Set
24
2019

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Un approccio empatico

 

Parlo ancora una volta del Giappone, stavolta aiutandomi con molte immagini perché, credo siano più esplicative delle mie parole nel dipingere un popolo che nutre un profondo rispetto nei confronti della natura, delle piante e degli alberi in particolare. Seppure con molte contraddizioni (come la caccia ai grossi cetacei e la pesca indiscriminata di specie ai vertici della catena alimentare marina, e lo scarso utilizzo di energie rinnovabili), il Giappone stupisce per il suo profondo rispetto nei confronti degli alberi. La cultura shintoista considera infatti divinità anche gli elementi naturali, come le piante, le rocce, l’acqua e l’aria. Sugli altari dei templi shintoisti è facile trovare non statue né quadri, ma rami, alberelli, rocce e talvolta niente (le divinità aeree). A volte, queste divinità sono vestite con cappellini e bavaglini lavorati a mano, come se fossero bambini da accudire e a cui voler bene.

 

 

Nell’immenso Yoyogi Park e nei pressi del santuario Meiji, nel cuore di Tokio, è facile imbattersi in persone che fanno yoga tra gli alberi, che li abbracciano come se fossero vecchi amici, che pregano e contemplano di fronte ad essi. E, ancora, alberi secolari e monumentali risiedono in grandi parchi, in giardini, ma anche in minuscoli cortili, come questo cedro dell’Himalaya (Cedrus deodara) nella zona dei templi attorno al parco di Ueno, a Tokyo.

 

O questo cedro giapponese (Cryptomeria japonica) in un anfratto del santuario Kasuga a Nara.

 

E ancora, alberi che ricordano o hanno assistito ad eventi o che testimoniano episodi importanti, come gli alberi reduci di Hiroshima o quelli derivanti da essi.

 

In molti parchi pubblici, vere e proprie foreste nel cuore di città cementificate e densamente popolate, o nei giardini bellissimi di Tokyo, Okayama e Kanazawa, o nei templi di Nara, Ise e Kyoto, gli alberi sono curati con esche naturali che agiscono contro i parassiti del legno, coperti con tessuti naturali e piccole palizzate, sostenuti con pali di legno e corde per evitare che i rami più vecchi e sbilanciati cadano o si spezzino, cicatrizzati con tappi e cerotti quando i rami cadono naturalmente o sono tagliati per potature di emergenza, spesso per evitare attacchi dei parassiti che, in un clima così umido e spesso caldo, proliferano velocemente.

 

 

Si tagliano gli esemplari con il fusto più alto e regolare per farne colonne per gli immensi portali di accesso (torii) shintoisti (come è avvenuto per le colonne dei nostri templi, da quelli greci fino alle cattedrali romaniche e gotiche). Questo avviene anche frequentemente, dal momento che i templi sono di solito ricostruiti ad intervalli di 20 anni.

 

 

Si venerano rami e fronde (qualcosa del genere ricordano le fronde e i rami durante domenica  delle Palme o i culti arborei nel Meridione d’Italia retaggio di religioni precristiane). Rami di camelia, magnolia, bambù e ciliegio sono esposti in vasi disposti sugli altari dei templi shintoisti di tutto il Paese.

 

 

Nel santuario di Ise, sobrio e solenne, c’è un esemplare di cedro giapponese la cui corteccia è completamente liscia per tutte le volte che i fedeli l’hanno toccata con venerazione, come per il piede della statua bronzea di San Pietro in Vaticano.

 

Anche le radici sono oggetto di ammirazione e venerazione.

 

In Giappone, molti cimiteri sono immersi nella natura, con tombe circondate da alberi ad alto fusto, come il monumentale Okunoin, posto in un bosco fitto e misterioso di criptomerie.

 

Per non parlare dei fiumi di persone che in primavera vanno nei giardini per ammirare la fioritura dei ciliegi.

 

P.S.

Perché questo articolo? Non certo solo per elogiare il rapporto tra uomo e natura proprio della cultura giapponese (ne abbiamo ottimi esempi anche noi, nella nostra cultura), che comunque ammiro molto, o per spiattellare le mie esperienze lavorative. Mi rendo conto che negli ultimi articoli di questo blog abbia dato meno enfasi agli aspetti più meccanicistici e riduzionisti, che pure hanno caratterizzato e caratterizzano la mia formazione scientifica. Questo cambiamento potrebbe essere oggetto di critiche. Ritengo che, oggi più che mai che sia urgente e necessario anche un approccio emotivo nei confronti dei problemi ambientali. Gli effetti dei cambiamenti climatici sono ormai drammatici e le preoccupazioni ad essi correlate si riflettono in molti campi, dal cinema – anche fantascientifico e più “leggero” (vedi il divertente Downsizing) – alle proteste giovanili ispirate da Greta Thunberg, alle nuove politiche (vedi le recenti decisioni “green” della Germania e, speriamo, di tutti gli altri paesi europei) e così via. Persino nella letteratura scientifica, più restia ai cambiamenti paradigmatici, si sta assistendo ad un profondo cambiamento di rotta, con la presenza di riviste come Plants, People, Planet o Nature Ecology and Evolution, le quali pubblicano lavori basati su una visione interdisciplinare, olistica e a volte anche empatica del mondo vegetale.

Sono convinto che ci troviamo in piena emergenza, con un punto di non ritorno ormai prossimo, se non superato. È stato ormai dimostrato, semmai ce ne fosse stato bisogno, che il cambiamento climatico è causato dall’uomo e che bisogna fare presto, per cui non c’è più tempo per ulteriori studi ma bisogna mettere in pratica quello che già si sa. I biologi vegetali devono essere consapevoli che, mentre stanno studiando il trasporto dell’auxina o i tricomi delle foglie di olivo (per dirne due a caso), a causa di deforestazione e incendi, scompaiono miliardi di alberi e, in generale, le piante si stanno estinguendo ad un tasso doppio rispetto a quello di mammiferi, anfibi e uccelli messi insieme. Eppure, anche tra scienziati e docenti universitari, c’è ancora chi nega questa evidenza.

I cambiamenti culturali e industriali necessari perlomeno per affrontare l’emergenza sono però troppo lenti. Al contrario, tutti gli organismi fotosintetici, dai batteri alle alghe alle piante, sono “pronti all’uso” perché assorbono CO2 dall’aria utilizzando solo energia solare, acqua e pochi nutrienti minerali. Loro hanno avuto a disposizione miliardi di anni di tentativi che hanno permesso loro di colonizzare tutta la Terra e di ambientarsi alle nicchie ecologiche più ostili e remote.

Dobbiamo far tesoro di questo tempo, perché noi non ne abbiamo più.

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