Apr
29
2020

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Parabola

Ho atteso 15 giorni perché mi venissero delle idee per l’articolo di aprile. Avevo previsto un secondo articolo sulle pandemie vegetali, questa volta sulla grafiosi dell’olmo, ma non sono riuscito a trovare la concentrazione giusta per scriverlo. Ho messo da parte tantissimo materiale su questo argomento ma, per scrivere qualcosa, ho bisogno di digerirlo, di studiarlo, di rielaborarlo, e, sinceramente, in questi giorni non ne ho voglia. Lo pospongo quindi a giugno.

Come al mio solito, mastico di tutto e cerco di spaziare su vari argomenti per avere un’idea il più possibile ampia e non settoriale. Non è sempre facile: il mio lavoro diventa sempre più specialistico di giorno in giorno e quindi si perdono di vista i temi fondamentali, quelli alla base della biologia. I fenomeni non si leggono quasi più alla luce dell’evoluzionismo, della speculazione filosofica, sulla base adi una versione olistica, ecologica, ecosofica. Tutto mi sembra, per così dire, “staccato”. Allora, per questo mese soltanto, complice anche la pausa Covid, mi voglio sono dedicato a ciò che più mi è piaciuto fare.

Ho quasi completato un lavoro su VAIA (ricordate la tempesta che ha abbattuto migliaia di alberi nel 2018? Anche quella in parte causata dei cambiamenti climatici in atto), ho letto libri divulgativi, due dei quali bellissimi, e siti internet e pagine facebook di scienziati, ho finito di scrivere lavori che vanno dalla fauna del suolo agli ormoni vegetali, dal micorisanamento ai batteri alofili, ho organizzato un mini-laboratorio di biologia vegetale in casa (incredibile quante cose si possono fare, anche con pochi mezzi), ho imparato a usare software freeware per analizzare le radici, ho scritto due progetti di ricerca completamete diversi tra loro. Mi rendo conto che tutto ciò che faccio converge verso una visione unitaria dei fenomeni biologici, come se seguissi – molto indegnamente – l’esempio di Darwin, il quale ha studiato con passione animali (e piante), condendo tutto con geologia, embriologia e geografia; il tutto in una visione evoluzionistica.

Il 90% dei lavori scientifici che ho pubblicato sono stati scritti di mio pugno; c’è quindi sempre la mia impronta. E’ maturato lo stile, certo, ma è rimasto più o meno lo stesso: asciutto, semplice e caratterizzato da un’ampia visione sui fenomeni. Lo stesso stile viene facilmente riconsciuto da altri. Tempo fa scrissi una piccola parte di un articolo divulgativo su Xylella fastidiosa, il famoso patogeno dell’olivo, pur rimanendo nel mio ambito scientifico. Inutile dire che, avendo sconfinato (in piccolissima parte) nella patologia vegetale, successe un pandemonio (per fortuna ero in USA), perché riconobbero, appunto, il mio stile.

Vagando per internet alla ricerca di lavori recenti mi sono imbattuto nel mio primo lavoro sull’ecologia del cavaliere d’Italia, un uccello caradriforme che vive in zone umide, come le saline di Margherita di Savoia (Foggia), dove ho appunto condotto la tesi. La paginetta striminzita della pubblicazione del 1999 (la potete scaricare qui), pubblicata su una consolidata rivista di ornitologia chiamata Avocetta (un altro caradriforme!) non rende giustizia alla tesi di laurea, che sono andato a rileggere dopo molti anni. Lì ho trovato pagine intere dedicate alla flora locale, molta della quale composta da alofite (piante che resistono a livelli alti di salinità e alcalinità), e alle interazioni tra queste con il suolo e l’atmosfera. Ho ritrovato concetti di chimica del suolo e di botanica che non avrei mai creduto di possedere a quell’età. Fortunatamente la Commissione di laurea di allora ci sorvolò sopra e prestà attenzione solo alla parte zoologica, altrimenti sarebbero stati guai. O forse i docenti di anni fa avevano un’apertura mentale maggiore rispetto a molti di quelli di oggi. Non saprei. Ricordo però il cazziatone della mia relatrice (co-autrice del lavoro), la quale riprese il mio divagare in seduta pre-laurea, minacciandomi che non mi avrebbe fatto laureare (ma in realtà sapevo che in cuor suo era orgogliosa della tesi).

Come ho fatto in un articolo di qualche mese fa, penso allora al mio tragitto. Sono di formazione un biologo ambientale, con una tesi in zoologia (e botanica), un dottorato in ecofisiologia vegetale, anni di post-doc in biochimica vegetale mista a botanica. Poi sono diventato ricercatore e docente in chimica agraria (altra materia amplissima, che spazia tra piante e suolo, passando per la microbiologia e la qualità degli alimenti) e ho fatto parecchie esperienze all’estero. Eppure mi accorgo che la mia impronta non è cambiata. In fin dei conti, mi piace comunicare, insegnare e divulgare; mi viene naturale. E i lavori scientifici – come mi disse un docente durante una summer school di qualche anno fa – servono principalmente proprio a questo: a comunicare, a farsi conoscere, ed eventualmenete apprezzare, all’interno della comunità scientifica.

Dopo 21 anni da qul 1999 del primo articolo, mi sono ritrovato a scrivere, a mio parere, uno dei miei più bei lavori. Ispirato proprio da un post di questo blog, ho condotto una sperimentazione “casalinga” ideando un orto su un terrazzo: un modo per ridurre lo stress da segregazione, ma anche per condurre un esperimento che ha coinvolto piante, animali, suolo, atmosfera e uomini, tutti sulla stessa barca. Scritto di getto e in prima persona, l’ho inviato a più riviste per un parere, consapevole della quasi certa “trombatura”: una sola ne è rimata entusiasta e me lo ha accettato immediatamente, scegliendone anche una foto (la trovate all’inizio dell’articolo) per la copertina del numero di aprile 2020. Si tratta di una buona rivista open-source di antropologia (Human Ecology). Oggi è l’articolo più scaricato di quella rivista (lo potete trovare qui), segno che il direttore ha avuto la vista lunga e, come mi ha fatto ieri notare un mio collega – molto divertito del fatto – tra qualche mese diventerà probabilmente il mio articolo più citato.

Cosa trovo di bello in questo articolo? Appunto, la visione unitaria di un fenomeno, analizzato dal punto di vista biologico, agronomico, sociale, economico, psicologico e antropologico. Vi ritrovo pienamente la mia impronta, che molte volte è stata criticata, ma che, tranne qualche eccezione, mi ha portato quasi sempre bene e lontano. Dalla copertina di Avocetta sono pasato a quella della lattuga con la coccinella sopra ma, più vecchio, sono sempre io.

 

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