Dic
20
2019
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Parassiti natalizi

 

Siamo ormai prossimi al Natale e La Belle Verte compie 11 anni. Festeggiamo allora parlando di parassiti natalizi, non nel senso di parenti o amici che richiedono prestiti o riciclano regali altrui, ma di parassiti – ovviamente – vegetali.

 

Il vischio è stato cantato già dai celti e le antiche genti scandinave e di esso si parla anche nell’Eneide di Virgilio, dove era il “ramo d’oro” (per il colore chiaro delle sue foglie e pseudo-bacche) sacro a Proserpina, necessario ad Enea per poter scendere nell’Ade e rivedere suo padre. Non è una specie protetta, anche se riveste un ruolo importante all’interno delle dinamiche ecologiche del bosco. I druidi, sacerdoti celtici, attribuivano al vischio un grande potere, poiché è una pianta celestiale in quanto aerea, cioè che vive sul tronco degli alberi senza mai toccare terra. Panoramix, il druido di Asterix, usava il vischio tra i numerosi ingredienti della sua pozione magica. Inoltre, baciarsi a capodanno sotto il vischio porterebbe fortuna (leggete qui), per cui rientra tra le piante simbolo delle festività natalizie, come l’agrifoglio e il pungitopo.

 

Si pensa spesso che il vischio sia un’epifita – un termine che deriva dal greco (il prefisso “epi” significa ‘sopra’) – cioè una pianta che cresce su un’altra pianta (in questo blog, avevamo parlato tempo fa delle Bromeliaceae, molte delle quali epifite). Le epifite in senso stretto non sono però parassite e non ottengono direttamente l’alimentazione dall’albero ospite su cui crescono, sebbene si possa dire che danneggino l’ospite indirettamente. Non sono quindi “autostoppiste” innocue perché gli alberi fortemente infestati spesso mostrano segni di morbilità o lesioni. Gli alberi in stato senescente tendono ad essere inclini all’infestazione da epifite. Inoltre, poiché le epifite vivono in un ambiente dominato da livelli fluttuanti di nutrienti, umidità e luce, si può dire che sono adattati per resistere a stress periodici. I mezzi per procurarsi nutrienti minerali e umidità sono cruciali per un’epifita e possono avere un impatto su altri organismi all’interno dell’ecosistema. Infatti, In molte foreste mature il carico di epifite è maggiore di quello delle erbe sottostanti e non di rado la superficie fogliare collettiva delle epifite supera quella dell’albero ospite.

 

Ci sono poi piante parassite ed emi-parassite (queste ultime “in parte” parassite). Il vischio è appunto una di queste.

 

Esistono due tipi principali di parassiti del fusto: i grandi e folti emi-parassiti arborei, in particolare i vischi dell’ordine Santalales (famiglie Loranthaceae, Viscaceae ed Eremolepidaceae); e i generi Cassytha e Cuscuta, che sono piante rampicanti parassite ad ampia distribuzione, con fusti filiformi senza foglie attaccati alla pianta ospite per mezzo di ventose. I parassiti del fusto sviluppano austori (estroflessioni simile a radici) che li collegano all’ospite. La specie ospite fornisce al parassita acqua e sostanze nutritive sia minerali che organiche (zuccheri). Per far questo, le piante parassite ed emi-parassite hanno numerosi stomi (aperture fogliari), in modo che si instauri un alto tasso traspirativo in grado di attirare acqua e sostanze nutritive dall’ospite.

 

I parassiti del fusto possono essersi evoluti da epifite che generalmente non avevano relazioni specie-specifiche. Le Santalaceae, che sono correlate ai vischi, sono particolarmente interessanti perché sono parassiti delle radici, ad eccezione di Dendrotrophe, un genere di parassita del fusto. Le Santalaceae sono emi-parassite senza preferenze dell’ospite. Thesium ha radici erranti che attraversano il suolo a una profondità di pochi centimetri, stabilendo contatti multipli con le radici degli ospiti. Forse le Santalaceae illustrano un esempio dell’origine del parassitismo del fusto dal parassitismo radicale o viceversa.

 

I vischi sono emi-parassite, cioè piante fotosintetiche che ottengono in parte acqua e sostanze nutritive dall’albero ospite. Presentano alti tassi traspirativi al fine di ottenere acqua e nutrienti essenziali dall’ospite, che deperisce lentamente. Nei vischi, l’ipocotile si allunga dal seme con una minuscola radichetta sulla punta. Questa è coperta di papille che secernono una colla quando toccano la superficie dell’ospite. La radichetta quindi si allarga per formare una ventosa a forma di tazza che penetra nel tessuto dell’ospite. Sotto l’epidermide dell’ospite si forma quindi un callo verde ramificato. In molti vischi tropicali (Loranthaceae ed Eremolepidaceae) come Plicosepalus sono presenti radici epicorticali che si arrampicano lungo il ramo producendo austori secondari in tutti i punti di contatto.

 

Vischio (Viscum album L.) su un ramo di pero selvatico (foto: A. Sofo)

 

Alcuni vischi presentano un tessuto extra-ovulare (una pseudo-bacca) sul seme, oltre a essudati chimici utili per l’attaccamento (viscosità) e la germinazione – il contenuto appiccicoso delle bacche del vischio è stato utilizzato come colla per la pratica dell’uccellagione -. Il testa (un tegumento) del seme è fortemente ridotto in modo che gli embrioni vengano rilasciati in una massa appiccicosa. Le famiglie di vischio Loranthaceae e Viscaceae si sono probabilmente evolute da gruppi non parassiti attraverso un parassita radicale emi-parassitario. Il vischio Anothofixus, che è un’epiparassita obbligato, attacca il floema del suo ospite, il vischio Amyema, mentre quest’ultimo viene a contatto a sua volta con lo xilema del suo ospite, Casuarina. Spesso c’è specificità dell’ospite come nel caso di Arceuthobium su Pinus o Juniperus.

 

Pseudo-bacche di vischio (Viscum album L.) (foto: A. Sofo)

 

Una caratteristica molto insolita dei vischi tropicali (famiglia Loranthaceae) è il modo in cui alcuni sembrano assomigliare alla forma della foglia del loro ospite, una strategia quindi di mimetismo vegetale. Amyema linophyllum, parassita della Casuarina, ha foglie a forma di rami di quest’ultima. Altre specie assomigliano ai fillodi dell’acacia, come dimostrato nel 75% dei vischi australiani. Dendrophatae shirleyi può addirittura assomigliare a tre diversi tipi di ospiti con foglie piatte lineari-lanceolate, foglie spesse arrotondate o foglie compresse lineari.

 

Vischio tropicale; Loranthaceae (fonte: M. Ingrouille e W. Eddie 2006)

 

Mimetismo (riquadro in alto a destra) di Amyema linophylla

 

Molti vischi sono impollinati dagli uccelli e hanno fiori attraenti (comprese corolle esplosive). Anche la pseudo-bacca viene solitamente disseminata dagli uccelli.

 

Guano di tordela con semi di vischio (fonte: A. Girodo)

 

I vischi inoltre sono molto studiati per le loro elaborate strategie di impollinazione dei fiori e di dispersione dei semi. A titolo di esempio, in un vischio parassita (Tristerix corymbosus), le strategie contrastanti di impollinatori (colibrì) e dispersori (marsupiali) influenzano il tempo di fioritura: l’apertura dei fiori durante l’inverno e la tarda primavera determina un numero minore di visite da parte del colibrì e riduce l’impollinazione e l’allegagione rispetto ai fiori che si aprono in autunno o all’inizio della primavera. Tuttavia, i frutti prodotti durante l’inverno beneficiano di alti tassi di rimozione e dispersione durante l’estate quando il principale dispersore, il marsupiale Dromiciops australis, alleva la prole. In questo caso, l’ottimizzazione della dispersione dei frutti con i tempi dell’attività del marsupiale può essere tanto importante, se non più importante, del successo dell’impollinazione nel determinare il tempo di fioritura. Questi risultati suggeriscono che il periodo di attività dei dispersori di semi può modellare l’evoluzione della fioritura, anche se gli agenti di dispersione non interagiscono con i fiori. Influenze simili possono determinare i periodi di fioritura di molte specie con frutti o pseudo-frutti carnosi che si affidano a Vertebrati come dispersori di semi.

 

Mi fermo qui. Auguri e arrivederci all’anno prossimo!

 

Written by Horty in: Senza categoria |
Ott
31
2019
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Semi a propulsione

A volte, una semplice passeggiata può ispirare un post. Camminavo per le Murge e, alla fine dell’escursione, la guida mi ha mostrato una pianta comune a cui non avevo dato mai importanza ma che, a quanto pare, tutti gli altri conoscevano bene fin dall’infanzia. Si trattava di varie macchie vigorose di cocomero asinino. Dal tipo di fusto (angoloso, ruvido e strisciante) e di fiore (con i petali uniti tra loro, pentamero e giallo), pensavo, doveva essere sicuramente una cucurbitacea (per intenderci, la famiglia a cui fanno parte zucchina, zucca, cetriolo, cocomero e melone). La caratteristica stupefacente di questa pianta è che sfiorando il frutto maturo avviene una dispersione esplosiva di semi da un’apertura situata nel punto il pedicello si interrompe. E difatti il nome scientifico del cocomero asinino è Ecballium elaterium, di origine greca (ekballein = espellere). Anche il nome comune inglese (squirting cucumber = cetriolo che schizza) la dice lunga.

 

Ecballium elaterium, Murgia di Spinazzola (BA). Foto mie.

 

Senza entrare nel merito della specie, la quale è stata abbondantemente studiata dal punto di vista botanico e farmaceutico, camminando nella sagra successiva all’escursione, tra castagne e cardoncelli, pensavo che le piante hanno sviluppato innumerevoli adattamenti nei loro semi, con ogni forma diversa sviluppata per adattarsi a un ambiente e un ciclo di vita unici. Da qui la curiosità di approfondire di più l’argomento, di solito poco affrontato nei corsi universitari (ricordo solo qualche accenno nei corsi di Botanica e Botanica Sistematica che ho frequentato un secolo fa).

La dispersione dei semi di una pianta è una fase estremamente importante del suo ciclo di vita. Questa capacità ha permesso alle piante di colonizzare nuove aree e di migrare in risposta alle mutevoli condizioni del clima e della competizione con altre piante, influenzando così sia la dinamica che la composizione delle comunità vegetali e animali. La produzione di semi è stata senza dubbio una delle maggiori innovazioni evolutive che si sono verificate durante la radiazione delle piante terrestri. Le specie vegetali hanno sviluppato tantissime varianti di semi, con ogni forma diversa sviluppata per adattarsi a un ambiente e un ciclo di vita unici. I primi produttori di semi, le Gimnosperme, comprendenti le estinte Pteridosperme, e le conifere e le cicadofite oggi esistenti, hanno “semi nudi”, cioè che non hanno tessuti (frutti) attorno. Quando i coni delle conifere (le pigne) si asciugano, le loro brattee simili a scaglie si aprono lentamente, rilasciando i semi, che cadono dall’albero fluttuando nella brezza usando strutture simili ad ali, per poi germinare lontano dalla pianta madre. Alcuni dei loro parenti, tra cui il ginkgo e il tasso, producono semi con rivestimenti carnosi colorati che attirano uccelli e mammiferi, i quali poi li disperdono.

Furono le Angiosperme, le piante con fiori, che videro alcune delle più grandi modifiche nel modo in cui le piante potevano diffondere il loro materiale genetico. Inizialmente comparvero semi soffici e leggeri tanto da farsi trasportare dal vento (anemocoria). Alcuni generi, come Asclepias, producono grandi baccelli dai quali numerosi minuscoli semi attaccati esplodono nell’aria, come sottili paracadute, mentre in Clematis (clematide) le “code” allungate dei semi permettono loro di essere trasportati anche dal più leggero zefiro. Altre specie, come aceri e sicomori, hanno evoluto semi a “pala di elicottero” che si allontanano trasportati dal vento e dalla gravità. In altre specie ancora, le strutture uniche dei semi possono essere rivelate solo a livello microscopico, come quelle del pennello indiano (Castilleja flava), che hanno una forma cava a nido d’ape in grado di catturare l’aria.

 

Esempi di anemocoria: semi e frutti alati o con “paracadute”: a) valeriana, b) tarassaco, c) Epilobium, d) Clematis, e) acero, f) frassino, g) Tipuana, h) tiglio, i) carpino, j) Alsomitra.

 

Tempo fa ho scritto anche un artiolo sull’idrocoria, cioè sul trasporto nell’acqua di semi, polline, spore e frutti, ma un’altra strategia che si è rivelata di grande successo, e qui torniamo al nostro Ecballium, è stata quella di produrre semi stretti saldamente in frutti che a maturità scoppiano. In questo caso rientriamo nell’autocoria, cioè nella disseminazione operata senza l’aiuto di agenti estranei alla pianta, detta anche autodisseminazione. Anche un piccolo mammifero che passa accanto ad una bacca matura di cocomero asinino causerà un’esplosione di semi fino a 12 metri di distanza e alla velocità di 10 m/s (pari a 36 km/h !); e un minimo colpo a un frutto del balsamina (Impatiens glandulifera) attiverà un’eruzione velocissima di semi scuri in tutte le direzioni. Altri esempi notevoli di autocoria sono l’eiaculatore delle Bignoniaceae, un funicolo modificato, e le capsule esplosive nel genere Viola. Alcune piante, come i papaveri, hanno frutti a forma di saliera che gettano i loro semi a terra mentre ondeggiano nel vento e urtano i loro vicini. Oppure, nel caso di molte orchidee, semi della dimensione della polvere possono essere trasportati e portati via da un unico soffio d’aria.

 

Esempi di autocoria: rilascio esplosivo di semi in a) Impatiens, b) viola e c) cocomero asinino.

 

 

L’autocoria non è esclusiva dei semi, ma anche delle spore e del polline. La maggior parte delle piante adotta un rilascio passivo, per cui la posizione e la disposizione degli sporangi (dove maturano le spore) e delle antere (dove matura il polline) sopra o al di fuori di foglie, brattee o perianzio consentono al vento di trasportare le spore e il polline. Molte specie hanno un cono maschile, un amento o lunghi filamenti penzolanti da cui si distaccano le spore. La vibrazione di questi organi nella brezza può essere molto regolare ed è stato osservato che anche con un flusso d’aria moderato di 2-3 m/s, le infiorescenze di molte specie erbose si agitano in modo armonico.

 

Cono femminile di pino dove è mostrato l’intrappolamento del polline trasportato dal vento.

 

Amenti di Fagales ad impollinazione anemocora: fiori maschili e femminili di a) betulla, b) faggio e c) ontano.

 

I meccanismi di rilascio delle spore sono anche alimentati da variazioni della pressione dell’acqua, che si verifica quando le celle si disidratano. A questo proposito, gli elateri sono cellule allungate con una o più bande di ispessimento che permettono loro ti torcersi quando l’umidità cambia, muovendosi quindi igroscopicamente all’interno della massa delle spore. Essi si trovano inframmezzati alle spore e ne favoriscono la dispersione con movimenti igroscopici. Gli elateri si trovano in tre gruppi di piante: epatiche, antocerote ed equiseti. In alcune specie di epatiche, gli elateri sono attaccati a un piccolo elatoforo colonnare, alla base (Pellia) o all’apice (Riccardia) della capsula. In Cephalozia, l’elaterio viene compresso e si attorciglia mentre si asciuga, fino a quando la colonna d’acqua al suo interno si rompe; quindi balza indietro, torcendosi per scrollarsi di dosso le spore. Gli elateri di Frullania sono attaccati alla parte superiore e inferiore delle valvole della capsula; quando le valvole si aprono, allungano gli elateri, che si strappano alla base rilanciando spore.

 

Azione degli elateri di Frullania: la capsula si apre dividendosi in lobi; gli elateri attaccati alla parete della capsula si allungano e poi rilasciano come una molla, catapultando le spore fuori.

 

Di tutti i gruppi di piante senza semi, i muschi presentano la gamma più diversificata di meccanismi per la dispersione delle spore, con tantissime variazioni nella forma del peristoma. I denti del peristoma possono essere multicellulari e fatti di cellule intere o costruiti dalle parti di cellule adiacenti che si sono rotte a maturità. Il peristoma può essere attorcigliato e i denti possono essere biforcuti o filamentosi. Il restringimento della capsula di muschio spinge via l’opercolo a forma di tappo perché quest’ultimo si restringe meno del resto della capsula, spingendo così anche le spore verso l’apertura, dove i denti del peristoma, muovendosi igroscopicamente, sollevano le spore nel flusso d’aria. In alcuni generi, come Bryum, esiste un doppio peristoma: l’anello esterno si interdigita tra quello l’interno e raccoglie le spore sulle punte segmentate dentate, facendole sfuggire. Nei muschi di palude Sphagnum, l’opercolo esplode, sparando spore, a causa della pressione che si accumula all’interno quando la capsula si asciuga e si restringe.

 

Azione della capsula di Sphagnum durante il rilascio delle spore. L’opercolo esplode, lanciando le spore fuori quando la capsula si restringe a maturità.

 

Nelle felci leptosporangiate, c’è uno speciale anello di cellule, l’annulus, che aiuta a catapultare le spore dallo sporangio; le cellule anulari si restringono mentre si disidratano e alla fine lo sporangio si rompe lungo lo stomio in due parti, di cui una recante le spore. Immediatamente, l’acqua liquida all’interno delle cellule dell’anello si vaporizza sotto la tensione, rilasciando così la pressione in modo che le due parti tornino l’una vicino all’altra e le spore vengano catapultate nell’aria. Nell’ortica (Urtica dioica) gli stami sono curvati verso l’interno a mo’ di bocciolo e i filamenti sono piegati all’indietro come molle. Con il tempo asciutto, i filamenti scattano all’indietro, lanciando polline nell’aria. Quando il bocciolo di Broussonettia si apre, i filamenti spuntano e i granelli di polline vengono lanciati violentemente in aria. Infine, la mercorella comune (Mercurialis annua) ha peduncoli che si rompono, lanciando i fiori e il loro polline nell’aria.

 

 

Ma le piante da fiore non si limitano a usare solo i mezzi abiotici di vento, acqua e propulsione a getto per diffondere i loro semi. Poiché le piante da fiore si sono gradualmente irradiate e si sono differenziate a partire dal Cretaceo (circa tra 145 e 65 milioni di anni fa), il ruolo degli animali è diventato sempre più importante per la loro sopravvivenza. I semi appiccicosi di Galium aparine si sono evoluti per aderire agli uccelli e ai mammiferi che sfiorano la sua vegetazione gommosa, e così anche i semi uncinati di Hackelia americana si sono adattati per avere un passaggio dagli animali di passaggio, aggrappandosi alla loro pelliccia. Questi metodi semplici ma efficaci di dispersione dei semi si sono rivelati molto vantaggiosi.

Di pari passo con l’evoluzione dei fiori, un gran numero di specie animali divenne presto necessario per trasportare polline, e col tempo anche le Angiosperme iniziarono a sviluppare organi specializzati per incoraggiare gli animali a disperdere i loro semi. Tutti gli animali sono eterotrofi, devono cioè consumare nutrienti organici per sopravvivere, e in generale quegli individui che hanno un migliore accesso ai nutrienti saranno più sani e più forti e, a loro volta, avranno maggiori possibilità di riprodursi. Questa necessità è stata sfruttata dalle piante, che hanno offerto i loro semi agli animali confezionandoli in un rivestimento nutriente. In questo modo gli animali li ingeriscono e in seguito li depositano lontano nei loro escrementi (zoocoria). Gustose, seducenti e colorate strutture di polpa zuccherina si sono evolute per racchiudere i semi di varie Angiosperme, attirando al banchetto gli animali che, inconsapevoli, li trasportano in luoghi adatti per la loro germinazione. Erano comparsi i frutti, ma questa è un’altra storia che racconteremo un’altra volta.

 

Grazie a loro, ho scritto:

 

Benson W (2016) Kingdom of Plants. A Journey Through Their Evolution. Collins.

Gledhill D (2008) The Names of Plants. Cambridge University Press.

Ingrouille M, Eddie B (2006) Plants: Evolution and Diversity. Cambridge University Press.

Thompson JD (2005) Plant Evolution in the Mediterranean. Oxford University Press.

Written by Horty in: Senza categoria |
Feb
12
2013
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Coccoooo… cocco bello, cocco fresco

Questo articolo e’ stato scritto, in occasione del Darwin day 2013,  per il Carnevale della Biodiversita’ – ottava edizione, dal tema: “L’isola che c’è”. Per la rassegna completa di tutti i blog e post che partecipano al Carnevale vai sul blog Leucophaea, di Marco Ferrari.

 

 

Domenica, 7 ottobre 1492

[…] In questo giorno al levar del sole, la caravella Niña, che precedeva le altre perché più spedita, e tutte andavano a gara per vedere terra per primi […]

 

Giovedì, 11 ottobre 1492

 […] Videro gabbiani e un giunco verde vicino alla nave. Quelli della caravella Pinta scorsero un altro piccolo tronco, intagliato a quanto sembrava con ferro, e un pezzo di altra canna e altra erba, di quella di terra e una piccola tavola. Quelli della caravella Niña videro anche altri segnali di terra e un piccolo ramoscello carico di rose canine. Visti che ebbero questi segnali, tutti si rincuorarono e andarono lieti. […]

 

Venerdì, 12 ottobre 1492

 […] Alle due, passata la mezzanotte, apparve terra […] Giunti a terra, videro alberi verdissimi, molte fonti e frutti di varie sorte. […]

 

 

E’ così che Cristoforo Colombo raccontava, nel suo diario di bordo, l’approdo alle sue agognate Indie, che però non erano “altro” che S. Salvador e isole annesse (Cuba e Haiti). Un errore di poche migliaia di chilometri ma giustificabile per le conoscenze dell’epoca, che segnò l’arrivo dell’uomo occidentale in America. Nonostante non fosse un botanico, Colombo era un grande osservatore e quindi notò immediatamente la ricchezza e la diversità delle nuove terre, sia in senso di biodiversità che di diversità rispetto alle piante che conosceva, e ne faceva riferimento spesso nelle pagine del suo diario.

 

Non soltanto Colombo, ma anche molti altri navigatori di quel periodo facevano ben attenzione agli uccelli e ai vegetali che galleggiavano in acqua. In condizioni di scarsità di provviste e di acqua, con ciurme malate ed esasperate, spesso veri e propri covi di criminali, prive di medicinali e di donne, l’avvistamento della terra era di primaria importanza, se non altro per la vita stessa dell’ammiraglio e per le eventuali ricompense di regnanti finanziatori seduti sulle comode poltrone dei loro regni. E così, l’occhio del navigante era ben allenato a individuare subito uccelli di terra ma che di giorno andavano in mare per cibarsi, come gabbiani e cormorani, e a discernere una semplice erbetta galleggiante di alghe morte da residui di piante provenienti dalla costa. Questi erano infatti chiari segnali del vicino approdo. Ed è qui che entriamo in scena noi. Perché tra questi residui galleggianti ci sono i più grandi semi del mondo: le noci di cocco. I primi esploratori spagnoli le chiamarono “coco”, che significa “faccia di scimmia“, perché le tre tacche (occhi) sul dado peloso assomigliano un po’ alla testa e alla faccia pelosa di una scimmia.

 

La noce di cocco più comune è il seme della palma da cocco (Cocos nucifera), ma ce n’è anche un’altra un po’ meno conosciuta che è il seme della Lodoicea maldivica seychellarum, il cui trinomio topografico mi instilla inspiegabilmente un’incredibile invidia. Il seme di quest’ultima palma è il più grande e pesante in assoluto, ha una forma bifida e ricorda il bacino di una donna (da cui anche l’altro bel nome di Lodoicea callypige, cioè “dalle belle natiche”, di rimembranza ellenistica). Prima del 1800 si pensava che i semi giungessero dagli abissi marini e che si trattasse dei frutti di un albero che cresceva sotto la superficie del mare, conosciuto anche in Occidente come “cocco di mare” (“coco de mer” in francese). L’unico problema è che il seme maturo di Lodoicea non ha un mallo molto sviluppato (il mallo è il mesocarpo polposo tipico di una drupa, presente anche nelle nostre noci), ha un peso specifico maggiore di quello dell’acqua marina, e quindi non galleggia molto e non è trasportato dalle correnti marine se non per poche centinaia di metri. Per cui, dimentichiamocelo per ora.

 

La noce di cocco “classica” (quella, per intenderci, di Cocos nucifera, di cui da ora in poi parleremo) ha invece di un mallo fibroso molto leggero, resistente e ricco di aria che avvolge la noce, permettendo il suo galleggiamento per periodi di tempo molto lunghi e il trasporto mediante le correnti acquatiche (idrocoria). L’acqua marina, che distrugge la maggior parte degli altri semi, impiega molto tempo prima di penetrare nel mallo e nel guscio legnoso delle noci di cocco, le quali possono tranquillamente resistere fino a tre mesi in mare, a volte trasportate per centinaia di chilometri. Superato il punto di risacca delle spiagge di altre isole, i simpatici semini, sotto l’acqua piovana, germinano. E, dopo alcuni anni, il ciclo lentamente ricomincia. I frutti sono talmente duri e pesanti (fino a 2 chili e 30 cm di altezza) che ogni anno fanno fuori circa 1000 incauti turisti (non oso pensare ai possibili epigrammi), molti più delle vittime degli squali ad esempio.

 

 

Noci di cocco (in alto) di Lodoicea callypige e (in basso) di Cocos nucifera.

 

 

Come negli animali, anche tra le piante ci sono specie a strategia r e specie a strategia K . Le prime sono di solito annuali e monocarpiche adattate a riprodursi rapidamente e a colonizzare habitat nuovi e spesso transitori, dove la competizione è bassa. Le seconde hanno una vita più lunga, sono spesso perenni e policarpiche, e conservano una parte della loro energia per la loro crescita vegetativa. Nel nostro caso, con frutti grandi e numerosi, ci troviamo di fronte ad una specie a strategia K, per nulla affatto pioniera, in grado di crescere velocemente come una palma sa fare, ma solo in determinate condizioni di luce, acqua e temperatura; quindi abbastanza esigente.

 

Molte specie vegetali sono in grado di disperdersi per mezzo dell’acqua. E’ noto che la vita terrestre, e questo vale anche per le piante, derivi dall’acqua. Per questo, le prime piante eterosporee (con gameti “maschili” e “femminili” diversi in forma, dimensione e disposizione) avevano megaspore femminili che si disperdevano efficientemente attraverso l’acqua. Le felci che vivevano nelle paludi del Carbonifero (350 milioni di anni fa) si propagavano presumibilmente per idrocoria. Ad esempio, Lepidocarpon , una felce arborea che raggiugeva dimensioni imponenti (fino a 40 m di altezza), estintasi alla fine del Carbonifero, aveva una megaspora che funzionava prima da paracadute e poi, una volta in acqua, era trasportata dal vento come una vela (e la vela era un organo dal leggiadro e semplice nome di “lepidostrobofillo”).

 

Megasporangio di Lepidocarpon. Fonte: http://www.ucmp.berkeley.edu/IB181/VPL/Lyco/Lyco3.html

 

 

I discendenti tuttora viventi di queste felci arboree, appartenenti al genere Isoetales, presentano poche specie che vivono in zone umide con ruscellamento. Ancora oggi, molte specie di felci sono prevalentemente acquatiche o perlomeno idrofile. Molti sono i generi di piante acquatiche che si riproducono vegetativamente per frammentazione, quali Elodea, Hydrilla e Lagariosiphon, tristemente diventate “erbacce acquatiche” dopo la loro introduzione in nuovi ambienti da parte dell’uomo, ma l’idrocoria, cioè la dispersione di semi e frutti per mezzo dell’acqua, è tipica di poche specie.

 

I frutti e i semi dispersi in acqua sono relativamente grandi, e a volte molto grandi. Le noci di cocco siamesi di Lodoicea maldivica pesano tutte e due sui 15-30 chili e possono arrivare a mezzo metro di lunghezza, conquistando così il primato di frutto (e seme) più grande del mondo! Le più ordinarie noci di cocco di Cocos nucifera hanno un seme soltanto, ma comunque bello grosso. I frutti sono infatti drupe ovali voluminose, con tre spigoli arrotondati e sono provvisti di tre involucri: il più esterno è un’epidermide (epicarpo) liscia e sottile, inizialmente di colore verde, che a maturazione diventa prima giallastra e poi bruna; al di sotto di essa vi è lo spesso strato fibroso (mesocarpo) che racchiude al suo interno un endocarpo legnoso durissimo; nelle noci immature esso racchiude a sua volta l’endosperma oleoso (tessuto ricco di nutrienti destinato ad alimentare l’embrione), o mandorla – in pratica, quello tanto reclamizzato ad alta voce sulle bancarelle – cavo all’interno e ripieno di un succo opalescente lattiginoso, di sapore fresco e zuccherino (“succo di cocco”), che diminuisce in quantità man mano che il frutto matura e che l’italiano medio fa fuoriuscire infilzando con delicatezza un cacciavite in uno dei tre fori con l’aiuto di un martello. L’embrione è situato all’interno ad un’estremità della mandorla. I tre strati nel loro insieme costituiscono il frutto; l’endosperma e l’embrione rappresentano invece il seme. L’involucro legnoso durissimo presenta alla base tre pori dalla superficie morbida, detti occhi: è da uno di essi che il germoglio originatosi dall’embrione avrà la possibilità, perforandolo, di fuoriuscire dal guscio, dando così origine alla nuova plantula.

 

Anche da sola, la noce di cocco è contemporaneamente una bevanda, un alimento e una fibra. Fornisce acqua, latte e olio per cucinare. Il chiaro e dolciastro succo di cocco è una bevanda rinfrescante. Dal momento che questo fa parte dell’endosperma, il quale nutre l’embrione, il succo è ricco di fitormoni per la crescita (le citochinine e altri composti simili sono stati identificati per la prima volta proprio dal succo di cocco, e questo è spesso addizionato ai terreni di crescita usati nelle colture cellulari vegetali e nella micropropagazione). Il latte di cocco, un po’ come il nostrano di mandorla, si ottiene invece mescolando la polpa grattugiata con acqua e poi spremendo il tutto per far uscire il liquido; esso insaporisce e arricchisce zuppe, salse e impasti. Per estrarre l’olio dalle noci di cocco, usato direttamente per cucinare nei paesi tropicali e per preparare altri prodotti nei paesi occidentali, si deve spaccare la noce matura. Dopo essiccazione al sole, la polpa, detta copra, viene separata dal guscio per estrarne l’olio. Infine, le fibre dell’endocarpo legnoso, costituite da piccoli fili lignificati lunghi circa a 1 mm, una volta lavorate, raggiungono anche i 30 cm di lunghezza; sono leggere, elastiche e resistenti all’abrasione, e vengono utilizzate per fabbricare pennelli, scope e cordame.

 

Alcune specie idrocore: (a) Lodoicea maldivica, (b) Cocos nucifera, (c) Entada gigas. Fonte: Ingrouille e Eddie (2006).

 

 

Oltre alle noci di cocco, un altro caso di gigantismo è quello di Entada gigas, una pianta rampicante legnosa che produce legumi di 12 centimetri di larghezza e più di 1 m di lunghezza. Il frutto si rompe in segmenti fluttuanti, ciascuno contenente un grosso seme, che si riversano nei corsi d’acqua. Si suppone sia stata l’osservazione dei semi di Entada sulle spiagge delle Azzorre che abbia spinto Cristoforo Colombo a ipotizzare l’esistenza di un continente di là dall’Atlntico. Ancora oggi, gli inglesi chiamano quasi semi “seabens” perché arrivano sulle loro coste trasportati dalla corrente del Golfo.

 

Alcuni semi e frutti di piante idrocore galleggiano grazie alle della presenza di camere d’aria, come nel frutto di Xanthium o nel falso frutto di Atriplex. Il frutto-scatola (Barringtonia asiatica) del sud-est asiatico può rimanere a galla per almeno due anni ed è anche utilizzato come galleggiante per la pesca.

 

 

 

(In alto) Falso frutto di Atriplex halimus, munito di camere d’aria. Bari, 1 m, ott 2012. Foto di Vito Buono. (In basso) Frutto-scatola (Barringtonia asiatica). Foto di Barry Conn e Kipiro Damas (http://www.pngplants.org/PNGtrees/TreeDescriptions/Barringtonia_asiatica_L_Kurz.html).

 

 

Si stima che solo circa 250 specie sono regolarmente disperse nelle isole oceaniche mediante acqua ed è stato stimato che, dei 378 colonizzazioni vegetali originari delle isole Galapagos, solo il 9% sono idrocore (le restanti sono state trasportate dal vento o uccelli). Non è solo una questione di sopravvivenza durante il periodo di dispersione in mare. Stabilizzarsi nella zona intertidale, infatti, non è per nulla semplice. Per questo motivo, anche qui la selezione naturale si è scatenata: ad esempio, la mangrovia rossa (Rhizophora mangle) si aiuta con la viviparità, producendo una lunga piantina pendente prima che venga definitivamente rilasciata. Non si tratta di propaguli perché la riproduzione non è vegetativa, ma di vere e proprie piantine. Un meccanismo simile è presente nella Aegialitis (Plumbaginaceae). Quest’ultima è stata uno delle prime specie tropicali a raggiungere e Krakatoa dopo una catastrofica eruzione vulcanica avvenuta nell’agosto del 1883.

 

               

Giovani piantine pendenti (in alto) di mangrovia rossa (Rhizophora mangle) e (in basso) di Aegialitis.

 

 

Alcune piante acquatiche non sono strettamente idrocore ma ittiocore, cioè disperse dai pesci, o avicore, cioè diffuse da uccelli acquatici. I frutti dell’erba acquatica Glyceria, sono consumati da carpe; i frutti a forma di oliva della infestante acquatica Posidonia adottano la tattica “Pinocchio-style” e sono mangiati dai tonni nel Mediterraneo; e ancora, i peli sul frutto delle canne del genere Typha prevengono l’imbibizione prima della liberazione, ma in seguito permettono il galleggiamento in acqua, dove si aprono e affondano, per infine germinare (ma alcuni dei suoi semi appuntiti sono stati trovati aderenti alla pelle dei pesci).
I semi delle ninfee maturano nel frutto sott’acqua ma, quando rilasciati, riemergono a galla in massa, dove diventano appetibili per gli uccelli acquatici. Come per molti semi di piante terrestri, il passaggio attraverso l’intestino degli uccelli acquatici può agire come uno stimolante per la loro germinazione. In Nuphar, i frutti maturano sopra la superficie dell’acqua, ma sono poi i carpelli contenenti i semi che galleggiano come esche sulla superficie, dove sono mangiati dai pesci. Molti frutti delle piante acquatiche (alcune delle quali estinte, come Ceratophyllum e Trapa) sono duri e con escrescenze spinose, due caratteristiche che possono favorire la dormienza e la dispersione, nonché l’ancoraggio su substrati sono instabili. Le spine sui frutti della Victoria amazonica, le cui foglie galleggianti sono capaci di sorreggere un bambino, svolgono un ruolo diverso: quello della protezione dagli erbivori.

 

 

             

(In alto) Frutto-esca di Nuphar. (In basso) Victoria amazonica.

 

Anche senza citare i noti studi alle Galapagos di San Darwin, di cui oggi celebriamo il Natale (la mia teoria zichicca “scienza ≈ religione” prende sempre più piede), gli ecosistemi insulari sono sempre stati oggetto di particolare attenzione da parte di naturalisti ed ecologi. La discontinuità terra-acqua pone dei limiti ben precisi alla distribuzione delle specie rendendo le comunità insulari sostanzialmente chiuse ad interazioni ecologiche con l’esterno. La diversità nelle isole ha quindi delle caratteristiche molto interessanti; ed è per questo che sono state e sono da sempre molto studiate. L’immigrazione delle specie dalla terraferma all’isola diventa tanto più difficile quanto maggiore è la distanza dalla costa. Già nel 1967, MacArthur e Wilson avevano ipotizzato che il numero di specie presente su di un’isola variasse come risultato di due forze contrapposte. Da una parte, specie non ancora presenti sull’isola possono giungere sull’isola dalla terraferma (anche portate su un’isola da “zattere” naturali o artificiali), dall’altra le specie già presenti sull’isola possono estinguersi. Infatti, le popolazioni delle specie insulari sono in generale molto più piccole di quelle ospitate dalla terraferma e quindi soggette a una serie di problemi che le possono condurre più facilmente all’estinzione rispetto ai più fortunati cospecifici continentali. Ciò non è accaduto alla noce di cocco, che anzi si è diffusa enormemente in tutti i paesi tropicali e, almeno inizialmente, soprattutto nelle isole. Perché?

 

Di isola in isola per sua girovaga natura, la noce di cocco ha un areale genetico di origine pressoché sconosciuto. L’argomento è infatti ancora un mistero irrisolto, sia perché i frutti si disperdono per mezzo delle correnti, sia perché è stata diffusa dai popoli che colonizzarono le isole oceaniche.

L’elevato dinamismo migratorio della palma da cocco ha fatto sì che il suo luogo d’origine sia ancora oggi uno dei grandi enigmi insoluti della biologia vegetale. Infatti, le sue fasi di diffusione, le vie migratorie, l’età e il luogo d’origine della palma da cocco non sono ricavabili con sicurezza partendo dalla distribuzione attuale. Si ritiene che sia originaria dell’arcipelago indo-malesiano e che nell’antichità si sia diffusa per mare nelle vicine isole del Pacifico, prima che l’uomo la trasportasse per distanze ancora maggiori, probabilmente a ovest, fino al sud dell’India e nello Sri Lanka e ad est nelle Isole Samoa. Negli ultimi 250 anni gli studiosi hanno proposto però anche teorie diverse, che prevedono l’origine in America Centrale, Polinesia, Fiji, ed altre aree ancora.

Gli europei (portoghesi e spagnoli) scoprirono per la prima volta il cocco esplorando le coste occidentali dell’America centro meridionale e dal 1525 cominciarono a coltivarlo diffondendolo altrove. Successivamente, l’ibridazione, la selezione e la diffusione da parte dell’uomo, ha dato alla vasta gamma di varietà e di distribuzione pantropicale che vediamo oggi.

Torniamo un attimo indietro: quindi in America il cocco era in qualche modo arrivato?

L’attestazione precolombiana del cocco in America centrale proviene da analisi dei microsatelliti del DNA delle popolazioni di palma da cocco in America Centrale e nel Pacifico. Sembra che in America la palma da cocco sia stata portata da popolazioni umane provenienti dal sud-est asiatico (il trasporto via mare effettivamente era difficile, data la lontananza!), il cui vasellame è stato ritrovato anche in Ecuador. Le analisi dei microsatelliti hanno dimostrato che il cocco americano è geneticamente più vicino a quello filippino rispetto a quello delle più vicine isole della Polinesia, rafforzando così le evidenze archeologiche.

 

 

Vasi a forma di casa: manufatto di origine sud-est asiatica ritrovati in Ecuador. Fonte: Baudouin & Lebrun (2009).

 

 

Questo per sud-est asiatico e America. Passiamo ora alla migrazione verso ovest. Analisi con marcatori RFLP, hanno confermato che le popolazioni di palma da cocco del sud-est asiatico e delle isole del Pacifico hanno più polimorfismi e sono quindi geneticamente più diverse, mentre le palme di India, Sri Lanka e Africa occidentale hanno caratteristiche genetiche più omogenee. Questo potrebbe significare che le zone di origine siano le prime e poi, per mano dell’uomo o per idrocoria, la specie si sia diffusa verso l’ovest.

 

In tutto questo marasma migratorio, intervengono le varietà nane (la palma da cocco “wild type” giunge anche a 25-30 metri di altezza), arrivate fino in Africa, e probabilmente introdotte all’inizio del 1900 dall’Asia e dal Pacifico. Si sarebbe trattato di pochi mutanti, considerando la bassa variabilità genetica di queste popolazioni. Il marasma migratorio della palma da cocco diventa manicomio allo stato puro se si considerano anche gli spostamenti tettonici e le isole più o meno temporanee che hanno fatto da ponte per la dispersione naturale di questa specie (se ne avete la forza, leggete il lavoro di Harries del 1990, sotto in bibliografia). Mentre il cocco viaggiava, infatti, i continenti si spostavano. Harries è però fortunatamente (per me) in accordo con altri botanici sul fatto che la palma da cocco sia stata coltivata per la prima volta proprio in Malesia, dove ha subito un vero programma empirico di miglioramento genetico da parte degli agricoltori locali.

 

Sfinito da cotanto girovagare non mi resta che consultare il lavoro di Gunn et al. (2011). L’articolo è recente (per molti revisori, segno incontrovertibile di garanzia). Qui, “nell’analisi genetica più ampia finora mai svolta” (umili, gli autori), sono state trovate prove di due distinte origini di coltivazione della palma di cocco: una nelle isole del sud-est asiatico, l’altra nei margini meridionali del subcontinente indiano. Nonostante il lungo e ampio movimento di palme dovuto agli uomini sia all’interno che tra questi bacini oceanici, le piante attuali non mostrano segni di sostanziale commistione genetica tra le due principali sottopopolazioni. Data l’assenza di evidenti barriere riproduttive, l’elevato livello di differenziazione genetica tra le due sottopopolazioni suggerisce un lungo periodo di isolamento prima dell’influenza umana. In questa luce, la predominanza di commistione genetica nella parte occidentale dell’Oceano Indiano suggerisce che gli esseri umani abbiano probabilmente giocato un ruolo di primo piano nella coltivazione e nella propagazione di palme di cocco in quella regione. Nel Pacifico, invece, la selezione umana ha determinato la comparsa di tratti utili quali il nanismo, la capacità di autoimpollinarsi e particolari forme del frutto. Infine, la sottopopolazione presente nel Madagascar è particolarmente varia, probabilmente a causa dell’antico percorso commerciale austronesiano, che connetteva est Africa, Madagascar, il sud-est asiatico, Formosa e Oceania. Gli Arabi contribuirono poi a diffondere la specie sulle coste dell’Africa con i loro commerci nell’Oceano Indiano.

 

Se avete ancora un po’ pazienza, vi lascio con questa mappa: è la versione più recente della distribuzione geografica delle sottopopolazioni di palma da cocco nel mondo secondo Gunn et al. (2011). La specie ne ha fatti di giri!

 

Distribuzione geografica delle popolazioni indo-atlantiche e pacifiche di palma da cocco secondo Gunn et al. (2011) (liberamente disponibile on-line).

 

 

 

Grazie a loro, ho scritto:

 

Baudouin L & Lebrun P (2009) Coconut (Cocos nucifera L.) DNA studies support the hypothesis of an ancient Austronesian migration from Southeast Asia to America. Genet Resour Crop Evol 56: 257-262.

Colombo C (1492-1493) Diario di Bordo. Cristoforo Colombo. Collana Storia d’Italia. Einaudi, Torino.

Dennis JV, Gunn CR (1971) Case against trans-Pacific dispersal of the coconut by ocean currents. Economic Botany 25(4): 407-413.

Diamond JM (1973) Distributional ecology of New Guinea birds. Science, 179:759-769.

Gunn BF, Baudouin L, Olsen KM (2011) Independent origins of cultivated coconut (Cocos nucifera L.) in the old world tropics. PLos ONE 6(6): e21143.

Harries HC (1990) Malesian origin for a domestic Cocos nucifera. In: The Plant Diversity of Malesia eds. P. Baas, K. Kalkman e R. Geesink. Pp. 351-357. Leyden.

Harries HC (1978) The evolution, dissemination and classification of Cocos nucifera L. The Botanical Review 44(3): 265-319.

Ingrouille M, Eddie B (2006) Plants: Evolution and Diversity. Cambridge University Press, UK.

Lebrun P, N’cho YP, Seguin M, Grivet L, Baudouin L (1998) Genetic diversity in coconut (Cocos nucifera L.) revealed by restriction fragment length polymorphism (RFLP) markers. Euphytica 101: 103-108.

MacArthur RH, Wilson EO (1967) The Theory of Island Biogeography. Princeton University Press, Princeton, NJ, USA.

Smith JMB (1991) Tropical drift disseminules on Southeast Australian beaches. Australian Geographical Studies 29(2): 355-369.

Tozzi M (2010) Ma fanno più vittime le noci di cocco. “La stampa” on-line.

 

 

Dalla Grande Ragnatela Mondiale:

 

http://it.wikipedia.org/wiki/Lodoicea_maldivica

http://it.wikipedia.org/wiki/Mallo_%28botanica%29

http://lastampa.it/2010/12/06/cultura/opinioni/editoriali/ma-fanno-piu-vittime-le-noci-di-cocco-vweaBadfG15FrKcZOgZaRM/pagina.html

http://olmo.elet.polimi.it/ecologia/dispensa/node68.html

http://wol.jw.org/it/wol/d/r6/lp-i/102003208

http://www.ucmp.berkeley.edu/IB181/VPL/Lyco/Lyco3.html

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