Feb
27
2022
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L’altrui mestiere

Di solito non riporto articoli altrui ma, un po’ per curiosità un po’ per carenza di tempo, (solo) questo mese vi parlo di due piante per voce di altri.

Le specie vegetali, come tutte le specie viventi, si estinguono; è solo questione di tempo. La vita media di una specie si aggirerebbe normalmente intorno a 3-4 milioni di anni ma, già nel secolo scorso, per colpa delle perturbazioni causate dell’uomo, si era accorciata enormemente a 10.000 anni. Attualmente, in pieno climate change, siamo arrivati a 200-400 anni (sempre che non ci estinguiamo prima noi). L’uomo ha causato estinzioni già da tempi remoti, come nel caso della megafauna del Pleistocene, ma cosa possiamo dire delle piante?

Gli articoli che ho selezionato parlano di due esempi completamente diversi: 1) una specie che avuto scarso successo, 2) una seconda che invece ce l’ha fatta.

1) Il silfio (conosciuto anche come silphion o laser o laserpicio) è una pianta estinta appartenuta probabilmente al genere Ferula (famiglia Apiaceae o Ombrellifere). Cresceva in una ristretta zona costiera, di circa 200 per 60 km, in Libia. Considerato in genere come una specie estinta di “finocchio gigante” e somigliante nell’aspetto alla odierna ferula (Ferula assafoetida). Rappresentava un tempo la maggiore risorsa commerciale dell’antica città di Cirene per il suo utilizzo come spezia e medicinale. La pianta era così importante per l’economia degli antichi Romani che divenne il simbolo della città di Cirene ed era rappresentata in molte delle sue monete. La raccolta e il commercio indiscriminato decretarono però la sua estinzione. Trovate l’articolo qui.

2) La seconda specie si chiama Fritillaria delavayi. E’ una pianta utilizzata nella medicina tradizionale cinese che si è evoluta cambiando la propria pigmentazione per diventare meno visibile all’uomo. Lo suggeriscono nuove ricerche, le quali affermano che questa è una vera e propria strategia di sopravvivenza di successo. Questa pianta è riuscita ad evitarci e quindi a sopravvivere. Trovate l’articolo qui, e un altro qui. Anche le piante, insomma, imparano ad evitare l’uomo e i suoi effetti nefasti sull’ambiente.

Buona lettura!

Written by Horty in: Senza categoria |
Dic
27
2021
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Mai sazi di soia

 

 

La produzione di soia (Glycine max L.) oggi fa parte di un gigantesco mercato. La trasformazione della soia da pianta alimentare a coltura economica è iniziata negli Stati Uniti. Oggi, la soia è terza nel mercato globale (dopo riso e frumento), con un mercato di circa 60 miliardi di dollari all’anno. In termini di produzione, è al nono posto, con circa 240 migliaia di tonnellate all’anno. La soia oggi è principalmente una fonte di biocarburante e di foraggio. Senza l’importazione di soia, infatti, l’allevamento intensivo non sarebbe possibile nei paesi industrializzati. Alla luce dell’aumento del consumo di carne, l’obiettivo oggi è quello di produrre il più possibile mangime per animali, i cui ingredienti principali sono appunto mais, pasta di soia o soia arrostita, poltiglia di pesce, fosfato dicalcico, sale iodato e supplementi vitaminici.

Dagli anni ’90, la cosiddetta “cintura della soia” in Sudamerica è stata tra le regioni principali di coltivazione e esportazione di soia, in molti casi geneticamente modificata. Aumentandone la produzione, la soia è stata usata per nutrire il bestiame, anche in funzione del fatto che il consumo di carne bovina è in continua crescita. Di conseguenza, l’allevamento tradizionale estensivo dei gaucho in Argentina sta diminuendo sempre di più. La domanda in rapido aumento per soia e carne sta portando alla perdita di grandi aree di foresta pluviale, savana e prateria. Quasi tutte la soia coltivata in Argentina è geneticamente modificata per resistere al glifosate, un erbicida di cui abbiamo parlato qualche mese fa, nonché il più venduto al mondo. Gli agricoltori usano trattori o aerei per spruzzare il glifosate sul loro raccolto. Secondo il Ministero della Salute argentino, rispetto alla media nazionale, in aree che prevedono l’uso su larga scala di prodotti fitosanitari muore per cancro il doppio delle persone. Solo nell’ultimo anno, si ritiene che gli agricoltori argentino abbiano spruzzato sulle colture di soia 200 milioni di litri di fitofarmaci.

 

In Argentina, le colture foraggere stanno sostituendo i pascoli e le foreste, causando l’allontanamento di pastori, allevatori di bestiame e popoli indigeni (fonte: Soil Atlas 2015; https://ec.europa.eu/jrc/ec.europa.eu/jrc/en/science-update/soil-atlas-2015).

 

Un altro tipo di OGM che è spesso usato in agricoltura è sostituito dalle colture resistenti alle erbe infestanti. Le varietà più comunemente utilizzate di queste sono le Roundup Ready di soia e mais, prodotte da Monsanto. Il gene utilizzato per la modifica è stato derivato da un batterio del suolo del genere Agrobacterium. Questi OGM sono resistenti al glifosato, consentendo al suo utilizzo di ridurre le specie infestanti tra le colture, aumentando così i rendimenti. Un organismo geneticamente modificato (OGM) è un organismo il cui materiale genetico è stato modificato, con l’introduzione di DNA proveniente da un’altra specie che è in grado di conferire un vantaggio all’OGM. Le colture GM sono abbondantemente utilizzate in agricoltura; le principali sono: mais, soia, cotone e colza. Le colture GM resistenti ai fitofarmaci rappresentano circa l’80% delle colture totali GM. Le colture GM resistenti agli insetti, come il mais BT e il cotone BT, che contengono geni del batterio Bacillus thuringiensis (BT), ne rappresentano il 20%. I pochi studi che si occupano della valutazione degli effetti delle colture commerciali GM sui microartropodi e su altra fauna del suolo hanno generalmente segnalato una mancanza di qualsiasi effetto deleterio significativo della soia resistente agli erbicidi GM sulla comunità di Collemboli nel suolo. Tuttavia, la scarsità dei dati sull’effetto delle colture GM sui microartopodi del suolo e sulla biodiversità del suolo in generale suggerisce che sono necessari ulteriori studi indipendenti per accertare i risultati. Se il terreno non è rimescolato mediante aratura, allora erbacce, parassiti e funghi possono moltiplicarsi rapidamente. Così, pratiche sostenibili come la semina su sodo e il no-tillage spesso richiedono moltissimi erbicidi e altri fitofarmaci; un mercato attraente per l’industria agrochimica e i produttori di sementi GM. I prodotti di sintesi uccidono tutte le piante e gli animali che non sono resistenti al principio attivo contenuto in essi. In America Latina, in particolare, vasti campi no-tillage seminati con soia vengono irrorati da aerei. La superficie e le acque sotterranee in queste aree sono chiaramente contaminate dal glifosato.

Abbattere e tagliare. Soltanto nel 1995, quasi 30.000 km2 di foresta pluviale in Brasile – un’area pari alla dimensione del Belgio – è stata disboscata per far posto ad agricoltura e pascolo. Nel 2013, invece, sono stati cancellati solo 5.800 km2 – un’area grande quanto il Norfolk in Inghilterra o il doppio delle dimensioni del Saarland in Germania. Ancora troppo, ma comunque un grande miglioramento. Questo cambiamento ha avuto molte cause, tra cui un forte impegno del governo brasiliano per fermare la deforestazione, i miglioramenti dei metodi di allevamento dei bovini, e i boicottaggi dei consumatori di soia e di carne bovina. In Sud America, molti pascoli sono stati persi a causa della conversione dei suoli per la coltivazione di soia. Una strategia finale sarebbe quella di ridurre al minimo la deviazione dei terreni agricoli alla produzione di colture non alimentari. La recente produzione di colture bioenergetiche (es., soia, mais e palma) su suoli precedentemente utilizzati per la produzione alimentare ha spinto un significativo cambiamento di uso dei terreni agricoli. La conversione dei terreni coltivati verso la produzione di bioetanolo e biodiesel concorre con la produzione alimentare e con ritorni di carbonio al suolo e costituisce quindi una minaccia per il suolo e per la sicurezza alimentare. I biocarburanti prodotti da colture utilizzando pratiche agricole convenzionali esacerbano i problemi correlati alle forniture idriche, alla qualità dell’acqua e all’uso del suolo. In ogni caso, si prevede ed è quasi certo che i biocarburanti non mitigheranno l’impatto dei cambiamenti climatici rispetto al petrolio. Nonostante la loro ampia adozione e la semina su sodo, la coltivazione intensiva (in gran parte di soia) e la mancanza di rotazione con altre colture, non intervallate da pascoli, hanno portato al degrado del suolo per erosione idrica e eolica, all’eccesso idrico nei suoli (waterlogging), alla compattazione e sigillatura del suolo, e ad una generale diminuzione della fertilità dei suoli.

 

Tra i sistemi di coltura in tutto il Canada, il rischio di erosione del suolo a causa dell’acqua è maggiore nei campi coltivati a patate in Canada centrale e orientale. In queste aree, vi è una forte lavorazione del suolo e poca opportunità per ridurne l’intensità attraverso le pratiche conservative di lavorazione del suolo. Altri sistemi colturali a rischio di erosione sono i campi coltivati a mais e soia in lavorazione convenzionale. Tuttavia, vi è un’opportunità significativa per ridurre questo rischio di erosione con la lavorazione conservativa. Di tutti i suoli del Canada, il rischio di erosione idrica del suolo è maggiore in aree con alte pendenze (10% o più), in particolare quelle situate nel Canada centrale e orientale, dove il rischio di erosione è intrinsecamente alto a causa del clima (fonte: FAO ETSP, 2015. Status of the World’s Soil Resources (SWSR) – Main Report. Food and Agriculture Organization of the United Nations and Intergovernmental Technical Panel on Soils, Roma, Italia; https://www.fao.org/documents/card/en/c/c6814873-efc3-41db-b7d3-2081a10ede50/).

 

In Brasile, il taglio delle pianure boschive per produrre colture annuali (soia, cotone, ecc.) ha spesso portato alla salinizzazione e/o sodicizzazione in aree in cui è aumentata la falda sotterranea. L’uso diffuso di macchine agricole, ha causato la compattazione superficiale del suolo e le scarse condizioni strutturali dei suoli superficiali, soprattutto quando associate a monocoltura di soia e a lunghi periodi di riposo invernale. Negli ultimi anni, la frontiera agricola si è ampliata, passando in aree con climi più asciutti e terreni meno fertili. Di conseguenza, l’area coltivata è aumentata da circa 15 a 32 milioni di ettari dal 1988 al 2010, e la produzione di grano, quasi stabile, è passata da circa 20 a quasi 100 milioni di tonnellate nello stesso periodo. Allo stesso tempo, il rapporto tra le colture prodotte è cambiato. Nel 1990, il mix era 37% di grano, 30% di soia e 13% di mais. Ventiquattro anni dopo (nel 2014), la produzione era: 61% di soia, 19% di mais e solo 11% di grano. Questo cambiamento è stato guidato dalla domanda di esportazione di olio e biocarburante a base di soia. Sebbene sia stato un successo in termini di risparmio di carburante e di adozione da parte degli agricoltori, questa mossa verso una monocoltura a soia sembra aver reso disoccupati molti agricoltori più piccoli. Il no-tillage è considerato essenziale per migliorare le proprietà fisiche dei suoli superficiali, specialmente se combinato con rotazioni colturali e pascoli. Nonostante la grande capacità di azotofissazione associata alla soia (vedi figura in basso), tuttavia, la prevalenza della sua monocoltura ha promosso condizioni fisiche sfavorevoli nel suolo, quali l’aggregazione massiva e laminare, la compattazione superficiale e la riduzione dei tassi di infiltrazione. Queste forme strutturali sono state capaci persino di ridurre i rendimenti della stessa soia in regime di non irrigazione.

 

Stima dell’azoto fissato dai legumi (fonte; Soils and pulses – symbiosis for life, 2016. FAO, Roma, Italia; https://www.fao.org/documents/card/en/c/56244a4c-d35a-48f8-b465-89f46f343312/).

 

Infine, qui in basso una mia foto che è esplicativa sulla deforestazione (tubi dietro), sulla produzione di soia (tubi al centro) e sul consumo di carne (tubi avanti) dagli inizi del secolo scorso ai giorni nostri. Impressionante!

 

Written by Horty in: Senza categoria |
Feb
28
2021
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Il misterioso linguaggio delle piante (parte 1)

 

Le piante percepiscono il mondo senza occhi, orecchie o cervello. Per questo motivo, i loro meccanismi di percezione sono stati troppo spesso trascurati. Come tutti gli organismi viventi, le piante mostrano adattamenti e comportamenti, per lo più sconosciuti e segreti agli uomini. Le piante combattono per il territorio, cercano cibo, sfuggono ai predatori e intrappolano le prede. Hanno un linguaggio chimico per comunicare con altre piante della stessa specie o di altre specie, e anche con funghi e animali. Esse si muovono lentamente ma con uno scopo, il che significa che sono consapevoli di ciò che accade intorno a loro. Sono attratte da determinate sostanze chimiche e da suoni, mentre ne evitano altri. Inoltre, nelle piante sono stati trovati analoghi dei meccanorecettori, fotorecettori e neurotrasmettitori. Le strategie di rilevamento e risposta delle piante vicine sono importanti mediatori delle interazioni tra le specie e delle interazioni parentali tra esse (kin selection). Capire come le piante comunicano può insegnarci molto su di loro e potenzialmente anche molto su di noi.

Le piante rilevano, integrano e utilizzano costantemente le informazioni provenienti dall’ambiente per modellare la loro crescita, sviluppo e metabolismo. Il modo in cui le piante rispondono agli stress abiotici e biotici è stato oggetto di ricerche approfondite, ma si sa relativamente poco su come rispondono ad altre piante. Ciò è sorprendente, dato che le altre piante vicine sono tipicamente gli organismi viventi dominanti nel loro habitat, nonché una fonte sia di stress diretto (come nel caso dell’ombreggiamento) che di stress indiretto (ad es., competizione per le risorse). In quanto tali, le piante hanno sviluppato una varietà di sistemi per rilevare attivamente sia le radici che i germogli delle piante vicine. Sorprendentemente, recenti ricerche indicano che le piante non solo possono rilevare le piante vicine, ma anche distinguere un continuum di parentela genetica (kin selection) – vale a dire, possono rilevare parenti e non parenti – e moderare il loro comportamento in base all’identità del vicino. Altre ricerche suggeriscono che le piante possono anche condividere tra loro informazioni, ad esempio sullo stato dei loro patogeni. Questi comportamenti apparentemente altruistici, intenzionali o involontari, sollevano interrogativi intriganti sulle forze evolutive che hanno modellato le interazioni pianta-pianta. Suggeriscono, inoltre, l’esistenza di una “biologia sociale” precedentemente trascurata nelle piante, e che potrebbe avere importanti ricadute sulla la comprensione, ad esempio, delle interazioni tra piante coltivate, oppure tra colture ed erbe infestanti.

La capacità di riconoscere e rispondere ai segnali ambientali è essenziale per la sopravvivenza delle piante. Le piante sono organismi multicellulari e complessi che hanno bisogno di una strategia di comunicazione veloce, efficace e affidabile. Il continuo “chiacchiericcio” tra piante, una sorta di linguaggio segreto, misterioso e complesso per noi umani, si fonda su una vasta gamma di sostanze chimiche (si stima da 5.000 a 30.000 per ogni specie). Le piante si sono quindi evolute per coesistere in comunità in cui le interazioni con gli individui vicini avvengono continuamente e velocemente. Ma quali sono queste sostanze chimiche?

I composti organici volatili biogenici (BVOC) sono tra i principali mediatori dell’interazione mutualistica tra le piante circostanti. I BVOC hanno molti ruoli ecologici, tra i quali la segnalazione in superficie e sotto terra, l’attrazione degli insetti impollinatori e degli animali dispersori di semi, e le interazioni positive o negative con erbivori e patogeni, oltre a regolare lo sviluppo delle piante stesse. In particolare, i terpenoidi volatili e semivolatili (monoterpeni, diterpeni, sesquiterpeni, ecc.) sono importanti per la difesa delle piante contro gli stress abiotici. L’efficacia della comunicazione dipende dal contesto e dalla specie. In base al tipo di segnale, i BVOC possono essere informazioni utili per il ricevitore o sono il risultato della risposta dell’emettitore agli stimoli. Ad esempio, alcune cultivar di orzo allocano più biomassa nelle radici, se esposte BVOC di un’altra specie di pianta. Al contrario, le piante parassite possono distinguere tra i volatili rilasciati da ospiti e non ospiti e decidere di crescere verso la situazione a loro vantaggiosa. Alcuni fitormoni, come l’etilene e i jasmonati sono BVOC, altri, come citochinine, auxine, acido abscissico, gibberelline e brassinosteroidi sono stimolatori della loro sintesi. La specificità dei BVOC, unita alla teoria delle reti complesse e all’intelligenza artificiale, ha consentito anche di fornire una classificazione alternativa delle specie vegetali, non più basata solo sulla morfologia o sulle sequenze geniche. Tale complessa analisi delle reti dei BVOC consente quindi di scoprire le relazioni nascoste tra piante, legate alla loro evoluzione e adattamento all’ambiente.

 

Una classificazione di specie vegetali basata sulla complessa rete di interazione tra composti organici volatili biogenici (BVOC) prodotti dalle piante (da Vivaldo et al., 2017; https://doi.org/10.1038/s41598-017-10975-x).

 

Il sistema radicale delle piante è generalmente destinato a fornire nutrienti e ad assorbire acqua. Le radici sono il primo organo a entrare in contatto con gli elementi tossici e/o xenobiotici eventualmente presenti nel suolo e ad attuare le prime risposte di difesa e/o fuga (avoidance) delle piante. Le radici secernono una vasta gamma di composti nel terreno circostante, i cosiddetti essudati radicali (REX). Si tratta di miscele complesse di ioni inorganici, enzimi e composti organici solubili primari e secondari. I REX, che rappresentano una forma importante di comunicazione della pianta con l’ambiente circostante, svolgono un ruolo importante nelle interazioni della pianta con il microbioma della rizosfera e facilitano diverse risposte della pianta, tra cui l’assorbimento di macro/micronutrienti e di cationi, e la competizione per le risorse, oltre ad altre interazioni. Meno noto è invece come i REX possano essere un sistema di comunicazione vitale tra piante della stessa specie o di specie diverse, facilitando la discriminazione tra vicini. Nonostante la crescente conoscenza del rilevamento e della risposta dei vicini che coinvolgono i BVOC, si sa infatti molto poco su come le sostanze chimiche di segnalazione presenti nel suolo, tra cui i REX, possano agire nelle interazioni pianta-pianta. È stato ad esempio dimostrato che Il grano può rilevare vicini sia conspecifici che eterospecifici e risponde aumentando la produzione allelochimica, come la (-)-loliolide e l’acido jasmonico sono presenti nei REX di una vasta gamma di specie e coinvolti nel rilevamento delle piante vicine e possono essere mediatori diffusi delle interazioni pianta-pianta che avvengono nel sottosuolo.

 

Interazioni chimiche sotterranee tra piante di frumento e altre piante vicine, mediate dai composti (-)-loliolide, acido jasmonico e DIMBOA, presenti negli essudati radicali (da Kong et al., 2018; https://doi.org/10.1038/s41467-018-06429-1).

 

[continua il mese prossimo…]

 

Grazie a loro, ho scritto:

  1. Ballarè (1999) Trend Plant Sci. 4:3; 97–102
  2. Khashi u Rahman et al. (2019) J. Plant Interact. 14 (1): 630–636
  3. Ninkovic et al. (2020) Plant Cell Environ. Oct 12: Epub ahead of print. PMID: 33047347
  4. Bouwmeester et al. (2019) Plant J. 100: 892–907
  5. Kessler et al. (2001) Science 291: 2141–2144.
  6. Vivaldo et al. (2017) Sci. Rep. 7: 11050
  7. Ninkovic et al. (2006) In: Baluška et al. (eds.) Communication in Plants. Springer, Berlin, Heidelberg. Pp. 421–434
  8. Ninkovic et al. (2016) Perspect. Plant Ecol. Evol. Syst. 23: 11-17
  9. Ninkovic (2003) J. Exp. Bot. 54 (389): 1931–1939
  10. Runyon et al. (2006) Science 313: 1964–1967
  11. Yang et al. (2017) Front. Plant Sci. 8: 1527
  12. Vives-Peris et al. (2020) Plant Cell Rep. 39: 3–17
  13. Wang et al. (2020) Plant Cell Environ. Sep 15: Epub ahead of print. PMID: 32931018.
  14. Chaparro et al. (2014) ISME J 8 : 790–803
  15. Vives-Peris et al. (2020) Plant Cell Rep. 39: 3–17
  16. Kong et al. (2018) Nat. Commun. 9: 3867
Written by Horty in: Senza categoria |
Ott
29
2020
0

Inchiesta sul glifosate

 

Questo mese pubblico un articolo sul glifosate, l’erbicida più famoso e utilizzato al mondo. Di questo prodotto sono note le caratteristiche chimiche ma ancora poco si conosce dei suoi aspetti tossicologici sugli animali e sull’uomo, soprattutto di quelli a lungo termine. Di glifosate si è scritto (ed esagerato) abbondantemente, anche perché rimane un prodotto molto usato in agricoltura. Perché allora scrivere ancora di glifosate?

L’aspetto speciale è che l’articolo, di taglio giornalistico, è stato scritto dalla dott. ssa Serena Di Gaetano, una restauratrice che ammette di non avere competenze specifiche né in campo giuridico né in quello strettamente agronomico. All’Istituto Centrale per il Restauro, dove lavora, però, le viene spesso chiesto di dare delle risposte sull’utilizzo di alcuni prodotti di ambito prettamente agronomico ma che vengono usati anche nel suo settore. La conservazione dei beni culturali, infatti, si intreccia con molte discipline, le più disparate possibili; il che ribadisce ancora una volta l’importanza della “cross-fertilization” tra ambiti diversi. L’occasione per scrivere l’articolo e inquadrare il problema in una dimensione più ampia è nata da un ciclo di seminari nell’ambito del dottorato di ricerca, ma anche dalle richieste provenienti dagli uffici periferici (soprintendenze, siti e parchi archeologici) che le sono state fatte. Ribadisco ancora che si tratta di un articolo di una non specialista – anche se molto ben scritto e documentato – la quale, come leggerete, si imbatte negli erbicidi durante nel suo lavoro. Riporto quindi l’articolo della dott. ssa Di Gaetano qui in basso, dopo aver avuto il suo assenso per la pubblicazione. Buona lettura.

 

Inchiesta sul glifosate: fra cambiamenti climatici e normativa, quale futuro per il trattamento delle infestanti?

 

È ormai un dato acquisito a livello internazionale che il progressivo aumento delle emissioni di gas serra siano i principali responsabili del surriscaldamento del pianeta. L’intensità di alcune attività antropiche e, in particolare, di quelle legate all’uso del suolo, ai processi energetici, e alle sue variazioni, continuano ad avere un’interferenza sul ciclo naturale dei gas responsabili dell’effetto serra. Il riscaldamento globale è causato da un insieme di gas quali il metano (CH4), l’ossido di diazoto (N2O), l’ozono (O3) e l’anidride carbonica (CO2) che concorrono insieme a dar vita al cosiddetto “effetto serra”. A questi vanno aggiunti anche gas di derivazione chimica come i CFC, ossia i clorofluorocarburi, che però sono stati regolati dal Protocollo di Montréal del 1987 poiché responsabili dell’assottigliamento dello strato di ozono.

Gli esperti esprimono forti preoccupazioni sui potenziali impatti di tali cambiamenti sulla salute umana, sulle risorse idriche, sulla biodiversità animale e vegetale, sull’agricoltura e in genere sugli ecosistemi vegetali (Shabani, 2020). Uno degli impatti del surriscaldamento è l’aumento della produttività degli ecosistemi vegetali come risposta all’aumento della concentrazione dell’anidride carbonica (‘fertilizzazione carbonica’) e della temperatura. Questo fenomeno è stato osservato su diverse specie, incluse quelle infestanti (Viadotti et al., 2013). Una delle specie maggiormente studiate in questo senso è Ambrosia artemisiifolia, infestante delle colture agrarie responsabile della produzione di polline allergenico. E’ previsto che l’aumento delle temperature e delle emissioni di CO2 previste per la fine del XXI secolo, causerà una quantità di infestanti e di polline superiori a quella prodotta nelle attuali condizioni di concentrazione di CO2, con un rischio di acutizzazione dei sintomi per le persone sensibili e di sensibilizzazione nella popolazione oggi non soggetta. Il fenomeno sarebbe inoltre molto più acuto nelle aree urbane, dove la maggiore concentrazione di CO2, associata all’effetto di “isola di calore” tipico dei centri urbani, potrebbe aggravare ulteriormente il problema, considerando anche la densità di popolazione.

Il riscaldamento globale ha ripercussioni su molteplici aspetti, fra i quali l’areale di distribuzione delle singole specie, la lunghezza complessiva del ciclo vitale, la durata relativa delle fasi vegetativa e riproduttiva, i rapporti con gli insetti coinvolti nei fenomeni riproduttivi e, non da ultimo, l’efficacia delle tecniche di gestione. La gestione delle infestanti nel mondo e in Italia, avviene principalmente per mezzi chimici, utilizzando prodotti fitosanitari noti come erbicidi o diserbanti. I fattori ambientali, quali temperatura, precipitazioni, vento, umidità atmosferica e del terreno, infatti, possono influenzare l’applicazione e l’efficacia degli erbicidi (Pannacci et al., 2010), oltretutto considerando la frequenza e l’intensità di eventi meteorologici estremi (vedete qui). Se da una parte una maggior frequenza di periodi siccitosi in primavera-estate, associata alla riduzione della risorsa idrica dei terreni, rende i trattamenti di pre- emergenza meno efficaci per le colture primaverili-estive, con aumento della persistenza degli erbicidi e di rischi per le colture in successione, dall’altra, l’aumento della frequenza di eventi piovosi violenti potrebbe comportare maggiori fenomeni di ruscellamento e lisciviazione, con conseguente aumento dei rischi di inquinamento ambientale da parte degli erbicidi in genere e di quelli residuali in particolare, con un maggior rischio di fitotossicità per le colture (Jursìk et al., 2013). Inoltre. la tendenza ad una minor efficacia dei trattamenti di pre-emergenza (cioè quando l’infestante è allo stadio di plantula), potrebbe comportare la necessità di dover intervenire con ulteriori trattamenti in post-emergenza (quando l’infestante è già sviluppata), comportando un maggiore residuo nel suolo di erbicidi.

Tra tutti i prodotti fitosanitari, gli erbicidi diffusamente utilizzati per il diserbo delle colture agricole, ma anche per il diserbo di strade, ferrovie, parchi e aree archeologiche, sono infatti quelli che tendono a residuare nell’ambiente più di qualunque categoria di pesticidi. Fra questi, l’erbicida glifosate è quello più usato e diffuso in tutto il mondo. La Relazione annuale del PNI 2016 (piano nazionale integrato 2014; vedete qui) e dell’ISPRA nel 2016 (vedete qui) confermano queste osservazioni. Nel 2014, nelle acque superficiali, sono stati trovati pesticidi in 820 punti di monitoraggio (63,9% del totale) e in 3.226 campioni (34% del totale). Nelle acque sotterranee invece sono risultati contaminati 780 punti di monitoraggio (31,7% del totale) e 1.334 campioni (25,5% del totale). Gli erbicidi e alcuni loro metaboliti sono ancora la tipologia di sostanze più riscontrate, in particolar modo nelle acque superficiali, dove costituiscono il 55,7% delle misure positive (Fig. 1).

 

Figura 1 – Sostanze più rilevate in termini di frequenza (% trovato/cercato), per il 2014. Per ogni sostanza sono riportati fra parentesi il numero dei ritrovamenti e quello totale dei campioni (fonte relazione annuale del PNI 2016).

 

Nelle acque superficiali, il glifosate e il suo principale metabolita AMPA, il composto più rinvenuto, sono stati cercati solo in Lombardia e Toscana, dove sono risultati presenti con frequenze rispettivamente del 19,1% e del 41.0%; gli erbicidi terbutilazinadesetil, terbutilazina e metolaclor, con frequenze da circa il 12.0% al 15,1% dei campioni; l’insetticida imidacloprid, il cui rilevamento è in crescita rispetto agli anni passati, è stato ritrovato con una frequenza del 30,7%. La forte presenza di erbicidi è legata sia alle quantità utilizzate, sia soprattutto alle modalità di utilizzo diretto sul suolo, spesso concomitante con le precipitazioni meteoriche più intense di inizio primavera, che ne determinano un trasporto più rapido nei corpi idrici superficiali e sotterranei. Le concentrazioni dei residui di pesticidi nelle acque sono state confrontate con i limiti ambientali stabiliti a livello europeo e nazionale: gli Standard di Qualità Ambientale (SQA) per le acque superficiali, istituiti dalla Direttiva 2008/105/CE e le norme di qualità ambientale per la protezione delle acque sotterranee, Direttiva 2006/118/CE. A livello nazionale, nel 2014 su 1.284 punti di monitoraggio delle acque superficiali, 274 (21,3%) hanno livelli di concentrazione superiore agli SQA. La Lombardia, con il 55,4% dei punti che superano gli SQA, ha il livello più elevato di non conformità. Va detto che le sostanze che determinano il maggior numero di casi di superamento dei limiti sono glifosate e il metabolita AMPA, che sono cercati esclusivamente nella Regione e, solo dal 2014, nella Toscana; […]. La percentuale dei punti con livelli di contaminazione superiori ai limiti è elevata in Lazio (40,0% dei casi, sebbene ci riferiamo ad un numero di siti monitorati esiguo), Sicilia (25,6% dei casi), Veneto (21,3% dei casi) (Fig. 2).

 

Figura 2 – Livelli di contaminazione, anno 2014.

 

Nel 2016 l’erbicida glifosate è stato presente nel 47,4% dei 458 punti di campionamento delle acque superficiali (39% del 2014), con un superamento degli SQA nel 24,5% dei casi. Il metabolita AMPA è presente nel 68,6% dei punti monitorati nelle acque superficiali (385), si registra un superamento degli SQA nel 47,8% dei siti. Il glifosate e l’AMPA, fino al 2013 cercati solo in Lombardia, ora sono cercati in altre cinque regioni. La sostanza è presente soprattutto nelle acque superficiali, ma è significativo l’aumento della frequenza nelle acque sotterranee. L’ambito territoriale finora limitato, non consente di evidenziare tendenze a livello nazionale. Il rischio maggiore di contaminazione dell’acqua deriva dalle aree urbane con maggiori superfici pavimentate, dove la pioggia dilava tale sostanza nei canali riceventi. Il glifosate disperso nei campi, nelle foreste e in altri tipi di terreno per nebulizzazione, invece, ha una bassa penetrazione in quanto rimane adorbito negli strati superiori del terreno, dove viene degradato dai batteri presenti, senza raggiungere le falde acquifere. Le ragioni dell’ampio utilizzo del glifosate risiedono nella sua grande efficacia e nel suo basso costo. Creato nel 1974 dall’azienda americana Monsanto (di recente acquisita dalla multinazionale farmaceutica Bayer), è stato usato in maniera massiccia in tutto il mondo. Libero dal brevetto dal 2001 e commercializzato con il nome Roundup, oggi è prodotto anche da altre aziende chimiche con nomi quali Accord e Rodeo. Si tratta di un diserbante fogliare, sistemico, non selettivo. Fogliare, perché viene assorbito dalle parti verdi della pianta; sistemico, poiché una volta penetrato, il principio attivo si muove verso i punti di attiva crescita (meristemi), causando una lenta morte della pianta, a partire dalle sue radici più profonde, per mancanza di amminoacidi essenziali; non selettivo, poiché esso distrugge ogni organismo vegetale che non abbia geni di resistenza. Il prodotto a base di glifosate, costato alla società tracolli in borsa, è stato ed è ancora al centro di complesse vicende giudiziarie e di numerose ricerche scientifiche.

Alla fine del 2017 è stato riautorizzato dall’Unione Europea per altri 5 anni, nonostante il voto contrario dell’Italia e di altre 8 nazioni per via della sospetta cancerogenicità sull’uomo rivelata da uno studio IARC (International Agency for Research on Cancer Volume 112: Some organophosphate insecticides and herbicides: tetrachlorvinphos, parathion, malathion, diazinon and glyphosate. IARC Working Group. Lyon; 3–10 March 2015. IARC Monogr Eval Carcinog Risk Chem Hum). Lo IARC ha inserito il glifosate nella categoria 2A “probabili cancerogeni per l’uomo”, che raggruppa sostanze con limitata evidenza di cancerogenicità per l’uomo e sufficiente evidenza per gli animali. Nell’attesa di ulteriori studi scientifici, l’erbicida è in uso in Europa fino a dicembre 2022. Il dossier preliminare che dovrà comprovare la presunta pericolosità del glifosate sarà per la prima volta valutato anziché da un solo stato membro, da quattro stati (Francia, Ungheria, Olanda e Svezia) per condividerne le responsabilità. Il “Glyphosate Renewal Group”, consorzio attualmente formato da otto aziende (Albaugh Europe SARL, Barclay Chemicals Manufacturing Ltd., Bayer Agriculture bvba, Ciech Sarzyna S.A., Industrias Afrasa S.A., Nufarm GMBH & Co.KG, Sinon Corporation, e Syngenta Crop Protection AG) che ha presentato domanda di rinnovo a dicembre 2019 (tre anni prima della scadenza), dovrà presentare il relativo dossier contenente tutti gli studi volti a dimostrare i rischi della sostanza attiva. Intanto la Francia, che inizialmente aveva manifestato la volontà di voler abbandonare il glifosate a prescindere dalla decisione europea, salvo poi cambiare idea, ha commissionato alla IARC, tramite l’agenzia francese per la salute e la sicurezza alimentare (ANSES), ulteriori studi sul potenziale cancerogeno del glifosate. Lo studio avrà l’obiettivo di esplorare i possibili effetti genotossici del glifosate in seguito all’esposizione a lungo termine delle colture cellulari.

Il regolamento dell’Unione europea numero 1107 del 2009, che riguarda l’immissione di prodotti fitosanitari sul mercato, prevede che una sostanza possa essere autorizzata solo se non è stata classificata come sicuramente o probabilmente cancerogena. Come prova sono sufficienti, dice il regolamento numero 1272 del 2008, due esperimenti sugli animali, indipendenti l’uno dall’altro, che stabiliscano un nesso causale tra un determinato agente e un’incidenza elevata di tumori. Il glifosate è sotto accusa per via del presunto nesso con l’insorgenza di alcune forme tumorali che sono già costate alla Bayern un esborso di 289 milioni di dollari (cifra poi ridotta a 78 milioni di dollari dal giudice di appello) per indennizzare un ex custode scolastico regolare utilizzatore di Round-up (nome del glifosate commercializzato). Una recente ricerca evidenzia che le persone con elevate esposizioni al glifosate hanno un rischio del 41% maggiore di sviluppare il tumore chiamato Linfoma non Hodgkin “Per contestualizzare le nostre scoperte di un aumento del rischio di NHL in soggetti con elevata esposizione a GBH, abbiamo esaminato studi animali e meccanici disponibili, che hanno fornito prove a supporto del potenziale cancerogeno di GBH. Abbiamo documentato l’ulteriore supporto di studi sull’incidenza del linfoma maligno in topi trattati con glifosate puro, nonché potenziali legami tra esposizione a GBH e immunosoppressione, alterazioni endocrine e alterazioni genetiche che sono comunemente associate con l’NHL. Complessivamente, in accordo con le evidenze che vengono dagli studi sperimentali sugli animali e da quelli meccanicistici, la nostra attuale meta-analisi degli studi epidemiologici umani suggerisce un legame convincente tra esposizioni al GBH e aumento del rischio di NHL” (Zhang et al., 2019).

Non si può quindi semplicemente abbassare il valore lei limiti massimi residui (LMR) perché i criteri per definire questi limiti non tengono conto di alcune variabili. Gli abitanti di Monte Maíz, la piccola città dell’Argentina, in cui ogni anno le piantagioni di soia OGM vengono irrorati con 600 mila litri di glifosate, per esempio, non assimilano il diserbante solo attraverso gli alimenti. Le piantagioni di soia sono irrorate di continuo con gli aerei e il vento trasporta le nuvole tossiche nei centri abitati, dove le persone respirano il pesticida contenuto nell’aria. Allo stesso modo gli allevamenti in cui il bestiame è nutrito con coltivazioni OGM, contengono residui di glifosate utilizzato per la crescita della coltura agraria. Il livello di rischio dipende in particolare dall’intensità e dal periodo di esposizione di un certo soggetto alla sostanza in questione, dalla quantità assorbita dal suo organismo. Inoltre, al di là del rispetto dei LMR previsti, la pericolosità risiede anche nel meccanismo di accumulo e di sinergia con altre molecole. Il rapporto nazionale ISPRA pesticidi nelle acque del 2018 riporta i dati analizzati nel biennio 2015-2016. Su 35.353 campioni e 1.966.912 analisi, il monitoraggio evidenzia una presenza diffusa di pesticidi nelle acque, con un aumento delle sostanze trovate e delle aree interessate. Nel 2016, in particolare, ci sono pesticidi nel 67,0% dei punti delle acque superficiali e nel 33,5% di quelle sotterranee. Sempre più evidente è la presenza di miscele di pesticidi, con un numero medio di circa 5 sostanze e un massimo di 55 sostanze in un singolo campione.

Negli studi condotti dal Ministero della Salute e dell’ISPRA, emerge che la tossicità di una miscela di pesticidi è sempre più alta di quella del componente più tossico considerato da solo. La valutazione del rischio deve, pertanto, tenere conto che l’uomo e gli altri organismi sono spesso soggetti all’esposizione simultanea a diverse sostanze chimiche, e che lo schema di valutazione usato nell’autorizzazione dei pesticidi non è sufficientemente cautelativo riguardo ai rischi della poli-esposizione. L’importanza di considerare i possibili effetti cumulativi delle miscele è stata ribadita sia nei consessi scientifici sia in quelli regolatori. Mancano, infatti, dati sperimentali sugli effetti combinati di diverse sostanze, che non consentono una corretta valutazione tossicologica e impongono una particolare cautela anche verso i livelli di contaminazione più bassi. L’Italia, Il più prudente fra i paesi membri, nel 2016 ha varato il decreto attuativo del regolamento di esecuzione (2016/1313) relativo alla revoca dell’autorizzazione per l’immissione in commercio ed impiego dei prodotti fitosanitari contenenti la sostanza attiva glifosate ed il coformulante ammina di sego polietossilata e ha introdotto ulteriori restrizioni:

  • revoca dell’impiego nelle aree frequentate dalla popolazione o dai gruppi vulnerabili di cui all’articolo 15, comma 2, lettera a) decreto legislativo n. 150/2012 quali: parchi, giardini, campi sportivi e aree ricreative, cortili e aree verdi all’interno di plessi scolastici, aree gioco per bambini e aree adiacenti alle strutture sanitarie;
  • revoca dell’impiego in pre-raccolta al solo scopo di ottimizzare il raccolto o la trebbiatura;
  • inserimento nella sezione delle prescrizioni supplementari dell’etichetta in caso di impieghi non agricoli, della seguente frase: “divieto, ai fini della protezione delle acque sotterranee, dell’uso non agricolo su: suoli contenenti una percentuale di sabbia superiore all’80%; aree vulnerabili e zone di rispetto, di cui all’art.93, comma 1 e all’art.94, comma 4, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.

 

Nel frattempo, alcune regioni italiane hanno deciso di voler limitare in generale l’uso del glifosate. Così la Toscana vieta l’uso dell’erbicida nelle aree di salvaguardia dei punti di captazione delle acque sotterranee con utilizzo idropotabile (in precedenza il divieto riguardava solo le acque idropotabili superficiali). Al tempo stesso procede con la revisione annuale delle sostanze ammesse dal PUFF (Piano di utilizzazione per l’impiego sostenibile dei prodotti fitosanitari e dei fertilizzanti). L’elenco regionale, in linea con l’elenco ministeriale, eliminerà le sostanze attive vietate all’interno delle aree di salvaguardia di captazioni da acque superficiali e l’utilizzo del glifosate in ambito extra-agricolo eliminando il rilascio di nulla osta per motivi eccezionali (ad esempio lungo i binari delle ferrovie). L’obiettivo è di eliminare definitivamente l’erbicida entro il 2021. In aree agricole d’eccellenza, come quella del Consorzio di tutela del Prosecco di Conegliano Valdobbiadene, e in territori a vocazione pastorale come il Trentino Alto Adige, amministratori e produttori decidono di tutelare il territorio eliminando il glifosate.

Alternativa possibile all’uso di erbicidi è la pratica della gestione integrata (Integrated Weed Management System: IWMS). L’IWMS si basa sulla conoscenza delle infestanti e della loro risposta alle tecniche colturali, delle relazioni competitive tra infestanti e coltura e dei mezzi di controllo. Comprende misure agronomiche, colturali, biologiche e chimiche per gestire le infestanti nella maniera più economica, più favorevole all’ambiente e socialmente accettabile, ottenendo produzioni sempre elevate. Il sistema si basa su misure proattive e su misure reattive. Le prime creano le condizioni perché il sistema colturale risulti sfavorevole all’insediamento, alla crescita ed alla competizione delle infestanti; le seconde sono gli interventi di controllo che vengono messi in atto dopo che i problemi sono sorti. Nella fattispecie, le misure proattive riguardano gli interventi diretti e indiretti sulla coltura (disposizione piante, concimazione, irrigazione, pulizia seme, rotazione delle colture, cover cropping, ecc.), quelle reattive riguardano metodi di controllo diretto delle infestanti (erbicidi, e interventi meccanici, fisici e/o manuali). In post-emergenza è possibile poi applicare trattamenti termici, tra i quali il pirodiserbo è il più comune. Generalmente si tratta di apparecchiature a fiamma diretta o a calore indotto che scaldano i tessuti delle infestanti inducendo uno shock termico che causa la rottura delle membrane citoplasmatiche e la precipitazione dei componenti proteici. A questa si affiancano tutte quelle tecniche che prevedono la rimozione fisica delle infestanti con macchinari specifici (erpice strigliatore, la spazzolatrice, l’estirpatore ecc.). Queste pratiche, utili in contesti colturali, non possono essere utilizzate per la gestione delle infestanti in altri contesti quali le aree archeologiche. Qui infatti l’unico trattamento possibile è quello chimico per irrorazione, perché un trattamento meccanico per estirpazione o pirodiserbo potrebbe comportare danni alle strutture emerse e non. Se la presenza delle infestanti in aree archeologiche può probabilmente evocare l’armonia fra rudere e natura, per gli addetti ai lavori costituisce un importante problema conservativo. La loro azione deteriogena si esplica con meccanismi di tipo fisico, quali le pressioni meccaniche dovute agli apparati radicali in espansione, e con alterazioni chimiche dovute prevalentemente ad una generale acidificazione del substrato.

La pericolosità della flora vascolare biodeteriogena nei confronti dei manufatti è indicata dall’Indice di Pericolosità (Signorini, 1995, 1996), che tiene conto della alla forma biologica, del tipo di apparato radicale, dell’invasività e del vigore della pianta. Studi condotti nelle aree archeologiche romane mettono in evidenza una maggior ricchezza delle comunità che afferiscono alle classi Stellarietea, Artemisietea e Polygono-Poetea (Ceschin et al., 2006; Ceschin et al., 2003), e della specie invasiva a rapida diffusione dell’Ailanthus altissima (Celesti- Grapow, 2009). A causa della scarsa accessibilità alle superfici e al potenziale danno derivante da un diserbo manuale e meccanico, si preferisce il diserbo chimico, di norma effettuato con glifosate per irrorazione (nota di chiarimento del Ministero della Salute n.14132 del 07/04/2017; vedete qui). Gli interventi di diserbo in siti e aree archeologiche urbani e suburbani sono frequenti perché fanno parte dell’ordinaria attività di manutenzione e gestione del decoro pubblico, ma non esiste alcun protocollo che ne disciplini la frequenza e le modalità. Ma quali sarebbero le alternative disponibili, considerando che i tempi della ricerca per la produzione di un erbicida efficace e competitivo sono lunghi?

Uno degli obiettivi della gestione integrata delle infestanti è anche l’uso di dosi minori di erbicidi e l’utilizzo di nuovi più ecologicamente sostenibili. Si tratta di formulazioni a base di sostanze non di sintesi in grado di agire per contatto in post-emergenza. Fra i principi attivi prevalenti di questi preparati troviamo l’acido pelargonico e l’acido acetico. L’acido pelargonico è un diserbante di contatto, attivo nei confronti di un ampio spettro di infestanti annuali e poliennali, mono e dicotiledoni, alghe e muschi e non esplica nessuna azione residuale. L’acido pelargonico esiste in natura in un tipo di geranio, il pelargonio appunto. E’ conosciuto anche come acido nonanoico e registrato come erbicida presso il ministero della Salute e commercializzato col nome di Finalsan (W. Neudorff Gmbh KG). Il principio attivo utilizzato per il trattamento delle infestanti però è un prodotto di sintesi ottenuto tramite processi industriali che “tagliano e cuciono” acidi grassi a catena più lunga per ottenere quella a nove atomi di carbonio del pelargonico. Vengono cioè presi acidi grassi di colture oleaginose e modificati industrialmente. Ciò fa sì che l’acido pelargonico così ottenuto sia identico a quello del pelargonio, ma non di estrazione naturale diretta, in quanto derivante da processi industriali complessi che partono da molecole diverse e ne producono una sola, ben particolare. Non a caso, al momento non figura nella lista dei prodotti utilizzabili da chi segua disciplinari di agricoltura biologica. Inoltre, non ha dei prezzi molto competitivi.

Per l’acido acetico le cose sono diverse. È un prodotto autorizzato in agricoltura biologica ma non esiste alcuna autorizzazione ministeriale italiana che ne renda legali la commercializzazione e gli usi come erbicida. Che l’acido acetico non possa essere considerato un “diserbante biologico” lo si evince anche dagli Standard di produzione biologica redatti da CSPB, acronimo di Comitato degli standard di produzione biologica, ed. n° 2 del luglio 2014, revisione 3 del 2018-02-19. Nell’elenco delle sostanze utilizzabili sono ammesse genericamente le cosiddette “sostanze di base”, ai sensi dell’articolo 23, paragrafo 1, del regolamento CE n. 1107/2009, ovvero quelle sostanze di origine vegetale o animale che rientrino nella definizione di “prodotto alimentare o derrata alimentare” (Art. 2 del Reg. CE n. 178/2002). E in effetti si usa tranquillamente l’aceto, contenente acido acetico, per condire le insalate. Infatti anche per il CSPB può essere utilizzato aceto tal quale, di vino o di frutta, ma solo come coadiuvante e correttore del pH, quindi l’uso come erbicida non è contemplato. Gli usi dell’acido acetico sono contemplati invece per quanto riguarda l’apicoltura, seppur con una debita puntualizzazione. Al capitolo 5.8.6.3 del documento CSPB si evince infatti come “L’uso di medicinali veterinari nell’apicoltura che risponde ai requisiti di cui al presente Standard deve essere conforme ai seguenti principi: a) essi possono essere utilizzati se la loro corrispondente utilizzazione è autorizzata nello Stato membro interessato secondo la pertinente normativa comunitaria o secondo la normativa nazionale in conformità del diritto comunitario – proseguendo poi al punto – i) fatto salvo il principio di cui alla lettera a) nei casi di infestazione da Varroa jacobsoni possono essere usati l’acido formico, l’acido lattico, l’acido acetico e l’acido ossalico nonché le seguenti sostanze: mentolo, timolo, eucaliptolo o canfora”. È cioè necessaria una specifica autorizzazione nazionale per un altrettanto specifico uso. Ed è proprio contro questo banale concetto che si scontrano gli utilizzatori di acido acetico come diserbante, ovvero le debite autorizzazioni dei prodotti. Autorizzazioni al momento assenti; tanto è vero che tali prodotti sono descritti genericamente come “corroboranti” e non come erbicidi. Nonostante ciò, a base di acido acetico si trovano in commercio altri formulati i quali, pur specificando in etichetta “il prodotto non è un fertilizzante” e “il prodotto non è un fitosanitario”, vengono comunque consigliati come erbicidi per il diserbo urbano e ferroviario. Nelle schede di sicurezza, inoltre, si trova la spunta su “usi professionali”, cioè quelli che più d’ogni altro dovrebbero implicare il rispetto per le norme di legge. Se un prodotto non è registrato come fitosanitario presso il ministero della Salute – e l’acido acetico non lo è, per lo meno in Italia – quel prodotto non può essere consigliato apertamente verso usi come erbicida.

Ma un trattamento efficace e realmente ecocompatibile dovrebbe mirare non solo a ridurre l’impatto sugli ecosistemi in termini di salute e sicurezza alimentare, ma anche ridurre l’impatto in termini di ciclo di produzione e di vita e quindi di produzione di gas serra. Mirare quindi ad un’economia circolare, in cui tutto si reinventa e ricicla e lo scarto diventa risorsa. Tale esigenza di eco- compatibilità ambientale risulta di ancor maggiore importanza negli ecosistemi urbani, dal momento che tale ambiente ospita l’uomo, e quindi la sua contaminazione potrebbe comportare rischi maggiori per la sua salute. Uno studio italiano mette in luce alcune possibilità offerte da oli essenziali estratti dalle stesse infestanti. Alcuni di essi mostrano accanto ad una spiccata attività fitocida nell’ostacolare la germinazione e la crescita di molte infestanti, un’azione di difesa delle colture per la loro attività antifungina che insetticida. A basse concentrazioni, sembrano sicuri per la salute e compatibili per l’ecosistema, in quanto completamente biodegradabili. È stata studiata la famiglia delle Asteraceae in quanto questa famiglia botanica è dotata di particolare rusticità; tali specie risultano essere tipicamente “colonizzatrici” ed “invasive”, aspetto che può essere fatto risalire alla biosintesi di composti allelopatici. Le piante utilizzate sono state prelevate sia da ecosistemi naturali che da agrosistemi, essiccate e poi trasferite in laboratorio per l’estrazione degli oli essenziali. Gli oli sono stati testati su una specie dicotiledone (Portulaca oleracea) ed una monocotiledone (Digitaria sanguinalis), in virtù della loro ampia diffusione nell’ecosistema urbano. Alcune specie sono risultate molto promettenti (in particolare Artemisia annua) sia in termini di potenziale resa in oli essenziali che in termini di attività erbicida. L’applicazione in post-emergenza è risultata la strada più percorribile sia per la sua spiccata efficacia che per l’estrema volatilità di queste sostanze, la quale rende poco proponibile un loro impiego in pre-emergenza. Inoltre, le rese maggiori di oli essenziali sono coincise con una elevata produzione di biomassa per unità di superficie, evidenziando conseguentemente una loro attitudine ad essere utilizzate come fonte di bio-erbicidi in una futura filiera produttiva.

Il limite attuale dell’utilizzo degli oli essenziali deriva degli elevati costi di produzione e dalla difficoltà di ricavarne grandi quantità. Si auspisca che studi e ricerche future in campo agronomico possano riuscire a superare questi limiti e a produrre erbicidi a basso impatto ambientale e sicuri per la salute umana. i benefici derivanti da un sistema più ecocompatibile di gestione delle infestanti, avrebbe ricadute importanti non solo sulla filiera colturale produttiva, ma anche sulla gestione delle infestanti in contesti urbani e culturali in cui la presenza umana è costante. L’utilizzo del glifosate e, più in generale, dei pesticidi, è incompatibile con un futuro basato sulla salubrità dell’ambiente, sulla tutela della salute umana e sulla difesa della biodiversità; le modificazioni climatiche potranno solo aggravare la situazione. Il percorso verso un’agricoltura “a misura d’uomo” è la chiave necessaria per affacciarsi su un futuro nel quale la tutela di ambiente e salute e il rispetto dei diritti primari delle Comunità devono tornare ad avere la priorità che gli spetta nella nostra scala di valori. Da quanto detto, è ormai inderogabile la scelta di soluzioni sostenibili che riportino al primo posto i reali bisogni delle comunità e la tutela dell’ambiente, scalzando gli interessi di forme imprenditoriali sempre più aggressive. È dunque urgente tornare a pratiche agricole che non debbano essere sostenute dall’uso di pesticidi, privilegiando colture a destinazione alimentare, produzioni commisurate a reali fabbisogni delle comunità, fertilizzanti organici derivati da compostaggio aerobico, tecniche agronomiche che incrementino la fertilità dei suoli, incentivino la biodiversità e preservino la qualità delle acque e degli alimenti. In tal senso, sarebbe utile un piano nazionale per la prevenzione e l’individuazione tempestiva delle infestanti in ambito urbano, archeologico e agricolo, unito ad un quadro politico coerente, ad un piano monitoraggio, ad un fondo per la ricerca strategica e ad un programma di formazione e azione.

 

 

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