Set
22
2021
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Una tavolozza di colori utili

 

Quando il lavoro di squadra fornisce sostentamento

Dal momento che le piante contengono un pigmento verde chiamato clorofilla per i loro processi fotosintetici, esse ci appaiono verdi. Anche alcuni animali sono verdi. Questo non ha di solito nulla a che fare con il cibo che ingeriscono ma su qualcos’altro. Un esempio a riguardo è la vongola gigante (Tridacna costata), che vive parzialmente di materiale in sospensione che filtra dall’acqua. Ma questo non è abbastanza per soddisfare il suo enorme appetito, così la vongola riceve ulteriore sostentamento fornendo una casa alle alghe che vivono nel suo mantello. Queste alghe hanno un colore verde intenso. Con il contributo della luce solare, le alghe producono sostanze nutritive per se stesse e per la vongola allo stesso tempo. Per respirare, la vongola usa anche l’ossigeno prodotto durante la fotosintesi. Ovviamente, la vongola è ben nutrita, dal momento che gli individui maturi possono crescere fino a 1,5 metri, con un peso di 200 kg! Le alghe prendono anch’esse qualcosa da questa relazione, dal momento che la vongola estende il suo mantello più lontano che può affinché le alghe possano ricevere più luce possibile. Inoltre, l’anidride carbonica esalata dalla vongola è usata per la fotosintesi. Ultimo ma non meno importante, la vongola offre protezione alle alghe. Questa è un esempio bellissimo e paradigmatico di simbiosi mutualistica.

 

Tridacna costata

 

Cosa trovano attraente le api?

Evolvere insieme: alcune piante e animali hanno una influenza evolutiva mutualistica. Nel corso di milioni di anni, è emersa una stretta interazione tra animali e piante. La pianta ha bisogno di certi animali per essere impollinata mentre l’animale necessita di nettare e/o polline per nutrirsi. I fiori che sono impollinati dagli uccelli, per esempio, sono spesso rossi, arancioni o rosa. Questi colori sono molto brillanti e sono attraggono specialmente gli uccelli. Ad esempio, una specie di colibrì che vive negli altopiani messicani è irresistibilmente attratta dalla stella di Natale (Euphorbia pulcherrima) oppure dalla petunia rossa (Petunia exerta). E quindi, chi impollina la petunia bianca selvatica (Petunia axillaris)? La risposta è: le farfalle. I suoi fiori bianchi riflettono anche la luce lunare, che attrae particolarmente le falene. Alcuni fiori hanno anche un forte profumo, come quelli della bella di notte (Mirabilis jalapa), che lo sprigiona di pomeriggio o di sera (da cui il nome comune four o’clock flower). I sirfidi e altre mosche sono anche attratti da una miriade di ombre tra il bianco, il giallo e il verde. Per esempio, il ravastrello (Cakile maritima) attrae i sirfidi seducendoli con il suo polline giallo. I calabroni e le api, al contrario, non possono distinguere il colore rosso, così fanno affidamento sul blu, giallo e viola delle infiorescenze di molte specie, come la campanula e alcune specie di ranuncolo.

 

Cakile maritima (foce de Bradano; foto di Adriano Sofo)

 

Fiori che si riscaldano

La legge dell’attrazione? Alcune piante intrappolano temporaneamente i loro impollinatori, un trucchetto alquanto sofisticato… Il gigaro scuro (Arum maculatum) brucia le sue riserve di carboidrati per riscaldare il suo spadice fino a più di 15 °C rispetto alla temperatura ambientale, così che la pianta emette tantissimo profumo, o meglio, puzza! Questa attrae magicamente alcune specie di mosche e altri insetti. Lo spadice, racchiuso da una foglia, è coperto da centinaia di fiori individuali. I fiori femminili sono alla base, mentre quelli maschili sono in alto. Indotto da un segnale ormonale emesso dai fiori maschili, il riscaldamento comincia e allo stesso tempo la foglia racchiudente si apre. Gli impollinatori sciamano intorno e strisciano in profondità sullo spadice fino a che i piccoli peli che puntano verso il basso sui fiori maschili bloccano la loro via d’uscita. Il prigioniero ronza selvaggiamente, impollinando i fiori femminili con il polline che ha portato con sé. Quando i fiori maschili più tardi maturano, gli insetti si sporcano di nuovo di polline prima che i peli si affloscino e sono così liberi di andarsene, probabilmente verso un’altra pianta. Anche i nostri corpi emettono continuamente calore e parti differenti del corpo rilasciano differenti quantità di calore. Questo può essere visualizzato con un analizzatore termico di immagini. Le immagini di questi analizzatori, ormai frequenti negli aeroporti per misurare la temperatura corporea, mostrano dove c’è più calore: il blu significa freddo, verde e giallo più caldo, mentre rosso significa molto caldo.

 

Temperature dello spadice di Arum maculatum (Museo Botanika, Brema)

 

Più luminoso è meglio?

Un campo soleggiato o una foresta ombrosa… le condizioni di luce cambiano in base all’habitat, così ogni pianta si è adattata a specifiche intensità di luce. Si sa che le piante hanno bisogno di luce per sopravvivere. Il loro metabolismo deve essere capace di produrre zuccheri sufficienti per bilanciare il consumo di energia attraverso la respirazione. Questo valore soglia è chiamato punto di compensazione della luce. Esso varia da pianta a pianta, con la più grande differenza che si manifesta tra piante eliofile, che amano il sole, e piante sciafile, che preferiscono l’ombra. Le piante eliofile come il mais (Zea mais) prosperano sotto il sole pieno e possono assorbire anidride carbonica nel migliore dei modi soprattutto in condizioni di forti livelli di irraggiamento. Ma quando la luce è troppa? In questo caso, la situazione è pericolosa: sono prodotte forme dell’ossigeno che sono tossiche per le piante e che possono danneggiare le cellule. Questo è il motivo per cui le piante eliofile sono ben protette. I loro carotenoidi sono efficaci nei confronti dei “colpi di sole”, aiutandole a trasformare le forme nocive dell’ossigeno. Alcune piante hanno anche peli argentei cavi sulle loro foglie (tricomi fogliari), che offrono una protezione esterna riflettendo la luce. Le piante sciafile, d’altra parte, come l’acetosella (Oxalis acetosella) raggiugono già la loro capacità fotosintetica massima a basse intensità di luce, per esempio il sottobosco. Se l’ambiente diventa troppo luminoso in estate, d’altra parte, queste piante possono entrare in sofferenza perché hanno pochi sistemi di protezione nei confronti della luce solare intensa.

 

Di quanto verde ha bisogno una persona?

Sia se cresca in un acquario o in una pozza in giardino, l’elodea (Egeria densa) è un fornitore generoso di ossigeno. Essa cattura l’energia luminosa nelle sue foglie e scinde l’acqua in idrogeno e ossigeno. Una piccola parte dell’ossigeno è usato nella respirazione da parte della pianta, ma la maggior parte è scartata come rifiuto. Questo rilascio ha luogo soprattutto a livello delle giunzioni tra fusti e foglie, dove piccole bolle emergono nell’acqua. Una singola pianta di elodea può aiutare una persona a respirare? Difficilmente! A seconda della quantità di luce solare, una pianta di elodea rilascia in media circa 1.83 ml di ossigeno all’ora in estate e all’aperto, mentre un uomo respira circa 500 litri di aria (circa 100 litri di ossigeno) nello stesso periodo di tempo. Quindi sarebbero necessarie 13,550 piante di elodea per produrne così tanto!

 

La pianta acquatica Egeria densa (Museo Botanika, Brema)

 

Per sempre nei blue jeans

Fiori, frutti, radici e foglie contengono tutti quanti dei pigmenti. Questo è ciò che rende il regno vegetale così colorato. Ma c’è molto materiale colorato nascosto nelle piante che noi possiamo usare nelle tinture dei tessuti. L’indaco è quello che dà ai blue jeans il loro colore ma, per essere usato, il pigmento deve essere sottoposto a parecchie modifiche chimiche prima che sia usato come tintura. La pianta a fiori gialli chiamata guado (Isatis tinctoria) e la pianta tropicale indaco dei tintori (Indigofera tinctoria) contengono il precursore incolore. Se si aggiungono enzimi in laboratorio, queste sostanze fermentano e sono decomposte in una sostanza, ancora incolore, chiamata indossile. Se questa poi viene in contatto con l’ossigeno dell’aria, si trasforma nuovamente e diventa indaco di colore blu brillante. Questo è insolubile in acqua ed è quindi ottimo per colorare i jeans; altrimenti il blu sparirebbe velocemente durante il lavaggio.

(a sinistra) indaco; (a destra) Isatis tinctoria

Written by Horty in: Senza categoria |
Mar
30
2021
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Il misterioso linguaggio delle piante (parte 2)

 

Nelle comunità vegetali, ogni pianta potrebbe interagire in modo positivo, negativo o neutro con le sue vicine. Le piante spesso alterano direttamente o indirettamente la disponibilità di risorse e l’habitat fisico attorno ad esse. L’architettura della chioma, l’ombreggiamento, la temperatura e l’umidità dell’aria e del suolo sono in grado di alterare la penetrazione della pioggia, l’aerazione e la struttura del suolo. I vicini vegetali possono “tamponarsi” l’un l’altro da condizioni stressanti, come nel caso di forte vento. Alcune piante danno benefici alle loro vicine anche dopo che muoiono: in foreste vetuste e indisturbate, gli alberi cadono e i loro tronchi decomposti rendono l’habitat ideale ai semi per germogliare, con la formazione di migliaia di nuove piantine. Mentre gli effetti positivi sull’habitat fisico sono sicuramente aspetti intrinseci delle comunità vegetali, quasi sempre si verifica una competizione pianta-pianta per le risorse, soprattutto nutrienti e acqua. Quindi, in generale parliamo di interazioni positive (allelobiosi) o negative (allelopatia) tra piante vicine della stessa specie o di specie diverse.

Il commensalismo si verifica quando una specie vive in un’associazione diretta con un’altra (l’ospite), guadagnando un riparo o qualche altro vantaggio per la sopravvivenza e non causando danni o benefici all’ospite. Orchidee e bromeliadi (Neoregelia spp.), ad esempio, vivono sul tronco o sui rami dei loro ospiti, guadagnando acqua e sostanze nutritive dall’aria o della corteccia, senza penetrare nei tessuti dell’ospite. Le radici tozze e le foglie xeromorfe che aiutano a guadagnare e conservare acqua sono caratteristiche di molte epifite vascolari (“epifita” significa vivere su un altro). Le epifite appartenenti a briofite, licheni e felci sono così abbondanti nella foresta pluviale tropicale che spesso costituiscono più biomassa vegetale rispetto ai loro alberi ospiti. Un’altra facilitazione è illustrata dalla crescita della piantina del cactus saguaro (Cereus giganteus), che avviene in genere all’ombra di alberi di Parkinsonia microphylla o di altre piante, le quali creano un migliore habitat per il cactus e lo proteggono dagli effetti negativi del sole intenso e dalla carenza di acqua. Nelle pratiche agronomiche spesso si utilizzano altre piante, che fungono un po’ da loro “infermiere”, per migliorare il microhabitat per il raccolto principale. Ad esempio, l’avena e l’erba medica possono essere seminate insieme in modo che l’avena ombreggi e mantenga una più alta umidità nel suolo, necessaria alle piantine emergenti di erba medica. Esempi di questo genere abbondano in agricoltura sostenibile e conservativa, dove consociazioni e rotazioni sono la norma.

Interazioni dirette pianta-pianta che forniscono benefici ad entrambi gli organismi rientrano nel mutualismo. Includendo anche i microorganismi, un buon esempio di questa interazione è l’associazione di legumi e batteri azotofissatori che vivono all’interno dei noduli radicali delle leguminose. Le piante beneficiano ottenendo l’azoto dai batteri, mentre i batteri ottengono l’energia dei carboidrati sintetizzati dalla fotosintesi dei legumi. La stragrande maggioranza delle piante superiori presenta associazioni delle radici con le ife fungine (micorrize). Le piante vascolari ne traggono beneficio perché il fungo è molto più capace di assorbire e concentrare fosforo (ma anche altri nutrienti minerali) rispetto alle radici, mentre il fungo si assicura una fonte di zuccheri sicura da parte della pianta.

Le interazioni con piante parassite sono invece dannose per l’ospite. Molte piante (ad es., cuscuta, orobanchaceae e Pterospora) non contengono clorofilla e quindi non possono fotosintetizzare. Parassitizzano quindi la pianta ospite penetrando nel tessuto esterno mediante i loro austori (estroflessioni della radice), che alla fine vengono a contatto con l’acqua e le sostanze nutritive. Anche il vischio forma austori ma la funzione primaria di queste strutture è quella di assorbire acqua, poiché questa pianta parzialmente parassita (emiparassita) è in grado di produrre gli zuccheri da sé mediante fotosintesi. Striga spp. ha foglie verdi ma è una parassita obbligata (oloparassita) che provoca enormi perdite di legumi e cereali di origine tropicale. La striga si è evoluta in modo che le sostanze chimiche della pianta ospite siano diventate segnali che consentono al seme di germogliare e attaccare l’ospite. Successivamente, la striga penetra nelle radici ospitanti e sottrae acqua, minerali e ormoni. Il fico strangolatore (Ficus watkinsiana) è invece un albero che germoglia in alto sull’albero ospitante e invia radici a terra, uccidendo infine l’ospite quando le radici e le liane del fico lo circondano e lo strangolano, ombreggiando e bloccando così la sua fotosintesi.

Così come avviene per noi umani, è molto difficile che le piante non siano influenzate dalle piante a loro vicine. Gli effetti negativi su uno dei vicini sono indicati come interferenze, e comprendono la competizione e l’allelopatia. La competizione, la situazione in cui una pianta esaurisce le risorse dell’ambiente richieste per la crescita e la riproduzione dell’altra pianta, è il fenomeno più comune in natura. Piante che hanno più successo nell’assumere le principali risorse, acqua, sostanze nutritive, luce e spazio, hanno vantaggi e tipicamente dominano nelle comunità vegetali. Il vantaggio competitivo può derivare dalla stagione di crescita di una pianta, dal tipo di crescita o delle caratteristiche morfologiche, come la profondità delle radici, o caratteristiche fisiologiche, come differenze nell’efficienza della fotosintesi. Al contrario della competizione, l’interferenza allelopatica è messa in atto da una pianta che immette sostanze chimiche tossiche nell’ambiente intorno a essa e che inibiscono la crescita e la riproduzione delle specie associate o quelle che possono in seguito crescere nella stessa area.

Molti effetti negativi sulle specie bersaglio probabilmente si verificano per una combinazione di competizione e allelopatia. La capacità di alcune specie di piante di influenzare negativamente altre piante è stata ben documentata fin dall’antichità. I primi scritti su questo argomento sono attribuiti a Teofrasto (300 a.C.), uno studente di Aristotele che per primo notò gli effetti dannosi del cavolo su una vite e suggerì che tali effetti erano stati causati da “odori” provenienti dalle piante di cavolo. Questo fenomeno di interferenza tra piante vicine, noto appunto come allelopatia, in genere include lo studio delle interazioni pianta-pianta e pianta-microorganismi, nonché gli effetti dei composti allelochemici rilasciati da alcune piante sulla crescita delle piante o su fattori edafici, e possono essere studiati a diversi livelli all’interno delle comunità vegetali. Le interferenze allelopatiche sono mediate in genere dal rilascio di metaboliti secondari nell’ambiente tramite volatilizzazione, lisciviazione in seguito a precipitazioni, essudazione radicale o decomposizione della lettiera. Un singolo composto o una miscela di metaboliti potrebbe rivelarsi attivo ma, in genere, il fenomeno dell’allelopatia dipende dalla concentrazione accumulata di composti bioattivi e dalla loro persistenza nel tempo nell’ambiente naturale. Pertanto, lo l’ecologia di tali interazioni, nonché la fisiologia e la chimica delle interferenze allelochimiche sono tutte coinvolte nello studio di questi fenomeni. Il coinvolgimento dei meccanismi allelopatici nelle dinamiche della vegetazione e nella distribuzione spaziale delle piante è stato esplorato fino ad oggi su base limitata, sia negli ecosistemi naturali che negli ecosistemi o negli agroecosistemi. Oltre agli aspetti fondamentali della ricerca sull’interferenza delle piante e sulle relazioni tra le specie di piante, il campo dell’allelopatia comprende anche gli aspetti applicati dell’ecologia delle piante, comprendendo ad esempio l’ecologia delle colture e delle infestanti, e la gestione delle specie invasive.

Ma dei fattori ecologici delle interazioni pianta-pianta piante parleremo la prossima volta.

 

[continua il mese prossimo…]

 

 

Grazie a loro, ho scritto:

Arroyo Antonio I., Yolanda Pueyo Hugo Saiz Concepción L. Alados (2015) Plant–plant interactions as a mechanism structuring plant diversity in a Mediterranean semi‐arid ecosystem. Vol. 5, Issue 22, Pages 5305-5317.

Baldwin Ian T., Rayko Halitschke, Anja Paschold, Caroline C. von Dahl, Catherine A. Preston (2016) Volatile Signaling in Plant-Plant Interactions: “Talking Trees” in the Genomics Era. Science 10 Feb 2006: Vol. 311, Issue 5762, pp. 812-815. DOI: 10.1126/science.1118446

Kareiva, Peter M., and Mark D. Bertness, eds. (1997) “Special Feature: Re-Examining the Role of Positive Interactions in Communities.” Ecology 78, vol. 7.

Marloes P. van Loon, Max Rietkerk, Stefan C. Dekker, Kouki Hikosaka, Miki U. Ueda, Niels P. R. Anten, Plant–plant interactions mediate the plastic and genotypic response of Plantago asiatica to CO2: an experiment with plant populations from naturally high CO2 areas, Annals of Botany, Volume 117, Issue 7, June 2016, Pages 1197–1207, https://doi.org/10.1093/aob/mcw064

Montesinos, D. (2015) Plant–plant interactions: from competition to facilitation, Web Ecol., 15, 1–2, https://doi.org/10.5194/we-15-1-2015.

Olofsson Johan (2004) Positive and Negative Plant-Plant Interactions in Two Contrasting Arctic-Alpine Plant Communities. Arctic, Antarctic, and Alpine Research. Vol. 36, No. 4 , pp. 464-467.

Pashirzad, M., Ejtehadi, H., Vaezi, J. et al. Plant–plant interactions influence phylogenetic diversity at multiple spatial scales in a semi-arid mountain rangeland. Oecologia 189, 745–755 (2019). https://doi.org/10.1007/s00442-019-04345-9

Raven, Peter H., Ray F. Evert, and Susan E. Eichhorn (1999) Biology of Plants, 6th ed. New York: W. H. Freeman and Company.

Zhang, R., Tielbörger, K. Density-dependence tips the change of plant–plant interactions under environmental stress. Nat Commun 11, 2532 (2020). https://doi.org/10.1038/s41467-020-16286-6

Written by Horty in: Senza categoria |
Feb
22
2018
0

Direttamente al succo

Le piante sono laboratori viventi di sostanze chimiche, la cui varietà oltrepassa la nostra immaginazione. Ogni anno vengono scoperti nuovi composti e potenziali medicinali sintetizzati proprio dalle piante, le quali, per la loro natura sessile, sono sottoposte a condizioni ambientali mutevoli e spesso ostili, nonché ad una vasta gamma di patogeni. Non potendosi spostare, ancorate al terreno, le piante devono ad ogni costo difendersi usando mezzi chimici. Le soluzioni che hanno funzionato, sono state setacciate dalla selezione naturale e sono arrivate fino ad oggi. Ci sono difatti molecole “antichissime”, la più famosa delle quali è la clorofilla, “inventata” nei batteri e trasmessa poi, attraverso i cloroplasti, in tutte le piante. In un articolo di qualche tempo fa, ricordavo che una parte della clorofilla è presente anche in noi come emoglobina, nei citocromi e nella vitamina B12, le cui strutture chimiche – basate sull’anello eme – sono molto somiglianti a quella della clorofilla, ma questa è un’altra storia. In parole povere, la natura conserva quello che funziona e a volte lo adatta anche a funzioni diverse (exaptation); come in una scatola di Lego, i mattoni di base sono sempre quelli ma è possibile ricombinarli a piacere. Se poi la molecola “funziona bene”, si “propaga” facilmente perché diventa un vantaggio adattativo ed evolutivo per l’organismo che la possiede ed è quindi possibile riscontrarla in piante anche non imparentate filogeneticamente.

Pensavo a tutte queste amenità, in ordine sparso come in questa introduzione, qualche settimana fa mentre stavo raccogliendo limoni in campagna. Sotto l’albero, tra spine conficcate e muri cadenti, i limoni pendevano sulla mia testa, alcuni verdi, altri giallognoli, altri ancora solo potenziali perché in fiore. L’odore prevalente era di zagara misto a quello di limone, che poi è simile a quello di quasi tutti gli agrumi (Citrus spp.), ma non solo di quelli. Lo stesso odore lo si può ritrovare in varie altre piante tra qui la citronella (Cymbopogon spp., una graminacea), dove è fortissimo, ma anche nello zenzero, nella curcuma e nel cardamomo (che appartengono alla famiglia Zingiberaceae), e io lo avverto anche in molte Lamiaceae, cioè le nostre comuni menta, lavanda, basilico, salvia, ecc., o nell’aneto e nel cumino (della famiglia Apiaeceae, parenti di carote e finocchi) o, ancora, nell’anice e nella verbena, e in alberi come il pino, il cipresso e l’eucalipto, ecc. Questi miei pensieri furono riposti in un cassetto fino a che una sera, ospite di una mia amica, mi fu rimproverato il mancato recapito come cadeau dei limoni raccolti. Tale mancanza era stata resa ancora più grave dalla passione della mia amica per le tisane, per cui mi furono mostrati una serie di agrumi e non, tutti accomunati dal tipico odore. C’era il classico limone (Citrus limon) e l’esotico lime (limetta in italiano, Citrus aurantiifolia, a buccia verde), considerati paradigmi di agrumi ma erroneamente. Difatti quasi tutti gli agrumi che conosciamo, con il loro frutto chiamato esperidio (da “Esperidi”, ninfe della mitologia greca che custodivano il giardino dei pomi d’oro di Era), sono ibridi, ad esclusione di mandarino, pomelo e cedro, che sono per così dire gli “agrumi primari”. Oltre questi due, c’erano foglie bilobate di kaffir lime (Citrus hystrix) e fusti di citronella (Cymbopogon spp.) usati in cucine orientale, e assimilabili al gusto dello zenzero, c’era anche il pepe del Sichuan (Zanthoxylum piperitum), la cui bacca ricorda quella del pepe nero, al quale non è per nulla imparentato. La storia di quest’ultima pianta è curiosa: si scartano i semi e si mangiano solo i gusci, che hanno inizialmente un sapore piccante e di limone e, dopo pochi minuti, causano un leggero intorpidimento della mucosa orale dovuto all’idrossi-alfa-sanshoolo (simile alla capsaicina dei peperoncini).

 

Lime, limone, pepe di Sichuan, fusto di citronella e foglia di kaffir lime.

 

Ho fatto tutta questa lunga dissertazione per arrivare al succo (non di limone, ma del discorso, appunto), cioè la presenza in tutte queste specie, così distanti tra loro, di una molecola chiamata limonene, oltretutto gradita al palato umano in varie culture. Il limonene è un metabolita secondario delle piante, un idrocarburo (contiene solo atomi di carbonio e idrogeno, e difatti può essere usato anche come biocarburante), ha un odore di limone/arancia o di trementina (resinoso), a seconda della sua forma enantiomerica. Il principale composto chimico presente in natura e di maggior interesse in campo industriale e merceologico è il D-limonene, ovvero l’(R)-(+)-4-isoproprenil-1-metilcicloesene. Appartiene al gruppo dei terpeni, che costituiscono le resine e gli oli essenziali di molte piante, la cui unità di base è un idrocarburo a 5 atomi di carbonio, l’isoprene. Aggiungendo varie unità di isoprene (5 atomi di carbonio alla volta, quindi), le piante sintetizzano vari composti, sia lineari (es. carotene, il mircene, il geraniolo, lo squalene, ecc.) sia ciclici (vari fitosteroli, il mentolo, il limonene, appunto, e altri ancora). Come tutti i terpeni, il limonene si scioglie meglio in alcool che in acqua, proprietà grazie alla quale possiamo godere di prodotti come il limoncello (e sue interessanti varianti, come il mandarinoncello, il Cointreau, il Grand Marnier, e altri cari compagni di serate).

 

Il D-limonene

 

Ora, considerando che il limonene lo riscontriamo sovente e oltretutto in piante non affini, il suo vantaggio adattativo dovrebbe essere indubbio. È vero che il sapore del limonene è gradito in molte culture e si associa ad una sensazione di freschezza, ma questo non fa gli esseri umani dei vettori biologici di queste piante (anche perché ci cibiamo prevalentemente del succo e non mangiamo – e conseguentemente – defechiamo e propaghiamo semi interi). Anche l’agricoltura è relativamente recente (10.000 anni fa?) rispetto alla comparsa del limonene, per cui è difficile che l’appetibilità del composto abbia favorito addirittura la propagazione da parte degli agricoltori. Rimane quindi un vantaggio ancestrale e lontano che, a pensarci bene, abbiamo usato in passato e usiamo anche noi oggi: l’uso del limonene come insetticida e come antimicrobico (contro batteri e, in minor misura, funghi), che è poi l’uso prevalente che ne fanno piante. Noi stessi usiamo le candele alla citronella per tenere lontane le zanzare, e gli antichi egizi includevano oli essenziali di agrumi nel loro nécessaire per l’imbalsamazione dei cari estinti, al fine di arrestare l’inevitabile decomposizione microbica. E difatti, da un rapido esame di articoli scientifici sul tema (vedi lunga lista alla fine), le piante sintetizzano il limonene come difesa chimica contro molti patogeni (batteri, funghi e nematodi) e come deterrente contro gli insetti erbivori e/o che depongono uova sui/nei tessuti della pianta, uova da cui emergono voraci larve mangiafoglie.

 

Attività antimicrobica contro Xanthomonas oryzae da parte del (S)-limonene (riga b) e del suo enantiomero (R)-limonene (riga c). Gli aloni scuri intorno alla carta imbevuta di limonene indicano l’inibizione della crescita batterica (da Lee et al., 2016).

Controllo positivo (P.C.), foglie infettate (controllo negativo, N.C.) e pretrattamenti con varie concentrazioni di (S)-limonene in foglie di riso infettate da Xanthomonas oryzae (Lee et al., 2016).

 

Spesso il limonene è solo un prodotto intermedio, un precursore del carvone, un terpenoide dall’odore di menta o di cumino, a seconda della forma enantiomerica, che spesso ha capacità insetticida e antimicrobica anche maggiori di quelle del limonene. Il problema è che un segnale chimico non è “positivo” o “negativo” di per sé ma la risposta che induce dipende dal recettore dell’organismo bersaglio. Si potrebbe pensare quindi che elevati livelli di limonene siano favoriti nelle piante in quanto conferirebbero una maggiore protezione, ma ciò non è sempre vero. In arancio, ad esempio, livelli troppo alti di limonene fungono da deterrente anche per alcuni microorganismi utili per la pianta, i quali hanno capacità antibiotiche nei confronti di microorganismi patogeni o che favoriscono la germinazione dei semi della pianta stessa. Anche alcuni impollinatori sono attratti dal limonene, cosa che spiegherebbe perché negli agrumi i frutti, dove viene prodotto il limonene, si accompagnano spesso ai fiori. Per mantenere questo equilibrio, le piante regolano la produzione di limonene e la confinano in determinati organi e in determinati periodi. La faccenda è anche più complicata di quanto sembri perché il limonene sembra attrarre le femmine di alcune specie di coleotteri, che depongono quindi le uova sulle foglie, ma ciò è in qualche modo “tollerato” dalla pianta perché altri erbivori, più dannosi delle larve di coleottero, possono accorgersi della presenza di uova sulle foglie, evitando di mangiarle. Il limonene sarebbe quindi, ameno in questo caso, una protezione indiretta che renderebbe le femmine ovopositrici, come definiscono gli autori dell’articolo, più “choosy” (termine di forneriana e triste memoria).

La produzione industriale del limonene (attenzione, possibilmente da scarti di agrumi, dal momento che, da buon idrocarburo, si può sintetizzare anche a partire da copertoni usati) è oggi in crescita a causa del suo uso in medicina come antisettico, digestivo, aromaterapico, antinfiammatorio, antiasmatico, antiossidante, chemiopreventivo e anticancerogeno a concentrazioni di 2-2000 μM. Inoltre, a concentrazioni sotto i 10.000 μM, non ha effetti genotossici né provoca danni al DNA in cellule umane. Concentrazioni molto più alte consentirebbero invece il suo utilizzo come erbicida in agricoltura biologica perché è fitotossico e citotossico su molte erbe infestanti. A causa della loro azione insetticida, soprattutto contro le larve di lepidotteri e di coleotteri, gli oli essenziali contenenti limonene possono essere usati come biopesticidi in agricoltura biologica, anche in virtù della loro complete biodegradabilità. Un’altra proprietà fondamentale del limonene è la sua azione allelopatica, per cui le specie vegetali che lo sintetizzano e lo volatilizzano hanno vantaggi, anche a distanza, nei confronti di altre specie, inibendone la crescita o la germinazione dei semi nelle vicinanze. Una dei chemotipi più interessanti a tale riguardo è Dracocephalum kotschyi, una Lamiacea iraniana che ha altissimi livelli di limonene, con spiccate attività insetticida e allelopatica.

Oltre a questi usi, il limonene può essere usato come solvente, come biomateriale e come biocombustibile, anche se questi usi sono ancora molto limitati. Considerando la sua importanza industriale (la produzione mondiale ammonta a 60.000 t/anno), il gene della limonene sintasi, il principale enzima coinvolto nella sintesi del limonene, proveniente dal limone è stato usato per produrre piante transgeniche di Camelina sativa. Il gene, che nel limone non è costitutivo, cioè non viene sempre espresso, è stato messo sotto il controllo di un promotore (interruttore) molto forte proveniente dalla pianta modello Arabidopsis thaliana, per cui si sono ottenute piante transgeniche con alti livelli di limonene. Altre ricerche simili sono state condotte con successo su altre specie (es. tabacco) e su vari microorganismi, tra cui cianobatteri, in grado di produrre alti livelli limonene. È anche vero però che l’olio essenziale di agrumi contiene dal 70 al 98% di limonene, per cui continuano ad essere le bucce dei frutti le fonti di limonene preferite dall’industria.

 

I vari usi del limonene (da Jongedijk et al., 2016).

 

Le piante hanno una capacità notevole di produrre e accumulare in alcuni tessuti specializzati un’ampia gamma di metaboliti e molti di essi sono escreti in forma liquida o – se hanno un basso punto di ebollizione – volatile, al punto tale che si parla di secretoma e di volatoma, cioè dell’insieme di tutte queste sostanze. I tricomi ghiandolari sono dei peletti spesso non fotosintetici sulla superficie delle foglie, sormontati da un serbatoio di olio essenziale ricoperto da un sottile strato di cuticola, che si rompe facilmente al contatto fisico. Negli esperidi degli agrumi, il limonene è accumulato in cavità secretorie nella buccia colorata (flavedo), mentre non è sintetizzato nella parte bianca (albedo). Sono questi due i tessuti dove sono presenti gli enzimi necessari (tra cui la limonene sintasi) per la produzione del limonene a partire dal glucosio e dai suoi derivati ottenuti dalla fotosintesi. La produzione è spesso concentrata in alcune fasi, di solito quando il frutto o la foglia sono a piena maturazione.

Penserete a tutte queste cose quando vi preparerete la prossima aranciata?

 

Tricomi ghiandolari in Cannabis spp. (fonte qui).

 

Schema di un tricoma ghiandolare.

 

 

Grazie a loro, ho scritto:

 

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Ali Rostaefar, Abbas Hassani, Fatemeh Sefidkon (2017) Seasonal variations of essential oil content and composition in male and female plants of Juniperus communis L. ssp. hemisphaerica growing wild in Iran. Journal of Essential Oil Research, 2017 VOL . 29, NO . 4, 357–360

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Written by Horty in: Senza categoria |
Nov
28
2017
0

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie

 

 

Molte piante terrestri hanno organi o tessuti di colori diversi dal verde. Questi colori possono avere un costo o dare un vantaggio alle piante che li mostrano. Il costo energetico per produrre organi colorati ha tre aspetti. Primo, richiede l’allocazione di risorse per sintetizzare i pigmenti. Secondo, ogni colore di un organo di una parte aerea non legnosa, ad eccezione del verde, potrebbe in molti casi essere correlato ad una diminuzione della fotosintesi. Terzo, i colori diversi dal verde potrebbero attrarre gli erbivori. In generale, i benefici della colorazione dovrebbero essere più alti dei costi, affinché il carattere si diffonda.

I pigmenti vegetali e le colorazioni causate da spazi di aria o altri effetti fisici (riflessione, rifrazione, interferenza) hanno una funzione fisiologica e di comunicazione, come ad esempio la fotosintesi, la difesa dai raggi ultravioletti, la rimozione dei radicali liberi che sono tossici, l’impollinazione, la dispersione dei semi, la termoregolazione e la difesa. I pigmenti non fotosintetici hanno il potenziale di avere più funzioni contemporaneamente. Bisogna anche essere cauti perché non dobbiamo dare per scontato che, poiché abbiamo trovato una funzione apparente di una colorazione, questo necessariamente significa che abbiamo una spiegazione completa del fenomeno. Varie ipotesi che riguardano la colorazione delle foglie e di altre parti delle piante non devono essere in contrasto o escludere altre spiegazioni funzionali di diversi tipi di colorazione, e tratti come la colorazione, che potrebbero avere più di un tipo di beneficio, potrebbero essere selezionati da diversi agenti.

L’evoluzione della colorazione delle piante riflette un adattamento sia a pressioni fisiologiche che alle relazioni con altri organismi. Indubbiamente le colorazioni aposematiche (l’aposematismo è una colorazione specifica per cui organismi velenosi, pericolosi o non commestibili, avvertono visivamente le loro caratteristiche ad altri organismi) danno alle piante il grande vantaggio di segnali visivi che avvertono gli erbivori della poco commestibilità o della velenosità delle piante stesse. Sono soprattutto gli organi vegetativi, come le foglie, le spine e il fusto, a mostrare colorazioni aposematiche, allo stesso modo in cui fanno gli animali nei confronti dei loro predatori. Purtroppo il numero sorprendentemente basso degli studi sulle piante riguardanti le colorazioni difensive, rispetto a quelli zoologici, rende queste ricerche innovative e allo stesso tempo stimolanti.

Le colorazioni aposematiche si basano sull’abilità del bersaglio nemico di associare il segnale visivo al rischio, danno o non commestibilità, e quindi di evitare l’organismo segnale come preda. I tipici colori aposematici negli animali sono giallo, arancio, rosso, viola, nero, bianco e marrone, o combinazioni di questi. La difesa comune da parte di molte colorazioni aposematiche ha portato all’evoluzione di molti animali in grado di imitarle. Tra queste strategie mimetiche, le più famose sono la mülleriana, dove gli animali che si difendono si imitano l’un l’altro, condividendo i costi dell’apprendimento da parte del predatore tra tutte le prede, e la batesiana, in cui gli animali indifesi beneficiano dell’esistenza di modelli aposematici comuni nelle specie in grado di difendersi.

Una delle discussioni più interessanti sulle colorazioni delle piante è quella riguardante il colore giallo e rosso delle foglie autunnali.

L’abscissione di una parte della pianta si verifica per liberarsi di un organo non più necessario, come una foglia in autunno. Nelle foglie, l’abscissione è il distacco del picciolo dal ramo. Così facendo, i vasi conduttori che passano sia nel ramo che nel picciolo si spezzano, impedendo il passaggio della linfa. La foglia si secca e così il vento ne provoca il distacco (vedi figura e spiegazione in basso). Nelle zone temperate ad alternanza di stagioni e solo per le piante caducifoglie, le foglie cadono in autunno perché in inverno le ore e l’intensità di luce sono minori e quindi le coste diventerebbero più un costo energetico per l’albero che un vantaggio.

Se è quindi chiaro come e perché le foglie cadano, non è per nulla chiaro perché cambino colore prima di cadere.

 

In autunno al momento della caduta delle foglie, alla base del picciolo, alcune cellule proliferano formando lo strato di abscissione. E’ un tessuto formato da cellule piccole, piatte con pareti molto sottili e prive di sostegno meccanico. Le lamelle mediane gelificano lasciando la foglia attaccata al ramo solo per mezzo dei fasci, che finiscono per rompersi provocando la caduta della foglia. Al di sotto dello strato di absissione si forma uno strato protettivo con cellule suberificate, in grado di isolare la foglia dal fusto prima della caduta.

Fonte: http://slideplayer.it/slide/2934734/10/images/8/Strato+di+abscissione.jpg

 

Per molti decenni si è creduto che i colori autunnali delle foglie appaiono dopo la degradazione della clorofilla (verde), che li maschera, e che questi colori non abbiano alcuna funzione. I benefici fisiologici della colorazione autunnale delle foglie, come la protezione dalla fotoinibizione e dalla fotossidazione, sono stati accertati. Finora, sono stati proposti vari ruoli difensivi di questa colorazione nei confronti degli erbivori. La prima, la più discussa, è che le colorazioni accese autunnali sono segnali che indicano una buona capacità di difendersi da parte degli alberi (come avviene per la coda magnifica di un pavone maschio, utile per farsi notare dalle femmine e trasmettere così i suoi geni). Questa funzione risponde al principio dell’handicap, anche detto del segnale onesto, un’ipotesi proposta nel 1975 dal biologo Amotz Zahavi, inerente alla comunicazione e al comportamento animale. Secondo questa ipotesi, il segnale emesso da un organismo è tanto più attendibile quanto più appare evidente lo sforzo (o spreco, o handicap) nell’emetterlo. La funzione della colorazione autunnale delle foglie potrebbe anche essere in alcuni casi aposematismo o mimetismo, oppure potrebbe servire per attirare insetti per stabilire relazioni di mutualismo (ad es., attirare formiche che si nutrono di afidi, a beneficio sia delle formiche che degli alberi). Un’altra ipotesi interessante riguarda il ruolo difensivo della colorazione delle foglie, che riduce la capacità di camuffamento degli insetti erbivori sulle foglie stesse, aumentandone il contrasto con lo sfondo.

In opposizione al principio dell’handicap (anche perché la colorazione autunnale non è energeticamente costosa), altre teorie suggeriscono che le foglie giallo/rosse fungono per gli afidi da indicatori dell’azoto disponibile sotto forma di aminoacidi, e quindi sono un segnale attrattivo più che repellente. Altri studiosi hanno ipotizzato che la colorazione autunnale sia una specie di schermo solare, oltretutto in grado di riscaldare le foglie e da funzionare come antiossidante. In accordo con il principio dell’handicap, invece, un’altra ipotesi si basa sul ruolo degli antociani, pigmenti dal tipico colore rosso-blu-viola, che si accumulano e si rendono evidenti durante la senescenza autunnale delle foglie. Infatti, pochi insetti erbivori si nutrirebbero di piante ricche di antociani perché questo è correlato alla maggiore difesa chimica (non commestibilità o poco valore nutritivo) delle foglie degli alberi. Altri ancora negano ogni relazione con gli erbivori, affermando che il ruolo della colorazione autunnale delle foglie è unicamente fisiologico.

L’aposematismo delle foglie autunnali si caratterizza quindi con la loro alta capacità di difesa nei confronti degli erbivori/patogeni nonché nella loro sgradevolezza/non commestibilità. In alcuni casi subentra anche il mimetismo, quando cioè foglie non tossiche e commestibili mimano quelle tossiche (mimetismo batesiano). La questione del ruolo potenziale del mimetismo nell’evoluzione del colore rosso o giallo è ancora un enigma. Se le foglie gialle vecchie sono sgradevoli, mentre le foglie appena diventate gialle sono ricche di aminoacidi, allora il mimetismo batesiano da parte delle foglie appena diventate gialle sembra operare insieme alle foglie dello stesso albero diventate gialle precedentemente, o anche tra alberi della stessa specie che differiscono nella tempistica della colorazione autunnale, o anche tra specie diverse. Infine, c’è anche la incredibile possibilità che l’aposematismo olfattivo delle foglie giallo/rosse agisca simultaneamente con quello visivo, e che quindi le foglie autunnali emettano stanze volatili repellenti contro gli erbivori. C’è ancora molto da studiare per capire il giallo e il rosso delle chiome arboree autunnali, ma nel frattempo godiamo del piacere emotivo che ci dà un albero dai colori accesi, prima di un lungo inverno.

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