Dic
31
2018

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Funghi a scuola

 

Ho atteso la fine dell’anno per questo articolo, un po’ personale e largamente impersonale, per tre ragioni: a) è un estratto di una bellissima – per merito della candidata – tesi di laurea in Scienze della Formazione Primaria, della quale sono stato relatore; b) lo considero un efficace esempio di didattica delle scienze (e sappiamo quanto questo sia importante in questo periodo di analfabetismo scientifico); c) ha un’esauriente parte sperimentale – caso raro in questo tipo di tesi – che ci fa intravedere i fenomeni studiati attraverso gli occhi dei bambini e di una futura insegnante appassionata e paziente.

Il resoconto degli esperimenti, sempre molto preciso, con osservazioni personali e originali, tempistiche, materiali e metodi, e fotografie esplicative, è riportato a mo’ di taccuino/diario. Il merito del lavoro è di fornire metodi che possono essere svolti facilmente con materiale a basso costo (ma anche con tanto lavoro dell’insegnante) in una classe di scuola elementare. Il tono e il registro usati manifestano sempre la meraviglia (mai magica, ma sempre rigorosamente scientifica) dei risultati ottenuti. Questo è di fondamentale importanza nell’insegnamento, proprio perché il primo aspetto che gli studenti colgono in un insegnante, siano essi bambini o studenti universitari, è la passione. È questa, a mio parere la prima dote necessaria per una trasmissione efficace delle conoscenze. In fin dei conti, per trasmettere una fiamma, bisogna avere la fiaccola accesa; se questa è spenta, è meglio cambiare mestiere.

Ritengo che i lavori qui descritti abbiano pari dignità rispetto a quelli specialistici che continuamente e con soddisfazione pubblico su riviste internazionali o alla divulgazione prettamente scientifica. È durante l’infanzia che maturano le passioni e le inclinazioni, spesso in modo imprevedibile e incontrollabile, a volte a scoppio ritardato, altre volte latenti. Continuando con le metafore ignee, senza tante piccole scintille e vari tentativi, non si può pretendere di accendere un fuoco. Numerose sono le storie di scienziati che, da bambini, si sono appassionati ad esempio a un fumetto o sono rimasti colpiti dalla proiezione di un film o di un documentario, per poi intraprendere carriere di successo. Ancora più numerose sono le storie di grandi scienziati che hanno avuto la fortuna di incontrare insegnanti appassionati di scienze durante il loro percorso scolastico. Qui risiede l’importanza di questa bella tesi.

Preciso che per la pubblicazione di questi contenuti, sono stati chiesti gli opportuni permessi. Nel caso siate interessati a maggiori dettagli, contattatemi.

Buon anno nuovo a tutti!

 

 

1)             Primo esperimento: coltivare funghi commestibili in classe

 

Il periodo invernale è l’ideale per la coltivazione delle ballette in classe, in quanto, per svilupparsi, i funghi hanno bisogno di una temperatura che vari tra i 15 e i 18 °C. Reperire le ballette è ormai molto facile, si possono acquistare nei consorzi agrari, nei vivai, si possono trovare facilmente anche su internet, ed essere ordinate on line. All’interno di questo preparato si trovano già in incubazione i miceli del fungo. Quindi, non si deve fare altro che porre la balletta in un luogo idoneo. Fondamentale è che non ci sia troppa luce, e che il luogo sia ben riparato. In genere i posti preferibili in casa sono un sottoscala, un garage o una cantina. La balletta deve essere liberata dall’involucro in cui si trova e annaffiata con regolarità, usando uno spruzzino, affinché l’acqua venga distribuita in modo uniforme. L’esperienza della coltivazione dei funghi, ben si presta ad essere affrontata in aula. È possibile coinvolgere i bambini a 360° chiedendo loro, per iniziare, di portare ciascuno un bicchierino di terra coi cui ricoprire le ballette. A rotazione, poi, saranno loro stessi ad innaffiare i pani, a prendere le annotazioni riguardo il tempo impiegato dai funghi per nascere, a decidere quando raccoglierli e a portarli a casa, per poter infine assaggiare il frutto del loro lavoro. Personalmente, ritengo che questa esperienza possa essere molto adatta da affrontare in classe, in quanto può essere utilizzata sia per spiegare agli alunni lo sviluppo dei funghi, sia per mostrare loro il lavoro che si compie per produrre i beni primari per l’uomo (in questo caso, lavorare per prodursi il cibo).

 

Parte sperimentale

Era novembre quando ho deciso di iniziare a coltivare i funghi, per provare in prima persona l’esperienza da riproporre successivamente ai bambini. Ho acquistato tre ballette e mi sono messa all’opera. Come prima cosa, mi sono procurata un grande cartone che potesse contenerle e l’ho foderata con della plastica per evitare che, inzuppandosi, si rompesse. Ho aperto le confezioni delle ballette, eliminando solo la plastica che ricopriva la parte alta, lasciandola invece tutto intorno, e le ho posizionate una accanto all’altra nel cartone. Ho preso della terra e le ho ricoperte accuratamente, iniziando fin da subito a tenerle umide. Su alcuni pani, era già possibile notare i funghetti che iniziavano a sbucare.

 

 

Avendo cura di vaporizzare quotidianamente il tutto con dell’acqua, nel giro di tre giorni ho visto comparire i primi frutti, alti già un paio di centimetri. Nel giro di altri tre giorni, i primi funghi sviluppatisi avevano già più che raddoppiato la loro dimensione, mentre di nuovi ne sbucavano.

 

 

Infine, dopo aver innaffiato, fotografato e raccolto i funghi, ho pensato che sarebbe stato molto interessante ed istruttivo poter far vedere ai bambini come essi si riproducono, e quindi mostrare loro la cosiddetta ‘sporata’. Ho raccolto un fungo dalla balletta, ho tagliato il gambo vicino al cappello, ho poggiato su di un tavolino nero e ho atteso…

Dopo qualche ora, questa è stata la gradita sorpresa:

 

 

2)             Secondo esperimento: produrre in classe il lievito madre

 

Non più di due mesi fa parlavo della mia tesi con un’amica, spiegandole quali attività pratiche avrei voluto descrivere. In quel momento era presente alla conversazione anche sua figlia, una bambina di circa 9 anni, frequentante la scuola primaria, la quale, sentendo che avrei voluto spiegare come il lievito fosse vivo e si riproducesse, mi ha guardata allibita, esclamando: ”Ma che dici? Il lievito è vivo?”. Ecco, questa affermazione mi ha fatto capire che la mia idea di produrre in classe il lievito madre non era poi così sbagliata. Pur avendo a che fare quotidianamente con pane e lievitati, solitamente i bambini non sanno nemmeno cosa sia il lievito madre (alcune volte persino gli adulti non ne sono a conoscenza, abituati ormai a vedere il solito lievito in bustina). Il lievito madre, detto anche lievito naturale o pasta acida, è un composto ottenuto dalla fermentazione di un impasto a base di acqua e farina, a volte con aggiunta di sostanze zuccherine. Nel lievito madre sono contenuti microrganismi vivi, quali lieviti e batteri lattici che, nutrendosi di zuccheri semplici (ad esempio il saccarosio) o complessi (come l’amido) producono sostanze di scarto (anidride carbonica, acido lattico, acido acetico ed etanolo) indispensabili alla panificazione. Il lievito madre è largamente utilizzato in quanto conferisce ai prodotti un aroma particolarissimo. Fermentazione e calore sono due parametri indispensabili affinché possa avvenire la cosiddetta lievitazione biologica, che prevede per l’appunto l’impiego di organismi viventi di natura microbica.

A tale scopo, possono essere impiegati due diversi tipi di lievito:

  • Lievito di birra (essiccato in polvere, oppure fresco sotto forma di panetti)
  • Lievito madre (secco o fresco)

 

L’impiego ottimale del lievito di birra avviene ad una temperatura che oscilla tra 24 e 26 °C. A detta di ciò, si comprende come la temperatura sia fondamentale per evitare che le cellule vive del lievito soffrano. Rispetto al lievito madre, il lievito di birra consente una maggior velocità di lievitazione, è sempre pronto per l’utilizzo e risulta di facile impiego. Inoltre, l’uso del lievito di birra permette di ottenere l’impasto lievitato in tempi più brevi e con farine più deboli: ciò comporta però una minor conservabilità dell’alimento nel tempo, che invecchia più rapidamente. Il lievito madre, rapportato a quello di birra, conferisce una più lunga conservabilità al prodotto finito grazie alla maggior acidità della pasta in fase di lavorazione, che rallenta lo sviluppo di muffe. La formazione di anidride carbonica, sicuramente più lenta e graduale rispetto a quella prodotta dal lievito di birra, permette di ottenere un pane con un’alveolatura più regolare. Inoltre, l’uso della pasta acida garantisce un aroma ed un profumo inconfondibili al pane, che tendono ad accentuarsi durante la cottura grazie alla produzione di aminoacidi e zuccheri con aromi volatili. Il pane preparato con la pasta acida è sicuramente più digeribile rispetto ad un prodotto a base di lievito di birra: questo grazie alla lunga azione degli enzimi durante la fermentazione, in grado di scindere molecole complesse in sostanze più semplici.

Gli ingredienti di base per produrre il lievito madre sono semplicemente due: farina e acqua. Per velocizzare il processo fermentativo si può aggiungere una sostanza, detta starter, in grado di fornire il nutrimento ai microrganismi presenti nelle farine. Gli starter che si possono utilizzare sono:

  • Mosto d’uva
  • Succo o polpa di frutta
  • Miele
  • Pomodoro
  • Yogurt
  • Malto d’orzo
  • Farina di segale

 

Il tipo di starter viene scelto in base al grado di acidità che si desidera raggiungere. Durante la lievitazione, i microrganismi, nutrendosi degli zuccheri, sviluppano anidride carbonica e alcool etilico.

 

Parte sperimentale

Prima di proporre l’esperienza agli alunni, sarebbe opportuno fare una prova a casa, per capire di cosa si necessiti, i modi e i tempi necessari. Così ho preso gli strumenti e gli ingredienti necessari:

  1. 100 g di farina ”00
  2. 60 g di acqua di rubinetto
  3. 1 cucchiaino di miele
  4. un canovaccio da cucina
  5. una ciotola di vetro
  6. bilancia e dosatore per le misurazioni

 

 

Dopo aver dosato l’acqua, la farina e il miele, li ho mescolati nella ciotola, prima con l’aiuto di un cucchiaio e successivamente con le mani, fin ad ottenere un impasto elastico ed omogeneo su cui ho praticato la classica incisione a croce. Ho inumidito il canovaccio e vi ho ricoperto la ciotola, mettendo poi il tutto a riposare a temperatura ambiente intorno alle ore 18:00.

 

 

 

Fino al giorno seguente, ho avuto cura di tenere costantemente umido il canovaccio (rendendomi però poi conto che sarebbe stato meglio utilizzare della semplice pellicola trasparente). Verso mezzogiorno ho quindi controllato l’impasto, che si era leggermente gonfiato, e ho potuto subito constatare che vi si era formata attorno una crosticina dura, che ho proceduto ad eliminare.

 

 

Dell’impasto rimasto, ho poi pesato 100 g, a cui ho aggiunto altri 100 g di farina e 50 g di acqua. Come il giorno precedente, ho amalgamato accuratamente il tutto, inciso l’impasto e lasciato a riposare.

 

 

La mattina del terzo giorno, l’impasto era più che raddoppiato! Eliminando la pellicola trasparente con cui l’avevo coperto, si poteva finalmente sentire il classico odore acidulo e pungente del lievito, e l’impasto era molto morbido e spugnoso.

 

 

Ho proceduto al terzo rinfresco, sempre con le stesse dosi, e rimesso a riposare. Essendo l’esperimento ormai riuscito, non mi sono curata di metterlo in frigorifero, come avrei dovuto e, complici le alte temperature del periodo, il mio lievito è ”morto”. Ciò si è facilmente intuito dal differente odore che emanava e dalla consistenza non più soffice, spugnosa e alveolata, ma liquida e molliccia.

 

 

3)             Osservare in classe le muffe

 

Dopo aver coltivato i funghi e aver prodotto personalmente il lievito, per completare a 360° la conoscenza del regno dei funghi potrebbe risultare interessante permettere ai bambini di osservare le muffe che sono presenti negli ambienti da loro abitualmente frequentati. Con l’esperienza che ho scelto di proporre, è possibile imparare che le spore delle muffe (o altri funghi) presenti nell’aria producono colonie visibili ad occhio nudo se queste hanno a disposizione umidità e sostanze nutritive adatte. Lo scopo principale di questo progetto è di aumentare la consapevolezza di ciò che si trova realmente nell’aria che respiriamo e nell’ambiente in cui viviamo. Anche se l’aria sembra pulita, può in realtà contenere molte spore, spesso fonte di allergie. Le spore sono fondamentali per la riproduzione delle muffe e degli altri funghi, così come lo sono i semi per le piante. Le spore fungine sono presenti nell’atmosfera tutto l’anno, specialmente nelle giornate calde, soleggiate e ventose. Queste spore si sviluppano da funghi e muffe che crescono nell’ambiente su molti substrati diversi. Sono più comuni nel terreno e nella vegetazione in decomposizione. La maggior parte di questi fa parte del riciclo spontaneo che avviene in natura, sebbene alcuni possano essere anche patogeni delle piante. Queste muffe sono facili da coltivare in terreni ad hoc. Oltre ad essere agenti eziologici per certe malattie, le muffe hanno il potenziale per produrre allergeni, sostanze irritanti e, in alcuni casi, sostanze potenzialmente tossiche (micotossine) che possono indurre una risposta allergica, causare attacchi di asma e irritare gli occhi, la pelle, la gola e i polmoni di individui particolarmente sensibili. Pertanto, nel coltivare muffe o altri funghi, occorre usare le stesse precauzioni usate per la coltivazione dei batteri, ed in particolare non aprire mai le capsule Petri una volta iniziata la crescita.

Per coltivare le muffe, l’ideale sarebbe quindi procurarsi delle capsule Petri. Le capsule più facilmente reperibili in commercio per scopo didattico, contengono una gelatina nutriente (tecnicamente ”terreno Sabouraud arganizzato”) adatta alla crescita delle muffe. Finché le capsule restano chiuse al loro interno non si svilupperà nessuna muffa né altro. È quindi sufficiente aprire le capsule giusto il tempo di inserirvi l’oggetto scelto, richiuderle e lasciarle riposare al buio per alcuni giorni. Per osservare le muffe presenti nell’aria si può camminare all’aperto per una decina di minuti con la capsula in mano, avendo cura di non toccarne la parte interna per evitare contaminazioni. In classe è poi possibile inserire all’interno di un’altra capsula dei pezzettini di pane, magari prelevati dalla merenda dei bambini. Per avere un risultato ancora più evidente, in una terza capsula sarà possibile far poggiare ai bambini le dita molto sporche, ad esempio dopo aver fatto ricreazione in giardino. Estremamente importante è NON APRIRE MAI le capsule di Petri una volta richiuse. Se si è allergici alle spore delle muffe, o se in classe sono presenti alunni con qualche allergia, l’apertura potrebbe causare una reazione allergica o un attacco di asma. Finché le capsule restano chiuse, è possibile gestirle in sicurezza e, conclusa l’esperienza di osservazione, possono essere smaltite in modo sicuro nella spazzatura dopo essere state collocate in un sacchetto con chiusura a zip per impedire fuoriuscite di aria.

Le caratteristiche importanti da cercare all’esame a occhio nudo, che può essere migliorato con una lente di ingrandimento, includono i fili distinti chiamati ”ife”, che penetrano e si estendono attraverso l’agar. Queste ife sono simili a fili di cotone e sono la conferma che la colonia identificata è appartenente ad una muffa. Le muffe crescono lentamente e possono comparire solo dopo 5-10 giorni dal primo utilizzo della capsula. Ciò significa che le spore, di solito piccole e rotonde, impiegheranno un po’ di tempo per iniziare a ”germogliare”. Passato il tempo necessario al loro sviluppo, sarà possibile ammirare nelle capsule le colonie filamentose, generalmente di colore verde, anche se particolari pigmenti possono conferire loro un colore azzurro, rosso, bruno, grigio o nero, a seconda delle specie coinvolte nella colonizzazione.

 

Parte sperimentale

Come per le altre esperienze che ho scelto di proporre, anche in questo caso ho voluto provarla prima personalmente. Purtroppo, a causa dei tempi brevi, sono riuscita a procurami solamente tre capsule Petri adatte alla propagazione delle muffe. Esse sono facilmente acquistabili online, o reperibili presso laboratori o rivenditori specializzati in materiale medicale. Il giorno 12 novembre ho così potuto iniziare con il mio esperimento, tenendo sempre a mente che avrei dovuto riproporlo in una classe di scuola primaria ed utilizzando per questo motivo solo condizioni e strumenti di coltura replicabili in un’aula.

Ho deciso di contaminare la prima capsula con l’aria esterna. Una volta aperta, l’ho portata in giardino e ci ho camminato per una decina di minuti, avendo cura di non toccarne l’interno con le mani e cercando per quanto possibile di camminare controvento. Dopo dieci minuti circa, l’ho richiusa e ho preso la seconda capsula, dove ho solamente poggiato delle briciole più e meno grandi di pane. Per la terza capsula, ho scelto invece di simulare le mani dei bambini subito dopo un’eventuale ricreazione in giardino. Sono quindi uscita a toccare terra, foglie e legnetti e ho poi poggiato tre dita a caso sul terreno di coltura. Finito di colonizzare le mie capsule, le ho accuratamente richiuse con del nastro adesivo trasparente per fare in modo che non si aprissero accidentalmente e in modo da mantenere umido l’ambiente interno. Le ho infine lasciate ”riposare” a temperatura ambiente e in un luogo semibuio.

 

 

Ho controllato quotidianamente le capsule e il 14 novembre, dopo soli due giorni, quella contaminata con le mani sporche ha già iniziato a dare i primi segni di cambiamento. Vi erano solamente dei puntini bianchi appena visibili, ma poggiandola su una superficie scura si potevano notare anche alla fotocamera. Essendo capsule preparate con terreno selettivo per muffe, è facile che esse fossero le prime colonie. Le altre due capsule sono rimaste invece pulite come in origine, per lo meno ad occhio nudo.

 

 

Non le ho esaminate nuovamente la sera, pensando che in un’aula questo non sarebbe stato possibile. La mattina del 15 novembre, la situazione era questa: il pane non ha prodotto nessun risultato, non so se perché troppo presto o se perché il terreno di coltura fosse differente dagli altri due.

 

 

Le mani sporche sono state quelle con la maggior proliferazione di colonie. È stato infatti estremamente facile notare il gran numero di muffe, di differenti colori, forme e dimensioni. Vi erano anche alcune colonie di tipo gelatinoso, con estrema probabilità riconducibili a batteri. Ciò è dovuto al fatto che il terreno e le foglie toccate per sporcarmi le mani sono ambienti in cui esistono grandi quantità di microorganismi differenti. La capsula contaminata con l’aria esterna presentava invece solo tre o quattro colonie dello stesso colore. Dopo averle fotografate, le ho rimesse al loro posto in attesa di sviluppi. La mattina del 16 novembre la situazione era questa:

 

 

La piastra esposta all’aria esterna è rimasta sempre con tre colonie, le cui dimensioni sono però aumentate. Le briciole di pane hanno iniziato a sviluppare una piccola colonia di colore grigio-azzurro, ma solo in prossimità della briciola di dimensioni maggiori. Infine le dita sporche sono state, come sempre, quelle che hanno proliferato in maniera maggiore. Come da prassi, dopo aver scattato le foto ho riposizionato le capsule nel loro luogo di ”riposo”. Ho scelto di non fotografarle per un giorno, simulando un’eventuale domenica di assenza da scuola durante l’esperienza in classe. Il giorno 18 novembre, il mio ipotetico lunedì di rientro in classe, ho proceduto a scattare altre foto.

 

 

Come nei giorni precedenti, la piastra contaminata da mani sporche è stata sempre quella in cui le muffe, data la loro grande quantità, hanno proliferato in maniera maggiore. Sono sempre presenti colonie batteriche, ma sono meno visibili a causa delle ife che ricoprono la maggior parte della capsula. Nella foto che ritrae il retro della capsula possiamo notare con maggior definizione le differenze di colore e persino di consistenza, per quel che si può notare ad occhio nudo. Le muffe bianche sembrano più soffici, più estese e meno dense, mentre quelle grigie sembrano più concentrate e danno quasi l’idea di essere più consistenti e vellutate al tatto. Le figure della riga centrale ritraggono la capsula (fronte e retro) contaminata con l’aria esterna. In questa troviamo circa quattro colonie di muffe, tre simili a quelle della capsula precedente, ossia grigie e bianche, anche se molto meno estese, probabilmente a causa di una ridotta quantità di spore inizialmente raccolte. È interessante però notare una colonia diversa dalle precedenti, di un grigio più chiaro, che dà l’impressione di essere ruvida al tatto. Nella foto che ritrae queste colonie dal retro le differenze sono minime, tranne per la colonia più chiara, che invece assume quasi una colorazione rossiccia. Concludiamo con le figure dell’ultima riga, che mostrano le briciole del pane. Rispetto ai giorni precedenti la differenza si può notare nella foto scattata di fronte, dove la macchiolina azzurra si è estesa e alla colorazione precedente si è aggiunto anche del grigio-verde. Inoltre, in una seconda briciola di pane si è formata una colonia color bianco sporco. Entrambe queste colonie non mostrano ife particolarmente estese, mentre quella blu, vista dal retro, mostra due gradazioni differenti di azzurro.

Ho scelto di terminare il 18 novembre la raccolta di foto e dati di questa esperienza, quindi sei giorni dopo aver iniziato, per una questione più che altro pratica. Ci tengo a precisare che l’esperienza è stata svolta senza la minima pretesa di rigore scientifico, ma solo per dimostrare ai bambini, e quindi a livello elementare, che le muffe, seppur non visibili fino alla loro germinazione, sono presenti ovunque e non dobbiamo temerle perché non sono sempre dannose. Mi sembrava inoltre un’esperienza suggestiva da proporre. Personalmente mi ha dato molta soddisfazione vedere nascere le muffe e poter osservare da vicino le differenti tipologie di consistenza, ma soprattutto di colori.

 

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