Mar
29
2019

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Verdi ma non marziane

 

 

“Ma è una pianta o un animale?”

“E chi lo sa… a quanto sembra è privo di un sistema nervoso centrale; non ha circolazione.”

“E allora come fa a muoversi?”

“Tutte le piante si muovono, ma in genere non fino al punto di sradicarsi da sole e correrti dietro.”

 

“È fuggito, è ritornato in vita ed è fuggito. Si rigenerano?”

“Come i vermi, come gli anellidi; anche se li tagli a metà, non riesci a ucciderli.”

 

“L’invasione dei mostri verdi (The Day of the Triffids)”, 1963, regia di Steve Sekely.

 

Il film da cui sono state tratte le citazioni sopra è liberamente tratto dal romanzo “II giorno dei trifidi”, di John Wyndham, pubblicato nel 1951, una tipica favola post-apocalittica dove la minaccia proviene dallo spazio ma è di tipo vegetale. Come ha scritto Richard Mabey nel suo “Elogio delle erbacce” (ed. Ponte delle Grazie), che ha ispirato questo articolo, la storia de “II giorno dei trifìdi” rappresenta un’acuta analisi dei modi in cui piante nuove e invasive si trovano inevitabilmente coinvolte nei bisogni dell’uomo e nei suoi preconcetti culturali. Anche se film e romanzo divergono un po’ sulla trama, essi sono accomunati dalla presenza inquietante della pericolosa pianta, coltivata nei giardini come pianta ornamentale, utile dal punto di vista alimentare (produce un olio eccellente) e in grado di produrre milioni di semi leggerissimi e trasportati dal vento (a strategia r, insomma). In poco tempo, la pianta di dubbia origine diventata una presenza comune nella vita di tutti ma, crescendo la pianta inizia ad avere una forma sempre più strana, fastidiosamente “aliena”: una sorta di arbusto ma allo stesso tempo albero, con in cima al fusto una curiosa formazione simile a una piantina di felce appena sbocciata, ricoperta di una sostanza appiccicosa in cui gli insetti restano invischiati. La pianta, aveva inoltre la capacità di camminare barcollando, estraendo la radici dal suolo, di pungere e iniettare un veleno letale, di secernere un fluido viscoso e urticante, e, dulcis in fundo, di nutrirsi di uomini che individuano dal suono e dall’odore. Infine, i ramoscelli intorno al fusto principale producono un segnale sonoro grazie al quale le piante comunicano tra di loro.

 

La pianta del film, e ancora di più del romanzo, possiede tutte le caratteristiche di una specie infestante (sostanze tossiche, aculei, grande adattabilità, capacità di propagarsi velocemente e in maniera invasiva, aspetto apparentemente innocuo, carnivoria), al punto da farla somigliare più a un animale. Riporto dal romanzo la mitica frase: “Non dico che non vi sia del girasole. Non dico che non vi sia della rapa. Non dico che non vi sia dell’ortica e nemmeno dell’orchidea. Tuttavia dico che se anche tutti loro avessero dato vita a quella pianta, nessuno di loro riuscirebbe a riconoscerla come propria discendenza”. Anche se ci sembrano caratteristiche fantascientifiche, in realtà non lo sono: conosciamo tantissime piante provviste di aculei, piante carnivore (le Nepenthes riescono a digerire anche un topo), piante in grado di muoversi strisciando sul suolo grazie a fusti filamentosi, come nel caso della cuscuta, o allungando vigorosamente i propri fusti rampicanti, come nel caso della Fallopia baldschuanica. È da poco nota la capacità delle piante di “udire” determinate frequenze, soprattutto quelle dell’acqua, ed è assodato che le piante comunicano tra di loro attraverso segnali chimici, fino ad avvertire “olfattivamente” la presenza di altri organismi, in particolare predatori e impollinatori. In più, nel romanzo, si anticipa il terrore che suscitano oggi gli OGM, particolarmente produttivi e utili ma allo stesso tempo considerati pericolosi e fuori controllo. In breve, le piante infestanti e invasive, chiamate in ecologia “aliene” (dal latino alienus: altrui, a sua volta dal greco ἄλλος: altro), devono avere qualcosa in più rispetto alle altre che non lo sono; provenienza, persistenza, peculiarità e soprattutto opportunismo sono gli ingredienti necessari perché un’infestante possa a pieno diritto essere considerata tale. L’infiltrazione delle specie aliene può avvenire in modo lento e riservato ma meticoloso, oppure può trattarsi di un’invasione ad ampio raggio, come quella della bella acetosella gialla (Oxalis pes-caprae, nella foto in alto, dai molteplici nomi comuni proprio perché ubiquitaria), proveniente dal Sudafrica, dai fiori giallo evidenziatore Stabilo, di cui facevo dei bei mazzetti da piccolo davanti alla mia scuola elementare.

 

L’atmosfera da thriller fantascientifico del romanzo e del film, oggi considerati un po’ trash e retrò, era ispirata da quella che respirava all’inizio della Guerra fredda, quando si scatenò l’ossessione collettiva di un’infiltrazione comunista: il pericolo fu così trasformato nell’immagine della pianta aliena che invade il giardino di casa. L’incubo peggiore era che l’intruso, capace di mutare aspetto, potesse essere scambiato per una persona comune, come nel film “L’invasione degli ultracorpi”, guarda caso anch’esso di quel periodo (1956). Qui, le sagome amorfe e carnose degli extraterrestri uscivano da enormi baccelli prima di assumere l’identità della persona più vicina. Ne “Il mondo senza di noi” di Alan Weisman (2007) non siamo nel fantasy e nemmeno nella fantascienza, bensì nella realtà: partendo dall’assunto la biomassa vegetale è enormemente più abbondante di quella animale e microbica, cosa avverrebbe se l’uomo scomparisse di colpo? L’autore, basandosi su dati reali e modelli previsionali, conclude che la vegetazione si riapproprierebbe del pianeta lentamente ma inesorabilmente. Nel giro di 100-200 anni, di case e condomini non rimarrebbero che macerie di plastica non degradabile; dopo 10.000-50.000 anni dell’uomo rimarrebbero solo scheletri e manufatti. In piccolo, è quello che è avvenuto a Detroit, passata da essere una città ricchissima ad una poverissima in poco tempo perché basata sulla “monocultura” automobilistica: qui le erbe di prateria hanno colonizzato i parcheggi e le superstrade deserte, viti selvatiche scrostano i muri, e sui tetti delle fabbriche sono spuntati alianti alti decine di metri.

 

Oggi il pericolo è costituito, proprio come per il trifide da giardino del romanzo, da specie alloctone che si sono naturalizzate dopo essere state accettate nei giardini, apprezzate, propagate e diffuse da giardiniere in giardiniere, finché la loro popolazione non ha raggiunto un livello in cui la fuga spontanea o la messa al bando sono diventati inevitabili. Il pericolo non è solo di tipo ambientalista, ma minaccia anche i campi coltivati e le foreste, causando ingenti danni economici. Oggi poi, il cambiamento climatico è e sarà sempre di più una minaccia per le piante native, che si allontaneranno dai loro habitat tradizionali, finendo in giardini botanici o estinguendosi a livello locale. In questo caso lasceranno nella vegetazione dei vuoti che potranno essere colmati solo da piante più adatte alle nuove condizioni climatiche, provenienti cioè da aree più calde. Queste si “naturalizzeranno” e diventeranno comuni – cioè in grado di riprodursi e diffondersi senza l’intervento deliberato dell’uomo – e di conseguenza saranno considerato con il tempo “accettabili”. È difatti il tempo che si dimostra il fattore decisivo per le sorti delle piante invasive: quelle che infestano le colture agrarie possono restare nel loro territorio solo se questo viene continuamente disturbato, e quindi coltivato, e la loro avanzata, apparentemente inarrestabile, prosegue solo fino a quando un insetto o un microbo non imparano a cibarsene.

 

In questa epoca di migrazioni, dovute molto spesso proprio alle carestie causate dai cambiamenti climatici di origine antropica, i significati culturali della “naturalizzazione” possono avere delle sfumature attuali, perché pongono l’accento sulla accettabilità e sulla “idoneità” culturale. La naturalizzazione culturale implica il vedersi riconosciuti i diritti e i privilegi dei nativi o dei cittadini residenti. Tutte queste espressioni contengono un’accezione di dare e avere in cui lo straniero apporta il suo contributo alla cultura adottiva, oltre a cercare di fondersi con essa e a riceverne i principi. Per questo motivo, le piante aliene, invasive, infestanti, alloctone, esotiche, ecc. che in fin dei conti seguono gli spostamenti e le migrazioni umane, ci insegnano qualcosa di importante anche in ambito antropologico e socio-politico, e cioè che le migrazioni hanno causa ambientali e che un’integrazione è possibile, anche se richiede del tempo.

 

Tornando alla fantascienza, cioè da dove abbiamo iniziato, divertitevi su questo sito a trovare la vostra fiction plant preferita tra 80 specie aliene diverse.

 

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