ossigeno ed il pH (i funghi preferiscono lavorare in condizioni di pH acido).

Gas nervino

Altri risultati soddisfacenti, utilizzando funghi dello stesso genere, sono stati ottenuti in un terreno contaminato da gasolio sottoposto a pratica di micorisanamento. Dopo quattro settimane più del 90% degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) è stato degradato a componenti non tossici, anche grazie alla sinergia che si era creata con la flora microbica naturale presente nel terreno.

 

Conclusioni

Il potenziale dei funghi come risorsa sostenibile nella lotta contro l’inquinamento da plastica ha preso sempre più piede negli ultimi anni. Con la scoperta di nuove specie di funghi in grado di scomporre diverse sostanze inquinanti o di digerire il poliuretano, scienziati e imprenditori stanno esplorando modi per sviluppare un’economia basata su questi funghi “mangiaplastica”. Da questo ne scaturisce che la coltivazione dei funghi non è solo un’opzione valida per ridurre i rifiuti di plastica ma potrebbe anche creare posti di lavoro e offrire opportunità economiche alle comunità colpite dall’inquinamento da plastica.

L’excursus dei funghi mangiaplastica è stato finora un’incredibile storia di successo. Dai loro umili inizi come semplici funghi che crescevano in natura a fenomeno globale. Non solo questi funghi stanno aiutando a ridurre la quantità di inquinamento da plastica nell’ambiente ma potrebbero costituire in futuro una fonte di nutrimento sostenibile e rinnovabile per le diverse popolazioni del mondo o per le generazioni future. Con ulteriori ricerche e sviluppi, questa tecnologia rivoluzionaria potrebbe un giorno fornirci un modo davvero sostenibile per ridurre la nostra dipendenza dalla plastica e i suoi effetti negativi sull’ambiente.

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