Mag
31
2023
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Fossili da piante

 

I fossili vegetali sono resti conservati di organismi vegetali del passato che forniscono importanti informazioni sulla storia evolutiva delle piante, sull’ambiente in cui vivevano e sull’evoluzione del clima sulla Terra. Questi fossili ci aiutano a comprendere come le piante si sono adattate alle diverse condizioni ambientali nel corso del tempo e come siano cambiate nel corso di milioni di anni. Sono inoltre un’importante fonte di informazioni per i ricercatori che studiano la paleobotanica, la paleoecologia e l’evoluzione delle piante. Attraverso l’analisi dei fossili vegetali, i ricercatori possono infatti ricostruire l’aspetto delle piante estinte, la loro distribuzione geografica, la composizione delle comunità vegetali del passato e le relazioni tra piante e animali. Inoltre, i fossili vegetali possono fornire indizi sul clima nel passato, poiché le piante sono sensibili ai cambiamenti climatici e alle variazioni ambientali. Ad esempio, l’analisi dei tipi di piante fossilizzate in una determinata area può rivelare informazioni sul clima e sull’ambiente che esisteva in quel luogo milioni di anni fa.

La formazione dei fossili vegetali (fossilizzazione) richiede condizioni particolari affinché le parti vegetali possano essere conservate nel corso del tempo. In generale, i fossili vegetali si formano attraverso processi di fossilizzazione come la carbonizzazione, la pietrificazione e l’impronta. La carbonizzazione si verifica quando le piante morte vengono sepolte in sedimenti ricchi di carbonio, come fango o torba, che impediscono la decomposizione e permettono la conservazione della struttura cellulare. La pietrificazione avviene quando minerali come il silicio o il calcio si infiltrano nei tessuti vegetali, sostituendo gradualmente la materia organica e conservandone la forma. L’impronta si verifica quando le piante lasciano una traccia o un’ombra sulle rocce circostanti, come nel caso delle foglie che cadono su uno strato di fango e vengono successivamente coperte da sedimenti.

Di seguito sono descritti alcuni dettagli sui processi di formazione di un fossile vegetale:

Morte della pianta. Quando una pianta muore, può essere sepolta sotto sedimenti come sabbia, fango o cenere vulcanica. Questa sepoltura rapida, e il conseguente isolamento dalla decomposizione, sono fondamentali per la formazione di un fossile.

Deposizione di sedimenti. Nel corso del tempo, ulteriori strati di sedimenti si accumulano sopra la pianta sepolta, aumentando la pressione sulla pianta e favorendo il processo di fossilizzazione. Questi sedimenti possono provenire da depositi fluviali, maree o eruzioni vulcaniche.

Compressione e decomposizione parziale. La pressione esercitata dai sedimenti sopra la pianta sepolta contribuisce a comprimerla. Nel corso del tempo, l’acqua e altri composti chimici presenti nel suolo possono infiltrarsi nella pianta e iniziare a sostituire gradualmente i materiali organici con minerali come la silice o il carbonato di calcio. Questo processo è noto come permineralizzazione.

Pietrificazione. Nel corso di milioni di anni, i materiali organici della pianta si decompongono completamente, lasciando un’impalcatura minerale che riproduce fedelmente la struttura originale della pianta. La pianta può essere completamente sostituita da minerali come la silice, il calcare o l’opale, conservandone la forma e i dettagli.

Erosione e esposizione. Nel corso di periodi di tempo ancora più lunghi, gli strati di sedimenti che contengono il fossile vegetale possono essere sollevati a causa dei movimenti tettonici della crosta terrestre o dell’erosione causata da agenti atmosferici come il vento e l’acqua. Ciò può portare all’esposizione del fossile in superficie o alla sua scoperta durante scavi geologici.

È importante notare che il processo di formazione di un fossile vegetale richiede condizioni particolari, come l’immersione rapida e la sepoltura della pianta in sedimenti, che sono relativamente rare. Il processo di fossilizzazione richiede condizioni eccezionali per preservare i resti delle piante nel tempo geologico. Pertanto, i fossili vegetali sono relativamente poco comuni rispetto ai fossili di organismi con parti dure, come scheletri di animali o conchiglie di molluschi. Le ragioni principali sono le seguenti:

Struttura cellulare. Le piante hanno una struttura cellulare diversa rispetto agli animali. Le pareti cellulari delle piante sono spesso costituite da materiali organici resistenti come la cellulosa, che è meno facilmente conservata nel processo di fossilizzazione rispetto alle strutture dure come le ossa degli animali.

Decomposizione. Le piante sono più suscettibili alla decomposizione rispetto agli animali, anche perché spesso prive di gusci e scheletri, e più ricche di acqua. Una volta morte, una pianta può degradarsi rapidamente attraverso l’azione di batteri, funghi e altri organismi decompositori. Questo processo può impedire la formazione di fossili.

Habitat di deposizione. I resti degli animali tendono ad essere concentrati in determinati habitat di deposizione. come sedimenti marini, laghi o zone paludose, che sono più favorevoli alla fossilizzazione. Al contrario, i resti vegetali possono essere dispersi in una varietà di ambienti terrestri dove la fossilizzazione è meno comune.

Mobilità. Gli animali possono spostarsi attivamente, consentendo loro di raggiungere zone in cui la fossilizzazione è più probabile. Le piante, invece, sono ancorate al suolo e non possono muoversi, quindi sono più soggette a rimanere in luoghi in cui la fossilizzazione è meno probabile.

Nonostante queste ragioni, ci sono ancora numerosi fossili vegetali che sono stati scoperti e studiati dai ricercatori, e questi fossili ci forniscono importanti informazioni sulla storia e l’evoluzione delle piante sulla Terra.

I fossili vegetali includono una vasta gamma di resti, come foglie, fusti, radici, semi e polline. Le foglie fossilizzate sono tra i fossili vegetali più comuni e possono fornire informazioni dettagliate sulla morfologia, la struttura delle venature e l’adattamento delle piante all’ambiente. I fusti fossilizzati possono rivelare informazioni sulla crescita delle piante, la struttura dei tessuti e la presenza di strutture specializzate come spine o tralci. Le radici fossilizzate possono fornire dettagli sul sistema radicale delle piante e sulla relazione con il suolo. I semi fossilizzati ci permettono di studiare le strategie riproduttive delle piante e le modalità di dispersione dei semi. Infine, il polline fossilizzato, chiamato polline fossile, è uno strumento essenziale per lo studio della paleobotanica, in quanto può fornire informazioni sulla distribuzione delle piante nel passato e sull’evoluzione delle comunità vegetali.

Nel dettaglio, le parti delle piante che possono andare incontro a fossilizzazione sono principalmente le seguenti:

Radici. Le radici delle piante possono fossilizzarsi se vengono sepolte in sedimenti, come sabbia o fango, che impediscono la decomposizione. Nel corso del tempo, i minerali presenti nelle acque sotterranee possono sostituire gradualmente i tessuti delle radici, formando un fossile.

Tronchi e rami. I tronchi e i rami delle piante possono fossilizzarsi in circostanze simili alle radici. Se seppelliti in sedimenti e protetti dalla decomposizione, possono subire un processo di mineralizzazione in cui i minerali si infiltrano nelle cellule vegetali, preservando la struttura originale.

Foglie. Le foglie possono fossilizzarsi se cadono in ambienti sedimentari e vengono rapidamente coperte da strati di sedimenti. In alcune circostanze, le foglie possono essere compresse e lasciare un’impronta, nota come impronta fogliare, che si fossilizza nel tempo.

Polline. Il polline prodotto dalle piante può fossilizzarsi in sedimenti acquatici o terrestri. Il polline fossilizzato, chiamato palinoflora, può fornire importanti informazioni sulla distribuzione passata delle piante e sull’evoluzione della flora.

Semi e frutti. Alcuni semi e frutti delle piante possono fossilizzarsi se sono seppelliti in condizioni favorevoli. La fossilizzazione dei semi può fornire informazioni sulla dispersione delle piante e sulle antiche strategie riproduttive.

Ecco alcuni esempi di fossili vegetali:

Lepidodendron. Questo genere di alberi fossili era comune durante il periodo Carbonifero, circa 350 milioni di anni fa. Avevano tronchi alti e diritti con una corteccia a scaglie. I fossili di Lepidodendron sono spesso ben conservati e mostrano dettagli come i segni delle foglie.

Calamites. Questi fossili fanno parte di un genere di piante simili ai moderni equiseti (code di cavallo). Sono stati comuni durante il periodo Carbonifero e il Permiano, circa 300-250 milioni di anni fa. I fossili di Calamites consistono in tronchi cavi, segmentati e spesso ramificati.

Glossopteris. Questa specie di conifera è stata una delle più importanti del periodo Permiano e del Triassico, circa 250-180 milioni di anni fa. Era una pianta a foglia larga, simile a una felce o a una pianta conifera. I fossili di Glossopteris sono stati fondamentali per sostenere la teoria della deriva dei continenti di Alfred Wegener.

Araucaria. Sono piante che esistono ancora oggi, ma ci sono anche fossili di Araucaria risalenti a milioni di anni fa. Questi alberi hanno una forma caratteristica con foglie aghiformi e fusti diritti. I fossili di Araucaria sono stati trovati in diverse parti del mondo.

Sigillaria. Questi alberi erano comuni durante il periodo Carbonifero. Avevano tronchi alti e sottili con un motivo caratteristico di cicatrici a forma di diamante sulla corteccia. I fossili di Sigillaria sono spesso ben conservati e possono mostrare anche dettagli delle radici.

Cycadeoidi. Questi fossili rappresentano una famiglia di piante simili alle moderne cicadi. Sono stati comuni durante il periodo Mesozoico, circa 250-65 milioni di anni fa. I fossili di Cycadeoidi hanno foglie palmate e tronchi spesso con cicatrici fogliari distintive.

Questi sono solo alcuni esempi di fossili vegetali, ma il registro fossile contiene una vasta gamma di piante che testimoniano la storia evolutiva delle piante sulla Terra.

Riconoscere i fossili vegetali può essere un’attività affascinante e coinvolgente. Ecco alcuni suggerimenti su come identificare i fossili vegetali:

Forma e struttura. I fossili vegetali possono avere forme e strutture diverse. Ad esempio, alcune foglie fossili possono apparire simili alle foglie delle piante attuali, ma potrebbero essere più grandi o avere caratteristiche leggermente diverse. È necessario osservare attentamente la forma delle strutture fossili e confrontarle con quelle delle piante attuali.

Dettagli anatomici. Serve esaminare i dettagli anatomici dei fossili vegetali, come le venature delle foglie o la disposizione dei tessuti. È possibile utilizzare una lente d’ingrandimento o un microscopio per osservare meglio i dettagli. Alcuni fossili vegetali potrebbero mostrare caratteristiche uniche che li distinguono dalle piante attuali.

Strutture riproduttive. Si possono cercare eventuali strutture riproduttive nei fossili, come semi, frutti o coni. Queste strutture possono fornire indizi importanti sulla specie vegetale a cui il fossile apparteneva.

Tessitura e colore. Può essere utile osservare la tessitura e il colore dei fossili vegetali. Alcuni fossili possono conservare la struttura cellulare o i pigmenti originali, che possono fornire informazioni sulla composizione chimica o sulla natura delle piante fossili.

Contesto geologico. È necessario considerare il contesto geologico in cui sono stati trovati i fossili vegetali. Ad esempio, alcuni tipi di fossili vegetali sono più comuni in determinati periodi geologici o in specifici tipi di depositi, come torbe, ligniti o giacimenti di carbone.

Consultare esperti. Se si hanno dubbi sull’identificazione di un fossile vegetale, è necessario consultare esperti o paleobotanici. Questi ricercatori hanno conoscenze specializzate nella classificazione e nell’identificazione dei fossili vegetali e possono fornire assistenza nell’identificazione di fossili complessi.

L’identificazione accurata dei fossili vegetali può richiedere conoscenze approfondite e una certa esperienza. Si possono anche visitare musei di storia naturale o partecipare a escursioni paleontologiche guidate per apprendere di più sulla paleobotanica e migliorare le capacità di identificazione.

I fossili vegetali sono quindi dei testimoni preziosi della storia evolutiva delle piante e dell’evoluzione del nostro pianeta. Attraverso lo studio di questi fossili, i ricercatori sono in grado di comprendere meglio l’adattamento delle piante all’ambiente, l’evoluzione delle comunità vegetali e l’impatto dei cambiamenti climatici sulla flora passata. Continuando a esaminare e analizzare i fossili vegetali, possiamo quindi acquisire una migliore comprensione di come le piante si sono sviluppate nel corso del tempo e di come possiamo proteggere e preservare la diversità vegetale, oggi più che mai minacciata dall’uomo.

Qui in basso, alcune foto mie di fossili vegetali calcarei fotografati al Centro di Lamalunga, presso il parco archeologico di Altamura (BA).

 

Grazie a loro, ho scritto:

Collinson, M.E. (2017). Fossil Plants: A Practical Guide to the Identification of Plant Remains in the Geological Record. The Natural History Museum.

Falcon-Lang, H.J., & Bashforth, A.R. (Eds.). (2019). Fossils as Tools for Decoding the Earth’s Climate History: Deep-Time Insights from Terrestrial Organic Matter. Geological Society of America.

Falcon-Lang, H.J., & Gibling, M.R. (Eds.). (2020). Plant Life on the Move: Dispersal and Migration in Fossil Record. Geological Society of London.

Gee, C.T., & Bouchal, J.M. (Eds.). (2018). Reading and Writing of the Fossil Record: Preservational Pathways to Exceptional Fossilization. Paleontological Society Papers.

Jaramillo, C., & Dilcher, D.L. (Eds.). (2019). From Greenhouse to Icehouse: The Marine Eocene-Oligocene Transition. The Paleontological Society Papers.

Krings, M., Harper, C.J., Cúneo, N.R., & Rothwell, G.W. (Eds.). (2018). Transformative Paleobotany: Papers to Commemorate the Life and Legacy of Thomas N. Taylor. Indiana University Press.

Rothwell, G.W., & Erwin, D.M. (2018). Paleobotany and the Evolution of Plants. Cambridge University Press.

Smith, S.Y., & Stockey, R.A. (Eds.). (2019). Advances in Plant Paleogenomics: Methods and Protocols. Springer.

Spicer, R.A. (Ed.). (2021). Plant Fossil Record and Climate Change. Wiley.

Taylor, T.N., Taylor, E.L., & Krings, M. (2018). Paleobotany: The Biology and Evolution of Fossil Plants. Academic Press.

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Apr
30
2023
0

Un semplice esperimento

 

L’avocado, o Persea americana, è una pianta originaria del Messico e del Centro America. È una specie appartenente alla famiglia delle Lauraceae, che include anche la cannella e l’alloro. L’avocado è una pianta sempreverde che può crescere fino a 20 metri di altezza, ma generalmente viene coltivata come un albero da frutto che raggiunge un’altezza di 6-8 metri. Ha foglie ovali e lucide, e produce fiori piccoli e verdastri che crescono in grappoli. Il frutto dell’avocado è una grande drupa sferica o a forma di pera, che può pesare da poche centinaia di grammi fino a oltre un chilogrammo. La buccia del frutto può essere di colore verde scuro, viola o nero, mentre la polpa interna è di colore verde chiaro e ha una consistenza cremosa e burrosa. L’avocado è ricco di grassi sani, vitamine e minerali ed è spesso utilizzato come alimento o ingrediente in molti piatti. L’avocado è una specie molto apprezzata in tutto il mondo per il suo sapore unico e la sua versatilità in cucina. Viene utilizzato per preparare guacamole, insalate, sandwich, salse, frullati e molti altri piatti. Inoltre, l’avocado è anche considerato un superfood grazie alla sua alta concentrazione di nutrienti benefici per la salute, come acidi grassi essenziali, antiossidanti e fibre.

Dal punto di vista evolutivo, appartiene all’ordine delle Eumagnolidi, che include parecchi generi di dicotiledoni, come anche di monocotiledoni. Questo gruppo include molte specie con alcune caratteristiche primitive che condividono con monocotiledoni basali: verticilli di parti floreali in tre parti (trimeri), polline monosulcato/uniaperturato e fiori apocarpici. Molte di queste eumagnoliidi sono aromatiche e comprendono, ad esempio, i generi Lindera (pimento), Piper (pepe), Cinnamomum (cannella), Aniba (da cio l’olio di bois-de-rose) e Sassafras (con il suo olio insetticida profumato). Un’altra pianta utile di questo gruppo è appunto la Persea, cioè l’avocado.

L’avocado è una specie che preferisce un clima caldo e secco, ma può sopravvivere in diverse condizioni climatiche. La pianta ha un sistema radicale poco profondo e diffuso, che le permette di assorbire l’acqua e i nutrienti da un’ampia area del suolo. L’avocado è inoltre una pianta dioica, ovvero ha piante maschili e femminili separate. La fioritura avviene in primavera e l’impollinazione può essere effettuata dal vento o dagli insetti. Può essere riprodotto per seme o per innesto. La riproduzione per seme richiede più tempo per la crescita della pianta rispetto all’innesto, ma permette di ottenere una varietà di piante con caratteristiche diverse. L’innesto, invece, permette di avere piante più produttive e resistenti alle malattie. L’avocado può essere innestato su diverse radici di piante della stessa famiglia delle Lauraceae. Va tenuto presente che la maggior parte degli alberi di avocado che si trovano nei frutteti commerciali sono propagati per innesto, che garantisce una crescita più rapida e una maggiore produttività rispetto alla riproduzione per seme. In generale, è una pianta resistente e vigorosa, che richiede cure adeguate per crescere e produrre frutti di alta qualità. Le condizioni ambientali, la fertilizzazione e l’irrigazione sono tutti fattori che possono influire sulla salute e sulla produttività delle piante di avocado.

Dopo aver mangiato un avocado, spesso ci dispiace buttarne via il seme, così bello, grande e lucido. Sul web e sui manuali di giardinaggio potete trovare tanti modi per riprodurre la pianta da seme. Tutti questi metodi sono generalmente definiti semplici, ma tanto semplici poi non sono. Se va a buon fine, però, otterrete tante bellissime piantine che potete usare come piante di appartamento o è possibile travasarle in vasi più grandi per avere degli alberelli. Potete trovare una buona guida nel video qui in basso (e nelle figure, tratte da esperimenti casalinghi):


 


L’avocado è un frutto altamente apprezzato per il suo sapore unico, la sua versatilità in cucina e il suo valore nutrizionale. Grazie a queste caratteristiche, questo frutto è diventato un alimento molto popolare in tutto il mondo, sia tra i consumatori che tra i produttori, con un alto valore commerciale. Non può essere però coltivato in Italia (tranne che in alcune zone della Sicilia) principalmente a causa delle condizioni climatiche. L’avocado è originario delle regioni tropicali e subtropicali del Centro e Sud America, dove le temperature sono costantemente elevate e l’umidità è alta. In Italia, invece, il clima è molto diverso, con inverni freddi e estati relativamente fresche, che non sono adatte alla coltivazione dell’avocado. Il più rilevante ostacolo alla diffusione dell’avocado è, infatti, rappresentato dalle temperature minime assolute: valori che vanno da −1 a −4 °C possono, infatti, compromettere lo sviluppo della pianta o, addirittura, determinarne la morte in funzione dei tempi di esposizione. Inoltre, l’avocado non riesce ad essere soddisfatto dalle precipitazioni autunno-vernine dei nostri climi e ha un elevato fabbisogno idrico, compreso tra 7.000 e 12.000 m3/ettaro annui, in funzione delle temperature stagionali, concentrato nei mesi primaverili ed estivi. Quindi richiede moltissima acqua, per cui non è così sostenibile dal punto di vista ambientale. Infine, l’avocado richiede anche un terreno ben drenato e ricco di sostanze nutritive, cosa che non è facilmente reperibile in molte parti dell’Italia. Anche se ci sono alcune zone in Italia che hanno un clima e un terreno più simili a quelli delle zone di origine dell’avocado, la coltivazione rimane difficile a causa della presenza di malattie e parassiti che attaccano la pianta. Per questi motivi, l’Italia importa l’avocado da altri paesi dove è coltivato con successo, come il Messico, il Perù e l’Australia.

L’avocado è un frutto molto importante dal punto di vista nutrizionale e culinario. Ecco alcune delle ragioni per cui l’avocado è così apprezzato.

Valore nutrizionale. L’avocado è ricco di grassi sani, fibre, vitamine (come la vitamina C, la vitamina K e la vitamina B6) e minerali (come il potassio e il magnesio). In particolare, gli acidi grassi monoinsaturi presenti nell’avocado possono aiutare a ridurre i livelli di colesterolo nel sangue e a migliorare la salute del cuore.

Versatilità in cucina. L’avocado può essere utilizzato in molte ricette diverse, sia dolci che salate. La sua polpa cremosa e burrosa si presta bene alla preparazione di salse, guacamole, insalate, sandwich, frullati e molto altro ancora.

Sostenibilità. La coltivazione dell’avocado può essere meno impattante sull’ambiente rispetto ad altre colture intensive. Inoltre, ha una buona conservabilità, il che significa che può essere trasportato e conservato per lungo tempo senza perdere di qualità.

Economicità. la coltivazione dell’avocado è una fonte importante di reddito per molti agricoltori in tutto il mondo. Inoltre, questo frutto è diventato un ingrediente molto popolare nei ristoranti e nei negozi di alimentari, il che ha contribuito ad aumentarne la domanda e il prezzo sul mercato.

 

L’avocado è un ingrediente molto versatile in cucina e può essere utilizzato in molte preparazioni diverse. Ecco alcune delle ricette più comuni a base di avocado:

Guacamole. Il guacamole è una salsa a base di avocado originaria del Messico. Si prepara schiacciando la polpa di avocado e mescolandola con cipolla, pomodoro, coriandolo, peperoncino e limone o lime. Il guacamole può essere servito come antipasto o come condimento per tacos, burritos e altri piatti messicani.

Insalata di avocado. L’insalata di avocado è un’alternativa fresca e leggera alla classica insalata verde. Si prepara mescolando la polpa di avocado con pomodori, cetrioli, lattuga e altri ingredienti a piacere. Si può condire con una semplice vinaigrette o con una salsa più elaborata.

Toast di avocado. Il toast di avocado è diventato molto popolare negli ultimi anni. Si prepara spalmando la polpa di avocado su una fetta di pane tostato e condendo con sale, pepe, succo di limone e altri ingredienti a piacere (come uova, bacon, formaggio o pomodori secchi).

Salsa di avocado. La salsa di avocado è una salsa cremosa e delicata che si può utilizzare per condire carne, pesce, insalate o patatine. Si prepara frullando la polpa di avocado con panna acida, aglio, cipolla, lime e altri ingredienti a piacere.

Frullati di avocado. I frullati di avocado sono una deliziosa e nutriente colazione o merenda. Si preparano frullando la polpa di avocado con latte, yogurt, frutta fresca o surgelata e altri ingredienti a piacere. Si può dolcificare con miele, zucchero o sciroppo d’acero.

 

Queste sono solo alcune delle preparazioni culinarie a base di avocado. In generale, l’avocado si presta bene a molte ricette diverse, sia dolci che salate, e può essere utilizzato per creare piatti gustosi e salutari. Ora tocca voi sbizzarrirvi con nuove ricette!

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Mar
01
2023
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Soil art

Nel 2018 ho scritto un articolo sulle relazioni tra arte e piante (qui) dopo aver camminato lung la Via di Francesco. Sono passati già 5 anni! Questo mese invece mi dedicherò alle relazioni tra arte e suolo. Lo spunto mi è venuto dalla visita al bellissimo museo di belle arti di Tel Aviv in Israele.

Cominciamo.

 

L’identità dell’arte israeliana è stata sempre legata al luogo e al frutto del suo suolo: un territorio privo di confini fissi, uno spazio simbolico, sacro, ansiogeno, infuso della sacralità della terra. L’articolo di questo mese rivisita l’idea della Terra Promessa e del suo suolo con alcuni interrogativi che vengono richiamati: cosa promette la terra come elemento materiale prima di diventare un luogo di residenza, un possesso eterno o un luogo di conflitto? Le opere che vedremo si fondano sulla bellezza della solidità, sugli strati di tempo che si depositano su una singola pietra. Si sforzano di trovare il posto semplice e indiscutibile di un materiale modellato a mano.

Vedere queste opere significa essere circondati dai due movimenti distinti associati al suolo: il lavoro e il riposo, la verticale e l’orizzontale. Si percepisce anche la resistenza del materiale duro, familiare a chiunque abbia mai provato a scalpellare una pietra o a incidere il legno. La disintegrazione delle particelle di materia terrosa nell’incontro tra terra, aria e acqua attirerà l’attenzione sulla capacità dell’opera d’arte di possedere qualità antitetiche: allo stesso tempo dura e tenera, pesante e senza peso. La natura unica delle opere formate con i materiali della terra e il suo aspetto sono legati alle qualità e ai poteri unici della terra, del suolo: la sua capacità di evocare sogni di conquista, l’oscurità delle sue profondità, le sue zolle friabili da cui germoglia la vita. Sulla materia terrosa aleggiano questioni più ampie associate al luogo: il desiderio e la fuga, il possesso e l’espropriazione in questa Terra Promessa.

Procediamo dunque!

Käthe Ephraim Marcus
1892 Wroclaw – 1970 Ramat Gan
Lavoratori in campo, primi anni ‘30
Olio su tela

 

Joshua Neustein
1940 Gdansk – 1994 Israel
Acciaio

 

Fatma Shanan
1986 Julis
Autoritratto con sfondo verde II, 2019
Olio su tela

 

Asaf Ben-Zvi
1953, Kfar Yehezkel
Falena, 1989
Olio su tela

 

Il duo di artiste ceramiche Nora e Naomi ha lavorato insieme dal 1962 al 1999. Si sono conosciute al Dipartimento di Ceramica della Scuola di Arti e Mestieri di Bezalel, a Gerusalemme, e hanno aperto uno studio di ceramica già prima della laurea, creando vasi di ceramica utilitaria che sono stati venduti, tra l’altro, alla casa di moda israeliana Maskit. Contemporaneamente si sono specializzate nel restauro di ceramiche e hanno partecipato a scavi archeologici. Il loro passaggio alla scultura, a partire dagli anni ’70, è stato caratterizzato da un riferimento alla natura locale e all’archeologia, influenzato dall’arte astratta.
La scultura Drooped Wing è costituita da una coppia di ali staccate e perpendicolari l’una all’altra. Le due ali sono identiche, una rivolta verso il suolo e l’altra verso il cielo. L’immagine delle ali è legata all’aria, mentre il materiale di cui sono fatte, l’argilla nera, ha origine nella terra. L’ambiziosa scultura di Nora e Naom è ancorata a una profonda conoscenza tecnica, che ha permesso loro di spingersi oltre i confini del materiale per creare sculture in ceramica di grandi dimensioni. In quanto coppia di artisteunica nel panorama artistico locale, sono identificate come ceramiste nel campo dell’arte e come scultrici nel campo della ceramica.

 

Michael Gross
1920, Tiberias – 2004, Even Yehuda
Senza titolo, 1976
Olio su iuta

 

Ruth Dorrit Yacoby
1952, Moshav Arbel – 2015, Arad
Donna un cuore di fuoco in mano, 1994-97
Tecnica mista su legno

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Feb
04
2023
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La sostanza organica del suolo (terza parte)

Influenza della sostanza organica sulle proprietà chimiche del suolo

La sostanza organica è la parte di suolo più reattiva dal punto di vista chimico e da sola rappresenta fino al 46% della superficie specifica in un suolo che ne contiene mediamente il 3% in peso. Nel suolo, infatti, la maggior parte delle reazioni chimiche avvengono all’interfaccia tra la fase solida e la fase liquida, dove i numerosi gruppi funzionali reattivi delle molecole umiche e degli altri costituenti della sostanza organica interagiscono con i soluti presenti nella soluzione del suolo. La capacità di scambio cationico della sostanza organica può contribuire fino al 50% di quella presente in un suolo. Inoltre, la sostanza organica causa spesso una certa acidificazione del suolo perché associata alla biomassa e quindi al rilascio di CO2, che è un agente acidificante. La sostanza organica quindi svolge un ruolo non trascurabile nella pedogenesi di molti suoli ma svolge altri anche altri ruoli, qui di seguito descritti.

Complessazione dei metalli

Soprattutto di Fe, Zn, Cu, Ni, Co, Mn, con formazione di idrossidi insolubili (soprattutto a pH alcalini). Avviene mediante la condivisione di doppietti liberi di elettroni con lo ione metallico acido, che ne è invece carente. I legami dell’humus con i metalli (alcalini, alcalino-terrosi e anche pesanti, quali Pb, Cu, Ni, Co, Zn, Cd, Fe e Mn) sono legami di coordinazione tra gruppi funzionali leganti (o chelanti) e metallo ligando (o chelato). La sostanza organica è infatti in grado di trattenere i metalli in soluzione sotto forma di specie anioniche o prive di carica. Si possono formare non solo composti chelati, quando due o più dei gruppi funzionali legati al metallo appartengono alla stessa molecola organica (chelante) ma anche strutture a catena in cui il metallo è contemporaneamente chelato da due diverse molecole di acidi fulvici. I gruppi responsabili di tali legami sono, in ordine inverso di importanza, enolato, ammino, azoto con doppio legame, azoto eterociclico, carbossilato, etere e carbonile.

L’elevata stabilità dei chelati è dovuta a motivi entropici. Infatti, anche se l’energia di legame liberata a pressione costante è la stessa (stessa dH, variazione di entapia), la formazione del chelato comporta una minore diminuzione di entropia, dato che il numero di molecole passa da 2 a 1 invece che da 3 a 1, come nel caso di un composto non chelato. Dal momento che dG = dH − TdS e quindi la diminuzione di energia libera (dG) sarà maggiore se dS sarà più piccolo (cioè quanto minore è la riduzione di entropia).

I catecoli sono tra gli acidi più chelanti, ma ci sono anche polisaccaridi acidi, acidi uronici, amminozuccheri, siderofori che chelano Fe3+ (soprattutto nelle graminacee) e fitochelatine (in molte altre specie). Le sostanze umiche possono formare complessi più o meno stabili con i metalli: è ovvio che i composti più stabili tenderanno a formarsi per primi e prevarranno a basse concentrazioni del metallo. I siderofori microbici o delle piante superiori possono essere assorbiti come tali oppure lo ione ferroso può essere assorbito dopo la riduzione del complesso da parte degli H+ escreti dalle radici.

Potenziale di ossido-riduzione

Si misura introducendo in una pasta satura o in una sospensione di suolo in esame un elettrodo di misura costituito da un filo di platino, e rilevando con un potenziometro la differenza di potenziale esistente tra quest’ultimo e un elettrodo di rifermento a calomelano. In un suolo ben areato si riscontrano solitamente valori di +0.4 V, mentre in anaerobiosi spinta di –0.4 V. La sostanza organica influenza indirettamente il potenziale di ossidoriduzione perché contribuisce a mantenere una buona struttura con adeguata porosità e permette quindi l’esistenza di condizioni ottimali di aerazione e drenaggio del suolo, che contribuiscono ad impedire l’instaurarsi di condizioni asfittiche. L’accettore di elettroni energeticamente più vantaggioso dopo l’O2 è il nitrato, che viene ridotto da batteri denitrificanti In nitrito, NO, N2O e N2. L’attività dei batteri denitrificanti dipende anche però dalla disponibilità di carbonio organico e, inoltre, eccessi di sostanza organica favoriscono la denitrificazione perché inducono un maggior consumo di ossigeno. Dopo il nitrato si passa all’ossidazione di Mn(IV)/Mn(II) e Fe(III)/Fe(II), abbondantemente disponibili nel suolo per la presenza di ossidi e idrossidi di questi elementi, segue il solfato a solfuro e la CO2 a metano. In tutte queste riduzioni si consumano H+ e quindi il pH tende alla neutralità.

 

Proprietà biochimiche e fisiologiche della sostanza organica

Gli enzimi rilasciati all’esterno della cellula sono inglobati nei complessi organo-minerali senza perdere la loro attività e sono protetti dalla degradazione microbica, acquistano una marcata resistenza alla denaturazione termica e svolgono la loro funzione anche in condizioni sfavorevoli per l’attività microbica. Nel suolo gli enzimi possono rimanere attivi in questi siti: intracellulari, periplasmatici, superficie esterna cellulare; associati a cellule non proliferanti quali spore batteriche e cisti; presenti in cellule morte o in residui cellulari; extracellulari preseti nella fase acquosa del suolo; immobilizzati dai fillosilicati e/o da molecole umiche presenti nel suolo.

Complessi argillo-enzimatici. La molecola enzimatica proteica può protonare i suoi gruppi basici accettando protoni dalla superficie dei fillosilicati, con un’interazione diretta tra proteina e fillosilicato (non comune), perché questi sono di solito già coperti da ossidi e idrossidi. Avvengono però anche interazioni elettrostatiche proteina-fillosilicato, legami ad idrogeno, legami di coordinazione, ponti salini e interazioni idrofobiche.

Complessi umo-enzimatici. Questa immobilizzazione porta ad una stabilizzazione della struttura terziaria della proteina, rendendo così l’enzima più resistente alla denaturazione termica (come nel caso di fosfatasi, ureasi e proteasi). Gli enzimi si troverebbero avvolti da una maglia di molecole umiche con pori di dimensioni tali da permettere il passaggio di substrati e dei prodotti ma non delle proteasi.

La presenza di complessi argillo- ed umo-enzimatici, resistenti alla degradazione proteolitica, assicura lo svolgimento delle reazioni extracellulari e riduce la necessità di secernere continuamente enzimi da parte dei microrganismi. Nel caso che la reazione catalizzata dai complessi sia completata ed i prodotti della reazione raggiungano il microorganismo si può avere la sintesi dei relativi enzimi extracellulari necessari alla catalisi stessa. I prodotti della reazione catalizzata dai complessi possono stimolare un responso chemiotattico da parte della cellula microbica. Le molecole umiche possono avere effetti positivi anche sulle attività metaboliche delle piante: a) maggiore trasporto di nutrienti nelle cellule radicali, b) attivazione dei processi del ciclo di Krebs e maggiore produzione di ATP, c) aumento di clorofilla e di carbonio organicato e quindi maggiore ATP, d) aumento della velocità di sintesi acidi nucleici e della sintesi proteica. Le molecole umiche, una volta superata la parete e venute in contatto con il plasmalemma, possono: a) influenzare l’assorbimento degli ioni nutritivi attraverso un’influenza diretta positiva o negativa sull’attività dei carrier e delle H+-ATPasi presenti nella membrana cellulare e responsabili del trasporto attivo dei nutrienti, b) indurre un aumento di permeabilità dei fosfolipidi di membrana e quindi dei flussi degli elettroliti e non elettroliti, c) esercitare effetto positivo sull’attività metabolica in genere e conseguentemente maggiori livelli di ATP e maggiore trasporto attivo. Infine, alcuni prodotti di idrolisi degli acidi fulvici (di peso inferiore 5000 dalton) sono liberati da polcondensati umici. Essi sono l’“effettore umico” (3500 dalton), contraddistinto con la sigla HEf con attività fito-ormonali di tipo auxinico, gibberellinico e citochininico, ed il “supporto umico” (3500-5000 dalton) con la sigla HSp, biologicamente inattivo. È proprio nelle condizioni ambientali più difficili che le sostanze umiche rivelano la massima efficacia sulla crescita dei vegetali. Le secrezioni radicali e le attività del plasmalemma sono concertate quindi con l’intervento delle sostanze umiche sul metabolismo vegetale attraverso meccanismi di autoregolazione.

 

Mineralizzazione della sostanza organica e assorbimento dei nutrienti da parte delle piante

Gli elementi nutritivi (in particolare N, P, S) presenti nella sostanza organica costituiscono una riserva potenzialmente assimilabile, la cui quantità nel suolo è tale da soddisfare le esigenze colturali per numerosi anni. L’azoto nel suolo varia dallo 0,06 al 3,00% in peso ed è presente in gran parte in forma organica (95-99%). Le forme organiche devono essere convertite nella forma ammoniacale attraverso la mineralizzazione. Le piante possono assorbire sia nitrati che ammonio, anche se i primi sono maggiormente disponibili perché non trattenuti dalle superfici colloidali del suolo.

Nitrati e solfati, a causa della loro carica netta negativa, sono scarsamente interessati dai fenomeni di adsorbimento specifico e aspecifico sulle fasi solide del suolo e sono presenti a concentrazioni elevate nel suolo (0,5-3,0 M), muovendosi facilmente verso la radice sia con l’acqua, sia per flusso di massa che per movimenti diffusivi. Il fosforo è invece soggetto a rilevanti fenomeni di immobilizzazione nel suolo sia per precipitazione di sali poco solubili sia per adsorbimento specifico ed aspecifico sui colloidi del suolo. La concentrazione di ortofosfato nella soluzione del suolo è quindi molto bassa (1-2 µM) e si sposta molto lentamente per diffusione. Data la scarsissima mobilità del fosfato, solamente quello liberato dai processi di mineralizzazione nelle immediate vicinanze delle radici potrà essere utilizzato per la nutrizione mentre il restante andrà soggetto ai fenomeni di adsorbimento e precipitazione (fosforo immobilizzato).

Attraverso l’acidificazione del pH rizosferico e l’emissione di agenti chelanti e riducenti la radice riesce a migliorare le disponibilità dei nutrienti nelle più immediate vicinanze della parete delle cellule radicali. Per molti nutrienti (nitrati, fosfati, solfati, cloruri) ci vuole un trasporto attivo con proteine di membrana saturabili (carriers) e strutture proteiche non saturabili (canali ionici), come i canali idrofilici regolabili da specifici segnali. Per altri cationi invece il trasporto è passivo (Ca, Mg, Fe e Mn). Ancora, la H+-ATPasi di membrana porta H+ nell’apoplasto, creando differenze di potenziale elettrochimico e quindi un più facile assorbimento cellulare di cationi per antiporto (H+ all’esterno/K+ all’interno), uniporto (cationi che entrano per il potenziale elettrico favorevole) o simporto (due anioni escono perché all’esterno ci sono più H+).

 

Ruolo della pedofauna nell’evoluzione della sostanza organica

La pedofauna, cioè l’insieme degli animali che vivono nel suolo, comprende organismi edafobi (vivono costantemente nel suolo), edafofili (prediligono il suolo anche se ne possono uscire), edafoxeni (presenti nel suolo occasionalmente), epiedafici (vivono sulla superficie suolo), ed emiedafici e euedafici (vivono negli strati profondi). Questi organismi presentano adattamenti strutturali assai diversi, quali le dimensioni corporee, la presenza o meno di ali, strutture atte allo scavo e al salto, occhi, pigmentazione (convergenza adattativa). Si differenziano anche in base al modo in cui assorbono ossigeno: atmobios (preso direttamente dall’atmosfera) e hydrobios (preso dall’acqua). Al primo gruppo appartengono: sinfili, pauropodi, insetti apterigoti quali proturi, collemboli e dipluri, araneidi, pseudoscorpioni, opilioni, acari, crostacei isopodi, diplopodi (millepiedi), chilpodi (centopiedi), insetti pterigoti come ditteri e coleotteri, molluschi polmonati, insettivori e roditori. Dell’ hydrobios fanno invece parte: turbellari, irudinei, crostacei copepodi, oligocheti quali enchitreidi e lumbricidi, protozoi che formano cisti in condizioni sfavorevoli o si disidratano se il contenuto dell’acqua diminuisce (entrando in criptobiosi/anidrobiosi), nematodi, rotiferi, tardigradi.

È altresì importante conoscere le preferenze alimentari di questi organismi e le reti trofiche di cui fanno parte. I fungivori si nutrono di ife o spore e possono stimolare la crescita fungina asportando le ife senescenti e disseminando i propaguli. I detritivori si nutrono di sostanza organica morta, generalmente dopo che è stata colonizzata dai batteri. I protozoi possono condurre vita libera e si nutrono di microfauna, alcuni sono saprofiti e altri parassiti, commensali o predatori. Molti nematodi sono parassiti degli apparati radicali delle piante, ma una parte assai più numerosa conduce vita libera e si nutre di piccoli detriti oppure di succhi cellulari, anche predando altri organismi. I microartropodi più rappresentati sono gli Acari e i Collemboli. Le diverse componenti della pedofauna cambiano notevolmente, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Nei campi coltivati, gli animali sono distribuiti in modo più uniforme soprattutto nei primi 15 cm di suolo, mentre a profondità maggiori si ha una riduzione qualitativa e quantitativa della fauna edafica e una semplificazione delle reti trofiche.

Una pratica agronomica che incide profondamente sulle caratteristiche della pedofauna è l’aratura, la cui azione meccanica solitamente provoca un decremento quantitativo e qualitativo delle popolazioni animali (ad es. colpiti dall’aratro, intrappolati, strato superficiale essiccato e rimozione lettiera che funge da cibo). Nei campi coltivati, inoltre, il raccolto priva il suolo dei nutrienti e i fertilizzanti di sintesi spesso non ripristinano gli equilibri naturali sconvolti. Lo stesso vale per la presenza di fitofarmaci (insetticidi, nematocidi, fungicidi, erbicidi). Altri fattori che influenzano il processo sono la copertura vegetale, il tipo di coltivazione, la quantità di acqua e il drenaggio. Gli animali del suolo contribuiscono alla demolizione della sostanza organica disgregando e lisando i tessuti animali e vegetali, rendendoli più facilmente aggredibili dai microrganismi, decomponendo selettivamente e modificando chimicamente parte dei residui organici, trasformando i residui vegetali in sostanze umiche, aumentando la superficie attaccabile, formando aggregati complessi di sostanza organica e parte minerale, rimescolando totalmente la sostanza organica negli strati superficiali del suolo (a umificazione avvenuta), ingerendo sostanza organica che viene arricchita di microorganismi e attaccata più facilmente, stabilizzando le reti trofiche (soprattutto da parte degli artropodi).

Le endomicorrize arbuscolo-vescicolari (VAM) contribuiscono al trasporto N e P dal suolo alle radici delle piante, stabilizzano i macroaggregati e interagiscono con i microartropodi. Nella zona dell’apice radicale c’è una maggiore quantità di essudati radicali prodotti dalla pianta, cioè sostanza organica ricca in carbonio che stimola la crescita del microbioma del suolo. Tuttavia, affinché possano crescere, i microrganismi devono utilizzare anche gli altri macronutrienti (N,P, S) e ciò avviene mineralizzando la sostanza organica vicino alle radici. La fauna, nutrendosi di batteri, favorisce il rilascio di elementi inorganici che diventano quindi disponibili per radici e micorrize. I Protozoi, infine, come molti altri microorganismi, producono anche sostanze ormono-simili in grado di favorire la crescita delle piante.

In un suolo ben gestito, in cui avviene la decomposizione del materiale organico e il riciclaggio dei nutrienti minerali, la presenza di microartropodi, che occupano tutti i livelli trofici dei detritivori della catena alimentare, può offrire il vantaggio di un rilascio di minerali continuo e regolato. Ciò non si verifica in suoli degradati, in cui i microartropodi sono spesso assenti. Questo lento rilascio è dovuto al fatto che le varie sostanze vengono trattenute per un certo tempo nei tessuti degli animali. A seguito del processo respiratorio, il carbonio ritorna come CO2 all’atmosfera. Attraverso il processo di umificazione, al contrario, il ritorno del carbonio in CO2 atmosferico richiede tempi estremamente più lunghi (anche decine di anni). I principali fattori che regolano la decomposizione delle molecole umiche sono il contenuto di sostanza organica, il tipo di lavorazione (aratura, sarchiatura, ecc.), la temperatura, l’umidità, il pH, la profondità e l’aerazione. I substrati freschi hanno la facoltà di accelerare o di ridurre il tasso di decomposizione delle molecole umiche (priming effect o azione d’innesco), ma hanno un peso anche l’età delle piante, il contenuto in lignina, il grado di disgregazione del substrato, la concentrazione di ossigeno, e il rapporto C/N del materiale vegetale. Il contenuto in lignina è spesso più limitante del rapporto C/N per la degradazione. Nel corso della mineralizzazione di materiale contenente modeste quantità di azoto, il rapporto C/N tende a decrescere nel tempo e ciò è dovuto alle perdite di carbonio come CO2, mentre l’azoto permane in combinazione organica. Nel corso della decomposizione, la percentuale di N nelle sostanze umiche aumenta di continuo e la curva si avvicina asintoticamente a 10, il rapporto C/N ideale. D’altro canto, I microrganismi provocano variazioni del potenziale redox tramite il consumo di O2 e la liberazione di prodotti ridotti. La quantità, la natura e la disponibilità di sostanza organica determina quindi la consistenza e la composizione delle popolazioni eterotrofiche che il suolo ospiterà.

 

Aspetti agronomici del ciclo della sostanza organica

Negli attuali sistemi agrari, il ciclo della sostanza organica nel suolo risulta nettamente sbilanciato verso le fasi cataboliche o di mineralizzazione, mentre penalizzate risultano quelle anaboliche, di accumulo dei residui organici e di umificazione. L’agricoltura è così divenuta una attività eminentemente economica con sistemi di gestione tipici delle imprese industriali. A livello di ecosistema, la sostanza organica del suolo è l’elemento chiave per capire il funzionamento degli agro ecosistemi, rappresentando contemporaneamente un punto di arrivo e di partenza del ciclico evolversi dei processi di organizzazione della materia. La fertilità del suolo, ossia la sua attitudine a mantenere nel tempo colture produttive, dipende dal rifornimento in sostanza organica e quindi dall’entità dei residui colturali. Diventano così fondamentali le scelte che prevedono la presenza/assenza di animali, la dislocazione delle colture nello spazio (monocolture o consociazioni) e nel tempo (monosuccessioni e rotazioni) per un’armonica interazione dei principali componenti dell’agroecosistema: produttori (colture), animali (consumatori) e microrganismi del suolo (decompositori). La sostanza organica, conferendo al substrato detritico gli attributi di maggiore capacità per l’acqua e di riserva di energia e di elementi nutritivi, investe così il suolo di una nuova proprietà emergente: la fertilità.

La cotica erbosa è costituita da tre piani quasi sovrapposti di radici: quelle fittonanti (apice verso il basso) delle leguminose esplorano e drenano di elementi nutritivi negli strati più profondi; quelle delle graminacee a cespo lasso (fascicolate: numerose radici, ciascuna delle quali ha ramificazioni laterali) attingono dall’orizzonte concrezionale (dove abbondano P, Ca e Fe); e quelle delle graminacee rizomatose (rizoma: fusto perenne sotterraneo e funzionante come organo di riproduzione vegetativa) arricchiscono l’orizzonte superficiale dopo la loro decomposizione. Le piante, che a livello di capillizio radicale non possono tollerare periodi prolungati di siccità, utilizzano gli spazi tra i grumi per diffondersi, mentre localizzano le loro superfici assorbenti preferibilmente all’interno dei grumi, dove l’acqua viene trattenuta contro la gravità ma rilasciata facilmente alle radici (si parla di grumi o aggregati di 500-2000 µm).

A titolo di esempio, una classica terra nera o “cernozem” della Russia meridionale, che corrisponde alla fase pedogenetica con il massimo grado di fertilità, contiene dal 4 al 10% di sostanza organica. La messa in coltura di un suolo vergine può provocare, dopo 50 anni di coltivazione, la diminuzione del 25-50% di sostanza organica. La tendenza alla diminuzione della sostanza organica del suolo con la coltivazione può essere tuttavia contrastata mediante l’adozione di pratiche agronomiche e (rotazioni, letamazioni, sovesci) che mirano a potenziare il flusso di carbonio al suolo e quindi a ripristinare ciclicamente livelli accettabili di fertilità. In accordo con la regola di Van’t Hoff, la velocità delle reazioni biochimiche risulta positivamente correlata al livello di temperatura, con un aumento di 2-2,5 volte per ogni 10 °C di variazione. La tessitura del suolo influisce sul tasso di decomposizione della sostanza organica non solo in maniera indiretta, influenzando i rapporti aria-acqua che regolano l’attività microbica, ma anche in maniera indiretta, per il ruolo stabilizzante della sostanza organica da parte delle particelle argillose, originando composti umo-minerali più resistenti all’attacco microbico. Le perdite di sostanza organica si accentuano nei suoli a tessitura più grossolana. L’aratura redistribuisce la sostanza organica, con un relativo arricchimento in profondità e un depauperamento in superficie. Il succedersi di stati umidi e secchi e l’effetto delle lavorazioni provocano la rottura degli aggregati che sono cementati dalle sostanze umiche e si ha la disponibilità di nuovi micrositi dove previamente la sostanza organica era fisicamente inaccessibile all’attacco microbico. Con le lavorazioni, nel complesso, viene ad essere sensibilmente influenzato il ciclo della materia nell’ambiente, con un progressivo impoverimento delle riserve di sostanza organica e di elementi biogeni nel suolo e un parallelo aumento degli stessi nelle acque (eutrofizzazione). Tanto i componenti idrolizzabili (amminoacidi, ammonio prodotto dalla idrolisi acida, esoammine e altre forme non identificate) quanto quelli non idrolizzabili sono suscettibili di mineralizzazione e di conseguenti perdite in seguito alla coltivazione. Non è possibile fissare un valore preciso per il livello di sostanza organica che dovrebbe essere mantenuto nel suolo ma si indica un valore orientativo del 3% in peso (1,7% di carbonio organico quando si assume che la sostanza organica contenga il 58% di carbonio) come soglia al di sotto della quale la struttura diventa instabile.

I trattamenti con erbicidi (diserbo chimico) e l’assenza di lavorazioni si risolvono in un naturale consolidamento e in una compattazione meccanica della superficie del suolo, attraverso l’incremento della densità apparente e la riduzione della porosità totale, minore aereazione e mineralizzazione, effetto pacciamante da parte della vegetazione disseccata dagli erbicidi, e conseguente più lenta decomposizione della sostanza organica. I fitofarmaci vengono degradati dai microrganismi e quindi forniscono una riserva aggiuntiva di carbonio organico ma possono essere anche tossici e influenzare l’entità delle popolazioni microbiche e i cicli degli elementi nutritivi. La fertilizzazione (organica e minerale) e la rotazione colturale riequilibrano il dissesto nel bilancio della fertilità, consentendo un maggiore sviluppo degli apparati radicali delle colture e quindi un maggiore apporto di residui a disposizione per i successivi processi di umificazione e mineralizzazione. Oltre all’azione sulla vegetazione colturale, si attribuisce alla concimazione minerale un ruolo di promozione (priming effect) nello stimolare la mineralizzazione della sostanza organica del suolo. È da sottolineare anche il ruolo importante degli avvicendamenti colturali che lasciano residui vegetali su suolo. Infatti, la fertilità del suolo si mantiene nel tempo attraverso un’opportuna successione di colture di diverso tipo (da rinnovo, depauperanti e miglioratrici). La leguminosa erba medica, ad esempio, è una coltura ad elevata potenzialità produttiva che, senza somministrazione di alcuna concimazione azotata, riesce ad accumulare annualmente un quantitativo di biomassa aerea pari a quello ricavato da altre colture foraggere, come loietto e mais, però largamente concimate con azoto.

Il letame è stato definito principe dei concimi perché ha un lento rilascio degli elementi minerali, che è garanzia di prevenzione nei riguardi delle perdite per lisciviazione, denitrificazione e volatilizzazione; apporta materiale organico già in parte stabilizzato (per l’elaborazione microbica subita in concimaia) ed è quindi idonea ad aumentare il contenuto di humus del suolo. Il suo rapporto C/N (10-12, vicino a quello dell’humus) non induce problemi di immobilizzazione azotata; è ricco infine di microrganismi che mantengono una sana attività biologica del suolo. La paglia invece ha un C/N pari a 80-100 e quindi a causa del processo di immobilizzazione microbica viene utilizzato l’azoto inorganico del suolo, che quindi viene sottratto alle colture successive; è quindi necessario somministrare quote aggiuntive di concime minerale azotato. Il sovescio è la coltivazione di specie destinate ad essere interrate, soprattutto leguminose, in relazione al loro apporto di azoto grazie alla simbiosi con i rizobi, ma anche crucifere e graminacee. Se il rapporto C/N del materiale interrato è di circa 20, la mineralizzazione può intervenire nel giro di una settimana (green manuring: concimazione verde). Per quanto riguarda i fanghi di risulta, essi sono derivati melmosi (contenuto di acqua intorno al 90%) che derivano dal trattamento di depurazione delle acque di fogna urbane, degli scarichi industriali, ecc. Possono contenere virus, batteri sostanze tossiche, nitrati e cationi, e provocare fenomeni di salinità del suolo, modifiche del pH, eccesso di fosforo e altri nutritivi. I rifiuti solidi urbani invece andrebbero impiegati come compost, facendo decomporre biologicamente la sostanza organica in idonei digestori e poi facendo maturare il materiale derivato all’aria aperta, affinché si raggiunga un idoneo grado di umificazione. È importante che sia di buona qualità e maturo al fine anche di migliorare lo stato sanitario delle colture per la capacità di soppressione manifestata verso i funghi fitopatogeni del suolo. Infine è importante anche citare l’agricoltura biologica, cioè l’esercizio dell’agricoltura senza far ricorso all’ausilio di prodotti chimici di sintesi, siano essi concimi o mezzi di difesa o di promozione della crescita. Essa prevede minori input esterni, massima intercettazione dell’energia solare attraverso ordinamenti colturali più complicati nello spazio e nel tempo (consociazioni, rotazioni, colture intercalari), sovescio, apporto di deiezioni animali, letame e compost.

 

[continua…]

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