Set
21
2009
0

Ginko biloba

L’albero più antico del mondo



Femminuccia (in alto) e maschietto (in basso) di Gingko con rispettive chiome

   

 

Nell’orto botanico di Jena ho visto insieme per la prima volta due esemplari (maschio e femmina) di Ginkgo biloba. Si tratta di una specie arborea antichissima, risalente a circa di 250 milioni di anni fa – quindi al Mesozoico dominato dai rettili – e appartenente alle Gimnosperme, cioè piante a seme “nudo” e cioè non racchiuso in un frutto (in parole povere è una conifera così come abeti, pini, larici, tassi, cipressi, ecc.). Piante molto simili al Ginkgo erano diffuse su tutte le terre emerse nel Giurassico e nel Cretaceo, ma poi andarono progressivamente scomparendo, tranne questo grande albero che Darwin definì “fossile vivente”.

E’ un albero imponente, a lento accrescimento, molto longevo, che può superare i 30 metri di altezza. La sua corteccia è di colore bruno chiaro, con venature longitudinali. In realtà il Ginkgo è molto particolare non solo perché antico, ma perché molto diverso da tutte le altre conifere a noi familiari. Prima di tutto le foglie, le quali non sono aghiformi ma hanno un lungo picciolo e una lamina di colore verde chiaro che in autunno assume una colorazione giallo-vivo molto decorativa, dalla spettacolare forma a ventaglio (foglia labelliforme bilobata, da cui il nome della specie).

I sessi sono separati ed in foto potete vedere le notevoli differenze di portamento e di architettura della chioma nel maschio e nella femmina. L’impollinazine è anemofila e avviene in autunno. Quelli che sono chamati “frutti” sono in realtà i semi rivestiti da un involucro carnoso di colore giallo (somigliano vagamente a prugne o albicocche) con odore sgradevole a maturità. E’ inutile dire che i semi sono presenti solo sugli alberi femminili e che quindi questi ultimi sono stati poco coltivati per evitare lo sgradevole odore rancido dei semi, dovuto alla presenza di acido butirrico nell’involucro carnoso esterno, mettendo a rischio di estinzione la specie. Inoltre, la specie sicuramente si sarebbe estinta, se non fosse stata venerata dai monaci buddisti, che la ritenevano sacra e quindi la coltivavano continuamente nei loro orti, propagandola nel tempo.

Ma il Ginkgo si propagò anche nello spazio. In occidente giunse verso la metà ‘700, quando i primi esemplari approdarono negli orti botanici prussiani. Successivamente si è diffuso come pianta ornamentale ed oggi si trova in numerosi esemplari sparsi in giardini e parchi anche italiani. Fino a poco tempo fa era ritenuto estinto allo stato libero ma recentemente si sono scoperti popolamenti naturali nella provincia dello Zhejiang (Cina nordorientale).

Tornando alla definizione di Darwin, questo albero è considerato un “fossile vivente”, un sopravvissuto fra tutte le piante, che 300-250 milioni di anni fa hanno iniziato il tentativo di riprodursi mediante semi inclusi in un frutto. Si può quindi definire sia come una Gimnosperma “evoluta” che come una Angiosperma “primitiva”. Considerando che le Gimnosperme che dominarono nel Mesozoico si sono tutte estinte e che prima delle Gimnosperme non si poteva parlare di veri e propri alberi, il Gingko si può considerare l’albero più antico presente sulla della Terra, ed è anche uno dei più longevi, dal momento che può raggiungere i 1000 anni di vita.

Sebbene nelle foglie di Ginkgo biloba ci siano molte sostanze attive, le più importanti e tipiche della specie sono ginketolo, isiginketolo, bilabetolo, ginkolide (sono flavonoidi a struttura terpenica), che hanno un’azione vasodilatatrice con attività sulle funzioni cerebrovascolari e vengono utilizzate per combattere la malattia di Alzheimer. E infatto. il Ginkgo fu citato per la prima volta nel 2800 a.C. nella materia medica cinese. E’ inoltre utile nei disturbi auditivi e dell’equilibrio e per le malattie respiratorie.

In Oriente è chiamato “albero della vita” per via delle foglie più o meno marcatamente suddivise in due parti ma comunque unite, simboleggia il principio dello Yin e dello Yang, del Maschile e del Femminile, del principio secondo il quale la realtà è regolata dagli opposti.

Un’ultima curiosità: il nome scientifico fu attribuito dal botanico tedesco Engelbert Kaempfer: “ginkgo” deriverebbe dai termini cinesi “gin” (‘argento’) e “xìng” (‘albicocca’): da cui “ginxìng” o ‘albicocca d’argento’, in giapponese “ginkyo”.  “Ginkgo” è quindi un nome erroneo, causato da un errore di stampa riportato da Linneo (in Mantissa plantarum, 1767), al posto di “Ginkyo”, che rappresenta la pronuncia originale del nome giapponese; questo nome però è ormai fissato dalle regole di nomenclatura.

Quando si dice strano fino alla fine!

 

Grazie a loro, ho scritto:

Sasaki K et al. Effects of bilobalide on gamma-aminobutyric acid levels and glutamic acid decarboxylase in mouse brain. Eur J Pharmacol. 1999; 367:165-73.

Diamond BJ et al. Ginkgo biloba extract: mechanisms and clinical indications. Arch Phys Med Rehabil. 2000; 81:668-78.

http://www.regione.piemonte.it/parchi/ppweb/rivista/2006/159/ginko.htm

http://www.ortobotanico.unipd.it/ginkgo.htm

Appunti personali

Foto: personali, giardino botanico di Jena, Germania.

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Set
10
2009
1

Olivo


Le foto che vedete sono di uno splendido esemplare di olivo. Il problema stavolta è capire se è una vecchia varietà di olivo, una varietà inselvatichita oppure la rara forma selvatica di olivo (olivastro). L’albero si trova in Basilicata, tra Craco e S. Mauro.

Come si evince dalla foto, l’albero è monumentale (circa 12 metri di altezza e con una notevole circonferenza del tronco) ed isolato tra seminativi. I frutti sono neri e  tondi, con un diametro superiore di circa 7 mm. Le foglie piuttosto larghe e corte ricordavano quelle della fillirea.

L’olivastro è un po’ una leggenda, perché non si è mai capito se esiste ancora la varietà selvatica di olivo e soprattutto se è mai arrivata nel nostro Paese. È un albero strettamente legato alla storia delle popolazioni del Mediterraneo. Sembra infatti che l’olivo sia originario del Medio Oriente e da qui le prime varietà coltivate da olio siano state propagate dai Fenici in Grecia circa 5500 anni fa. Da qui passò in Italia mediante i commerci con i Romani e da questi ultimi introdotto in Africa settentrionale.

Quello in foto ha alcune caratteristiche tipiche dell’olivastro (foglie e frutti piccoli, corteccia relativamente liscia di colore grigio cenere, chioma espansa) ma altre tipiche dell’olivo coltivato (habitus arboreo, e quindi non arbustivo come nell’olivastro, rami non pungenti). Propenderei quindi più per la vecchia varietà coltivata che per l’olivo selvatico. E’ anche possibile che con il tempo – l’albero in foto, a occhio e croce, ha almeno 3 secoli! – si sia inselvatichito e abbia assunto caratteristiche fenotipiche, latenti ma sempre presenti nel genoma, tipiche dell’olivastro. Sembra infatti che il corredo cromosomico sia rimasto diploide anche nelle specie coltivate (46 cromosomi come nell’uomo) e che quindi le caratteristiche dell’olivo coltivato siano solo dovute alla gestione della chioma e alla coltivazione da parte dell’uomo.

Ci sarebbe molto da dire sull’olivo e sulla sua fisiologia ma non voglio scocciarvi. E’ una pianta eccezionale resistente a tutto: siccità, estati calde, inverni relativamente freddi, luce intensa, salinità, terreni poveri di sostanza organica e parassiti di ogni genere.

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Set
09
2009
0

Rovere meridionale

Nel rivedere le fotografie delle escursioni del mese scorso, mi sono imbattuto in un albero molto particolare. Si tratta della rovere meridionale (Quercus petraea ssp.austrotyrrhenica, precedentemente chiamata Quercus dalechampii). E’ una quercia diffusa nel sud Italia, diffusa in Sicilia settentrionale e Calabria meridionale, ma rinvenuta anche in Basilicata ed in Puglia (in Salento). È pure segnalata come spontanea in alcune aree del nord a clima particolarmente mite, come i Colli Euganei e le zone prossime ai grandi laghi alpini.
La sua tassonomia è ancora oggetto di discussione. Da taluni ricercatori è ritenuta una specie (o una sottospecie) affine alla rovere (Quercus petraea) – la quercia per eccellenza -, con la quale condivide molte caratteristiche morfologiche. Altri la ritengono appartenente invece al gruppo della roverella (Quercus pubescens); a questo proposito va comunque specificato che le varie specie di querce, quando i rispettivi areali si sovrappongono, tendono spontaneamente ad ibridarsi per cui il rinvenimento delle specie in purezza, e quindi il riconoscimento, risulta assai difficile anche per i più esperti.
La si rinviene nei boschi misti di caducifoglie della fascia collinare, dal livello del mare fino a circa 1000 metri di altitudine, e predilige
siti impervi e rocciosi, umidi, ben drenati, sciolti e freschi.
Può raggiungere dimensioni considerevoli ed età di alcuni secoli. Si distingue perché è imponente (arriva fino a 30 metri) e vive solitamente isolata. Le foglie sono di colore verde scuro, a lobi smussati, con una base a cuneo e picciolo non molto lungo. Le ghiande sono sessili e rivestite di una cupola scura.
la corteccia, spesso ricoperta da muschi, presenta colori “pastello” che vanno dal grigio chiaro al rosa.
Riporto in basso la descrizione di Orazio Gavioli, illustre botanico lucano, riportata nei suoi studi condotti sulla vegetazione dell’Appennino meridionale.



 

Grazie a loro, ho scritto:

 

http://www.seguilsentiero.it/

“Alberi della Basilicata” (www.consiglio.basilicata.it/pubblicazioni/alberi/alberi-01.pdf)

“Scritti Botanici”. Orazio Gavioli.

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