Dic
09
2012

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La Gaia Scienza (finale)

 

Ecco l’ultimo mio post sull’ipotesi Gaia di Lovelock. Giuro che abbandonerò, almeno per ora, la filosofia, sebbene scientifica!

 

[…segue]

 

L’ottica sistemica si è talmente diffusa, in molte discipline, al punto tale di poter parlare di cultura della complessità e, all’interno di alcune di esse, rintracciare importanti contributi all’Ipotesi di Gaia. Ad esempio, la medicina considera gli organismi viventi come sistemi in grado di organizzarsi e auto rinnovarsi all’interno di processi dinamici e energetici riconducibili a migrazioni di elettroni, oscillazioni di cariche elettriche, alternanze chimico-fisiche. Questi sistemi sono aperti perché, per mantenere il proprio equilibrio dinamico e la propria stabilità biologica, devono necessariamente interagire con l’habitat in cui sono inseriti (“intimità ecologica”). In base alla seconda legge della termodinamica, un sistema meccanico prosegue, dall’ordine verso il disordine, disperdendo energia, calore, movimento, fino all’esaurimento, ovvero fino ad uno stato di quiete; mentre nel caso di un sistema vivente esso conserva la propria continuità interagendo con le strutture ordinate dell’ambiente attraverso il metabolismo. Difatti, gli esseri viventi scompongono le strutture ordinate (cibo) in elementi semplici (catabolismo), un sistema vivente è in costante rigenerazione: in tre settimane l’organismo umano rigenera tutto il patrimonio proteico delle cellule nervose; quotidianamente si rinnovano le cellule pancreatiche; ogni tre giorni si rinnovano le cellule dello stomaco. Il tutto con finalità conservativa dell’insieme programmato in rapporto di coerenza funzionale endogena ed esogena (confronto con l’habitat). Tuttavia, un sistema vivente è, come sappiamo, un sistema aperto, una struttura dissipativa, ovvero dove energia e materia circolano all’interno e all’esterno. Esso, pertanto, esaurisce nel tempo la propria potenzialità rigenerativa (invecchiamento) e provvede, attraverso la riproduzione, alla rigenerazione di tutto sé stesso anziché delle singole parti.

Nel mondo biologico non esiste lo stato di quiete, ma un sistematico movimento interattivo ed interrelato attraverso la configurazione di strutture ordinate, la loro degradazione, il ricavo energetico e la restaurazione delle proprie strutture ordinate. Dunque, nel complesso corso della sua evoluzione, la vita rivela un notevole contrasto rispetto alla tendenza espressa nella seconda legge della Termodinamica. Questa famosa legge è anche nota come “legge dell’entropia”. L’entropia fornisce una misura del grado di disordine in cui si trovano gli elementi che costituiscono il sistema. Pertanto, essa è incrementata dal movimento verso uno stato più disordinato, disperso e non pianificato. La teoria evoluzionista è avanzata nella totale ignoranza di questa basilare e universale legge della fisica. Il meccanismo proposto dall’evoluzione contraddice radicalmente i suoi principi. Gli evoluzionisti sostengono che atomi disordinati, dispersi e inorganici, e molecole si siano riuniti spontaneamente nello stesso periodo in un ordine preciso per formare molecole estremamente complesse quali le proteine, il DNA, l’RNA; in seguito, questi avrebbero gradualmente determinato milioni di differenti specie viventi con strutture addirittura più complesse. Inoltre, questo ipotetico processo, che produce ad ogni passo strutture più pianificate, più ordinate, più complesse e più organizzate, ha presieduto autonomamente a tale formazione in condizioni naturali.

La legge dell’entropia mostra chiaramente che questo processo cosiddetto naturale contraddice interamente le leggi della fisica. Gli scienziati evoluzionisti sono consapevoli di questo fatto. J. H. Rush scrive: “Nel complesso corso della sua evoluzione, la vita rivela un notevole contrasto rispetto alla tendenza espressa nella seconda legge della Termodinamica. Mentre quest’ultima parla di un irreversibile progresso verso una crescente entropia e disordine, la vita evolve continuamente verso più elevati livelli di ordine”. La Medicina Sistemica (System Medicine), a conferma di ciò, si sta proponendo come rinnovamento metodologico nella relazione terapeuta-paziente-patologia, proprio perché essa considera l’essere umano come un insieme complesso di cellule tra loro funzionalmente interconnesse, integrate e organizzate in diversi livelli gerarchici di complessità, dove ogni livello mostra proprietà emergenti che non esistono a livello inferiore. Cellule organizzate a formare tessuti, tessuti a formare organi e funzioni, organi a formare organismi, organismi a generare sistemi sociali ed ecosistemi. Sistemi cellulari complessi in collaborazione e comunicazione continua, finalizzata al mantenimento di un obiettivo rappresentato dalla sopravvivenza. Sistemi in grado di generare proprietà emergenti che si traducono in una straordinaria capacità di evoluzione (autopoiesi).

L’essere umano può quindi essere rappresentato come sistema autopoietico in grado di ridefinire continuamente se stesso e i propri confini, di mantenersi stabile e al tempo stesso di rinnovarsi. La vita e la salute, per la medicina sistemica, sono il risultato di una condizione di stabilità dinamica, grazie alla capacità di adattarsi costantemente agli stimoli ambientali interni ed esterni e di mantenere la stabilità dei sistemi fisiologici per mezzo del cambiamento (allostasi). La visione medico-biologica relativa agli organismi arricchisce dunque l’Ipotesi Gaia consentendo di partire dal micromondo allargandosi al macromondo. Gli esseri viventi sono, infatti, micro-sistemi aperti collocati all’interno di sistemi globali molto più estesi. L’essere umano si trova così tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, quasi a sembrare lo scopo della continua costante evoluzione di queste due realtà. Le influenze reciproche tra i due contribuiscono al mantenimento del delicato equilibrio dinamico di Gaia. Un altro importante contributo alla visione sistemica viene dato da Humberto Maturana, un biologo,cibernetico e scienziato cileno, e Francisco Varela, un neurobiologo ed epistemologo cileno, i quali hanno ricondotto la proprietà della circolarità, per cui ogni componente di un sistema partecipa alla produzione o alla trasformazione di altre componenti della rete, alla organizzazione di base di tutti i sistemi viventi, la “vera organizzazione del vivente”.

A tale proprietà i neurofisiologi diedero il nome di autopoiesi. La descrizione più precisa e sintetica di cosa sia una unità autopoietica, oggetto di studio della teoria dell’autopoiesi, la danno proprio i due studiosi. Maturana e Varela scrivono: “La macchina autopoietica è una macchina organizzata (definita come unità) come una rete di processi di produzione (trasformazione e distruzione) di componenti che produce i componenti che: I) attraverso le loro interazioni e trasformazioni continuamente rigenerano e realizzano la rete di processi (relazioni) che li producono; e II) la costituiscono (la macchina) come unità concreta nello spazio nel quale essi (i componenti) esistono specificando il dominio topologico della sua realizzazione in quella rete”. Va notato che il termine macchina sia utilizzato in senso ben diverso dall’uso quotidiano, in accordo col senso che al termine si dà nel linguaggio cibernetico. Nella definizione di unità autopoietica, così come nella definizione di sistema data da Von Bertalanffy, abbiamo degli elementi e delle relazioni; tuttavia è immediato cogliere la maggiore complessità di una unità autopoietica rispetto ad un sistema genericamente inteso. Difatti, l’unità autopoietica è concepita come un sistema produttore di componenti semplici i quali riproducono il sistema mediante le proprie relazioni, il che si complica ulteriormente con la distinzione fra i tre tipi di produzione che si verificano in un sistema autopoietico: 1) produzione di relazioni costitutive: le relazioni che determinano la topologia dell’organizzazione autopoietica; 2) produzione di relazioni di specificazioni: le relazioni che determinano l’identità dei componenti dell’organizzazione autopoietica; 3) produzione di relazioni d’ordine: le relazioni che determinano la dinamica dell’organizzazione determinando quindi la concatenazione della produzione di relazioni di costituzione. E’ quindi chiaro come un sistema autopoietico sia necessariamente dinamico. Il termine è stato utilizzato, dunque, per indicare quella che, per loro, risulta essere la caratteristica fondamentale dei sistemi viventi: una struttura organizzata capace di mantenere e rigenerare nel tempo la propria unità e la propria autonomia rispetto alle continue variazioni dell’ambiente circostante, attraverso la creazione delle proprie parti costituenti, che a loro volta contribuiscono alla generazione dell’intero sistema. Pertanto, i sistemi viventi, mantengono se stessi grazie alla produzione di “sottosistemi” che producono a loro volta l’organizzazione strutturale globale necessaria per mantenerli e produrli.

I sistemi viventi sono considerati come strutture autonome e dotate di chiusura operazionale, in cui il sistema si trova in una situazione di completo autoriferimento, ovvero in cui si pensa al proprio mantenimento e tutte le azioni che sembra compiere verso l’esterno sono in realtà atte a mantenere la propria integrità rispetto alle perturbazioni ambientali. Un sistema vivente, inoltre, fino a che sopravvive, si definisce plastico a livello strutturale, quando è in grado di subire cambiamenti strutturali in seguito ad interazioni, divenendo accoppiato in modo sempre più ricco con il suo ambiente. Pertanto, se l’ambiente è formato da altri sistemi strutturalmente plastici, essi risulteranno adattati o meglio accoppiati l’uno con l’altro con sempre maggiore complessità. Ogni volta che due o più sistemi interagiscono, essi cominciano a co-creare un nuovo sistema che emerge naturalmente dal modo in cui le sue componenti plastiche si adattano l’una all’altra. Tale sistema deriva da, ed è, l’accoppiamento strutturale delle sue componenti cioè quella relazione di complementarità tra unità, fino a che le interazioni con esso non portano alla sua disintegrazione. E’ il fenomeno che sottende e, di fatto, costituisce ciò che di solito chiamiamo cognizione o intelligenza da cui è scaturito l’universo organizzato. Se il sistema è dunque il modo in cui le sue componenti si adattano reciprocamente, secondo un accoppiamento strutturale, concetti come omeostasi, controllo, regolazione sono semplicemente una descrizione del funzionamento del sistema da parte di un osservatore, ovvero non si tratta di fenomeni operativi che si verificano nelle interazioni reali. Infatti, il mondo vivente si costituisce in tal modo perché l’organizzazione sistemica è una necessaria conseguenza dell’interazione degli organismi strutturalmente determinati. Questo significa ulteriormente l’approccio utilizzato da Lovelock nell’Ipotesi di Gaia.

Un altro aspetto necessario per definire un sistema è capire quali sono i suoi confini. Se io distinguo un gatto dallo sfondo del paesaggio, in base a cosa lo faccio? In buona misura, lo faccio grazie alla vista e riconosco come superficie distintiva del gatto grosso modo la sua pelliccia; ma allora, i batteri che il gatto porta dentro di sé, i parassiti, i granelli di sabbia casualmente ingeriti con il cibo fanno comunque parte dell’unità-gatto? Maturana e Varela rispondono a ciò precisando che vi sono due tipi di operazioni di distinzione (e determinazione), ed essi non implicano immediatamente l’intervento dei sensi. Il primo, distinzione concettuale, avviene nel dominio del discorso e descrizione dell’osservatore; il secondo, distinzione fisica, avviene nel dominio di esistenza dell’unità stessa, quando le proprietà definenti dell’unità la distinguono da uno sfondo attraverso il loro effettivo operare. In realtà, come sottolinea Pietro Ramellini, il problema del confine non è così semplice da definire. Il riconoscimento della cellula attraverso il confine membranale, per esempio, non sembra presentare particolari difficoltà; mentre facendo un’analisi più attenta, osservando più da vicino e a risoluzione maggiore la membrana, torniamo alle stesse incertezze poste dalla pelliccia del gatto, ovvero ci chiediamo dove sta il confine. E, ancora, se è più importante il confine strutturale (il doppio strato fosfolipidico) o quello funzionale (ad esempio, la superficie dove la concentrazione degli ioni prende a conformarsi all’equilibrio di Gibbs-Donnan)? Quindi, la distinzione dei confini è un processo per nulla ovvio, anche là dove sembrerebbero evidenti ad una prima considerazione sia fisica che concettuale. Un ultimo interessante contributo alla visione sistemica ci è dato dal concetto di olarchia di Tyler Volk, uno dei più originali prosecutori del pensiero di Lovelock. Un’olarchia consiste di un intero e delle sue parti che, a loro volta, sono interi con parti specifiche. Ovvero, può essere definita come un’organizzazione costituita da sistemi completi fra loro integrati che fungono da parti in un sistema completo di ordine superiore. Tyler Volk cita come esempio il parco di Pine Woods (Stati Uniti) che si presenta come un’olarchia di aree selvagge, campi da gioco, ciascuna delle quali contiene una moltitudine di esseri viventi.

Pertanto, spostandoci lateralmente possiamo attraversare una serie di unità ecologiche inserite le une nelle altre, ma la via più rapida per connettersi con la scala globale si trova spostandoci verso l’alto, ovvero includendo nell’unità parco l’atmosfera, la quale si può connettere con tutte le altre forme di vita, con gli oceani e i suoli del pianeta. La storia di queste connessioni, che cercheremo di osservare meglio nel secondo capitolo, sono il nocciolo della Teoria di Gaia, difatti essa è costituita da bioma, che a loro volta si articolano in ecosistemi, che sono costituiti da batteri, protisti e metazoi, questi ultimi sono a loro volta costituiti da cellule, che sono sistemi costituiti da molecole, e così via. Ogni sistema completo si articola in parti che sono a loro volta sistemi completi. Visti dall’altro capo della sequenza, ciascun intero diventa parte di un sistema di livello successivo. Non si può saltare un gradino proprio perché gli atomi per diventare cellule devono organizzarsi in molecole, le molecole per diventare organismi viventi devono organizzarsi in cellule e così via. Per comprendere realmente la portata di tali connessioni immaginiamo di imbottigliare il parco erigendo pareti di vetro tutto intorno, alte dieci chilometri, fino al bordo superiore della troposfera. Si calcola che la colonna d’aria sovrastante ogni metro quadrato di terreno possa contenere circa 1500 grammi di anidride carbonica (gas utilizzato per la fotosintesi). Pertanto, basterebbero pochi anni per far subentrare l’inedia a causa della mancanza di riserve alimentari gassose e, allo stesso modo, essendo impedito il libero scambio di gas non ci sarebbero piogge e monsoni.

In un sistema aperto, come quello reale, dove la stabilità dell’insieme è garantita da flussi che hanno luogo su scala globale, può accadere, invece, che gli incendi dell’Ovest degli Stati Uniti devastino aree pari a un migliaio di volte il parco di Pine Woods e che le stesse siano in grado di ricrescere solo perché esposte a un’atmosfera, e ai suoi cicli, che abbraccia tutto il globo. Tutto questo dimostra come gli ecosistemi non abbiano confini visibili o tangibili, ovvero ogni organismo partecipa ad una grande varietà di cicli di varie dimensioni. Il caso più semplice è rappresentato dall’albero che prende parte ai cicli del suolo con le radici e a cicli molto più ampi attraverso gli uccelli che consumano insetti e che si cibano delle sue foglie. Quindi, l’indeterminatezza dei confini, come già confermato dallo stesso Pietro Ramellini a proposito della Teoria di Maturana e Varela, in ecologia appare inevitabile, tanto da chiedersi in che misura gli ecosistemi possano considerarsi entità tra loro separate. Ma, poiché l’uomo ha bisogno di porre limiti e tracciare confini per cercare di avvicinarsi il più possibile alla complessità dell’esistente, essi rappresentano e rappresenteranno comunque una modalità di descrizione diffusa dei meccanismi di Gaia e dell’ecologia in generale.

 

 [fine]

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