Apr
30
2019

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Ultimatum alla Terra

 

(Ultimatum alla Terra, di Robert Wise, 1951)

 

“5000 anni fa noi umani eravamo circa 5 milioni in tutto.

Entro il 2025, si stima una popolazione mondiale di 9 miliardi.”

(Adam Rutherford; ed. Bollati Boringhieri)

 

Questa citazione, supportata da dati del passato e modelli di crescita, mette a dura prova la nostra logica e ci pone impietosamente davanti allo specchio: sembra quasi incredibile che solo 5000 anni fa, un battito di ciglia in termini evolutivi, fossimo così pochi. Oggi, invece, siamo in troppi, mediamente più sani e longevi di cinque millenni fa, e per la maggior parte intrisi di consumismo e capitalismo. In parole povere, siamo pieni di bisogni e le risorse non bastano più, e non parliamo di oro o rame ma delle due risorse più importanti per la vita: acqua e suolo. Se non vogliamo fare la fine di re Mida, morto di inedia circondato da montagne di oro, è ormai imperativo cambiare rotta: ci restano al massimo 30 anni per farlo.

Nel numero di Le Scienze di Aprile 2019 (“L’ultima speranza”, Richard Conniff), si parla di eliminare 1000 miliardi di tonnellate di anidride carbonica già emessa per limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C entro il 2100, oltre la quale si verificherebbero danni permanenti agli ecosistemi. Oggi siamo a un 1 °C sopra rispetto ai livelli pre-industriali. Il collasso climatico causerebbe una serie di effetti a catena che porterebbero a una Terra in grado di sostenere solo 1 miliardo di persone, invece dei 7,5 attuali. Consideriamo anche il fatto che siamo arrivati a una concentrazione atmosferica di anidride carbonica di 400 ppm (400 parti su 1 milione di parti = 0,04%) e che, continuando così, in 10 anni arriveremo a un livello 650 ppm, oltrepassato il quale cominciano a manifestarsi i primi sintomi sull’attività celebrale (che diventano fatali sopra i 3000 ppm). Per cui, se non facciamo qualcosa ora, in un futuro prossimo ci troveremo a dover risolvere un immenso problema in condizioni di semi-stordimento e con capacità intellettive limitate.


 

Il suolo ha tante funzioni, tra le quali quella di essere un grande serbatoio di carbonio (e quindi indirettamente di CO2 atmosferica e di altri pericolosi gas serra come il metano, CH4): ne contiene di più della biosfera e dell’atmosfera messi insieme. Il carbonio fissato dalle piante finisce quasi tutto sul suolo, dove viene decomposto e umificato, e quindi immagazzinato per un tempo più o meno lungo, prima di essere nuovamente mineralizzato e tornare in atmosfera come gas. Coltivare responsabilmente i suoli sembrerebbe facile se non fosse per il fatto che il 75% del suolo mondiale è più o meno degradato, per cui la sua funzionalità e fertilità sono ridotte. Inoltre, il cambiamento climatico già in atto rende i suoli più aridi e quindi meno produttivi in molte aree del pianeta, tra cui la nostra del Mediterraneo, per cui ci troviamo a combattere una guerra con una baionetta spuntata.

Perdiamo una superficie di suolo pari a 30 campi di calcio ogni minuto e ci rimangono solo 60 anni di raccolti se la degradazione del suolo continua a questo ritmo. A ciò si aggiunge che formare tre centimetri di suolo superficiale richiede circa 1000 anni, per cui il suolo non è una risorsa rinnovabile in termini di durata di vita umana. Non voglio usare i toni allarmistici di Greta Tunbergh ma questo è lo scenario nudo e crudo.

 

 

Il suolo ha un ruolo chiave nel cambiamento climatico globale. Tra i vari metodi che possono essere usati per eliminare i 1000 miliardi di tonnellate di CO2 di cui parlavamo prima, quelli che coinvolgono il suolo (riforestazione, uso di biorcarburanti e biochar, e stoccaggio del carbonio del suolo per mezzo della gestione sostenibile dei suoli agrari) sono infatti i più economici (sotto i 100 $ per tonnellata di CO2 eliminata). Tra questi, la corretta gestione dei suoli coltivati è quella che costa meno re di cui conosciamo di più rispetto ad altre soluzioni più sperimentali e tecnologiche, e che è in grado di assorbire più CO2 atmosferica (oltre 5 miliardi di tonnellate entro il 2050), come illustrato nel grafico qui sotto.

 


(fonte: “Le Scienze” Aprile 2019)

 

Cosa possiamo fare? Ho già parlato di gestione sostenibile e conservativa dei suoli agrari in vari articoli divulgativi in questo blog (qui, qui, qui e qui) e pubblicato recentemente un articolo su Applied Soil Ecology, su un caso di oliveti gestiti in maniera differente (sostenibile e non sostenibile), con un forte messaggio finale nelle conclusioni. Credo, come Greta, che sia necessario farsi sentire agendo attraverso tutti i canali, dalle ricerca alla buona divulgazione, dai convegni alle manifestazioni, coinvolgendo soprattutto i bambini e le giovani generazioni, anche al costo di essere considerati dei “rompiballe” (triste cit. di Vittorio Feltri), altrimenti la battaglia è già persa in partenza. Non ci salveranno solo i microorganismi benefici del suolo o solo la sostenibile agricoltura biologica, che però è insostenibile su vasta scala, ed è quindi un ossimoro, ma avremo bisogno di tutte le armi che abbiamo a disposizione, anche i tanto demonizzati organismi geneticamente modificati (OGM). Oltre all’adozione di tecniche agronomiche sostenibili/conservative, piantare alberi in gran quantità potrebbe essere la migliore soluzione; del resto piante, alghe e alcuni batteri sono gli unici in grado di fissare CO2 usando energia a buon mercato (solare). Non scordiamoci, infine, che il modo in cui coltiviamo il suolo e gestiamo i sistemi di produzione del cibo per soddisfare la crescente domanda mondiale è fondamentale per il futuro della biodiversità, in forte declino, la quale a sua volta influenza la qualità dei suoli, per cui anche i conservazionisti e gli animalisti dovranno essere dalla nostra parte.

E soprattutto teniamo sempre a mente che ciò che si trova sotto i nostri piedi (suolo) influenza, in modo più o meno diretto, quello che abbiamo sopra di noi (aria).

 

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