Feb
09
2012
1

Il frassino

Mi rendo conto che in questo periodo sto trascurando un po’ i post naturalistici e quindi sono andato alla ricerca di veccie foto, imbatendomi in questa. In una bella escursione di qualche anno fa sul monte Sparviere, tra Basilicata e Calabria, ci imbattemmo due volte in un albero (foto sopra) che, a prima vista ci era sembrato un sorbo. In realtà si trattava addirittura di un gioiello dei nostri boschi: il frassino maggiore (Fraxinus excelsior L.).

Non mi addentro subito in dettagli botanici e fisiologici, dal momento che nei paesi nordici, prima dell’avvento del solito Cristianesimo – quando gli alberi erano probabilmente più rispettati rispetto ad oggi – il Frassino maggiore veniva adorato come pianta sacra: Odino, il più grande degli dei nordici, creò addirittura il primo uomo sulla terra con il legno di frassino . Era poi convinzione comune che bruciare legna di Frassino allontanasse gli spiriti maligni.

In realtà alcuni spiriti maligni li caccia davvero perché, con le foglie raccolte quando sono appena nate, ancora appiccicose e zuccherine, e successivamente essiccate, si prepara un ottimo tè. In fitoterapia, inoltre, si usano semi foglie, linfa, corteccia dei rami giovani perché contengono glucosidi, zuccheri, resine, acido malico, vitamine C e del gruppo B, e hanno proprietà astringente, diuretiche, lassative, sudorifere, toniche.

In Italia è diffuso al settentrione, è presente nei boschi freschi di forra anche nell’Italia centrale ed è raro in quella meridionale. In Basilicata, il Frassino maggiore è segnalato in poche località (alcune zone del Pollino e Monte Pierfaone) ma, almeno io, non l’ho mai visto là. Sul monte Sparviere, invece, l’ho visto per ben due volte. La prima volta in veste di vera e propria apparizione, dal momento che era ai bordi di un precipizio, immerso nella nebbia autunnale, verdissimo e rigoglioso.

Davvero bello per il portamento e la chioma rada ed elegante. E’ una delle latifoglie più nobili dei nostri boschi. Secondo un detto scandinavo: se la Quercia è il re, il Frassino è l’imperatore. Può essere monoecio (con fiori maschili e femminili separati, oppure con fiori ermafroditi) o monoecio (con fiori maschili o femminili su piante diverse ). Può raggiungere i 40 m di altezza e 1 m di diametro, presenta un rapido accrescimento ed è abbastanza longevo.

Ha un tronco dritto e cilindrico. La corteccia, dapprima liscia e olivastra, successivamente diventa grigio-brunastra e screpolata longitudinalmente. Ha grandi foglie caduche composte imparipennate formate da 9-11 paia di foglioline sessili opposte e minutamente seghettate di colore verde cupo e lucente sulla pagina superiore, più chiare su quella inferiore.

I fiori sono riuniti in pannocchie dense. L’impollinazione è anemofila (mediante il vento), il frutto è una samara monosperma (con un solo seme), lunga 3-4 cm a maturazione, bruno chiaro, obovato- lineare, più o meno arrotondata alla base. Matura a settembre-ottobre e porta un seme che a lungo dormiente a causa di un complesso sistema di inibizione della germinazione.

Il suo legno ad alburno bianco-roseo e durame bruno chiaro con riflessi madreperlacei, è semiduro e di facile lavorazione. Raccoglie in sè molte caratteristiche: morbido eppure solido, mutevole eppur resistente, grazioso eppur forte, lineare, ma rotondo. Si tratta di un legno pregiato, duro, tenace ed elastico, molto ricercato per falegnameria ed ebanisteria (mobili, attrezzi sportivi, come gli sci, mazze da golf, stecche da biliardo, manici di scuri, pioli, zappe, ecc.). Con i polloni si fanno i cerchi da botte e pali per la vite. Da esso si ricava il cosiddetto “ebano grigio” molto ricercato per ebanisteria fine. Viene molto ricercato anche per la fabbricazione di remi, alberi di imbarcazioni e manici di utensili, ed è anche (sprecato!) un buon combustibile.

E’ un albero molto esigente e predilige suoli profondi non compatti, freschi ma anche umidi, da sub-acidi ad alcalini. Tende ad associarsi con l’acero montano, carpino e querce a basse quote, mentre più in alto si associa sia al faggio che all’abete bianco e rosso. E’ un buon bevitore e quindi l’acqua è il suo fattore limitante in quanto ne consuma molta per la sua velocità di crescita e per l’elevata evapotraspirazione: anche piccoli periodi di intensa siccità possono provocare la sua morte; invece sopporta anche per mesi periodi di sommersione delle radici.

E con questo, vado a dormire.

 

Grazie a loro, ho scritto:

 

“Latifoglie nobili dei nosti boschi” quaderni di Monti e boschi di G. Bernetti e M. Padula, Edagricole 1984

Fiori e piante del Parco del Pollino. Liliana Bernardo (Ed. Prometeo).

Tree Guide. Owen Johnson & David More. Collins.

“Elementi di fitosociologia” di A. Pirola, CLUEB 1999

http://www.ecomuseovajont.it/laboratorio-telematico/alberi/fraxinus-excelsior-l-frassino-maggiore

http://it.wikipedia.org/wiki/Fraxinus_excelsior

Appunti personali

COMMENTI 1   |   Scritto da Horty in:  Senza categoria |
Feb
07
2012
0

RNA family (part II)

[segue dal post precedente]

Ho impiegato molto tempo per scrivere questo post e il prossimo che presto arriverà perché ho dovuto studiare, e dagli lavori che leggevo emergevano altre curiosità, e così via, come avviene per le ciliegie o per i tarallini, passavo da articolo in articolo. Ho dovuto quindi dirmi “basta”. A dir la verità, qualche dubbio mi è rimasto ancora ma magari scrivendo si dissiperà.

Prima di partire, già mi auto-correggo. Nel post precedente davo una interpretazione, errata, delle proteine ARGONAUTE che a quanto parte faceva parte del complesso RISC, scrivendo: “Come gli Argonauti, sotto la guida di Giasone, cercarono il vello d’oro, le proteine ARGONAUTE, in compagnia dei fedeli compagni miRNA, cercano i loro mRNA per disattivarli”. Ebbene, la spiegazione vera del nome è ancora più strana. Le proteine ARGONAUTE sono state scoperte proprio in piante di Arabidopsis (la pianta modello per eccellenza) mutate per questo gene, cioè con il gene non funzionante, che mostravano un aspetto allungato molto particolare, simile a quello dei calamari (appunto “argonautes” in greco antico).
Continuiamo il viaggio nel mondo degli RNA da cui dipende il controllo epigenetico.

RNA catalitico (ribozimi)

Tra gli RNA coinvolti nelle regolazioni epigenetiche, oltre a quelli dell’altra volta, troviamo gli RNA catalitici. Questi hanno un’azione enzimatica ma non hanno una natura proteica come gli enzimi classici. Per questo motivo vengono chiamati “riboenzimi” (o “ribozimi”). Hanno tante funzioni, soprattutto nella replicazione del DNA, nel processamento degli mRNA e nello splicing (vedi post precedenti per la spiegazione di questa strana parola).
I ribozimi possono svolgere la loro attività catalitica senza alcuna assistenza da parte di molecole proteiche. Questo fatto mi affascinò tantissimo durante gli studi perché l’RNA in realtà risolveva il dilemma dell’uovo e della gallina (è comparso prima il DNA o le proteine? Vuoi più bene a papà o a mammà): in principio era una molecola tuttofare e probabilmente per questa ragione è comparsa prima del DNA, che proverrebbe quindi da piccole modifiche dell’RNA. Non so per quale ragione a 22 anni questo capacità di una molecola di RNA, che ricoperta da una membrana costituiva un primordiale essere vivente vagante in un brodo di nutrienti di qualche pozza sperduta sulla Terra, mi faceva impazzire.

Di esempi di ribozimi ce ne sono in abbondanza e nei più svariati esseri viventi, uomo compreso. Basti pensare alla capacità che i filamenti di mRNA hanno di auto-tagliarsi, rimaneggiarsi, accorciarsi senza l’intervento di altre molecole esterne. A titolo di curiosità, il primo esempio di catalisi da RNA è stato scoperto nel 1981 dal biologo Thomas R. Cech, mentre stava studiando un RNA del protozoo Tetrahymena thermophila (nella foto in basso una simpatica coppia). Questo ribozima risultò in grado di catalizzare il taglio e la saldatura che portano alla riduzione in lunghezza della molecola stessa. Nel 1989, Sidney Altman e Thomas R. Cech vinsero il premio Nobel per la chimica per questa scoperta.

I ribointerruttori (riboswitches)

E qui comincia il bello. Un’altra forma di autocontrollo cellulare: i ribointerruttori! Scoperti circa nove anni fa, i ribointerruttori sono corti filamenti di RNA che agiscono legandosi a diverse molecole. A seconda della quantità di legami che si stabiliscono tra molecole e ribointerruttori, questi ultimi accendono (controllo positivo) o spengono (controllo negativo) la produzione della corrispondente proteina.
I ribointerruttori stati identificati in tante specie, soprattutto in virus e batteri (ad esempio il virus dell’influenza ne ha 5 classi che regolano 15 geni, il batterio Salmonella 3 classi che controllano 34 geni), mentre negli organismi pluricellulari ne è stata finora scoperta solo una classe, anche secondo me siamo ancora all’inizio.

I ribointerruttori sono capaci di regolare l’espressione dello stesso mRNA di cui fanno parte, decidendo se il messaggio che contengono sarà tradotto in una proteina, o se invece sarà distrutto senza mai essere stato letto da un ribosoma. Un ribointerruttore si comporta proprio come un interruttore elettrico: fa parte dello stesso circuito che lui stesso è in grado di accendere o spegnere. Il “pulsante” dei ribointerruttori è costituito da due componenti: a) una regione di mRNA solitamente a monte (il dominio aptamerico) che gli consente di percepire molecola/e, e b) una sequenza regolatrice (piattaforma di espressione) che si ripiega assumendo diverse conformazioni in base al legame o meno della/e molecola/e con il dominio aptamerico (vedete la figura qui in basso) e che quindi influisce sul destino dell’mRNA andando incontro a una delle possibili riconfigurazioni strutturali.

In un ribointerruttore, il legame di una molecola (in questo caso una vitamina, Tpp, in giallo) con il dominio aptamerico (filamento verde) causa un cambiamento di conformazione della piattaforma di espressione (filamento blu) (da: Le Scienze)

Il legame di una molecola al ribointerruttore può quindi determinare un cambiamento tale che i ribosomi non si possono legare più all’mRNA e la traduzione (cioè la sintesi della proteina) è di conseguenza inibita perché le sequenze di cui il ribosoma necessita per riconoscere un ordine di lavoro valido sono mascherate. Oppure ancora, a causa del legame con una molecola, le piattaforme di espressione assumono una forma tale che si verifica l’arresto prematuro della trascrizione del messaggero. In tutti e due i casi, la proteina non viene sintetizzata, anche in presenza di un gene e di una RNA polimerasi funzionanti. Siamo quindi nel dominio dell’epigenetica, nel controllo trascrizionale o post-trascrizionale.

I biointerruttori hanno i più svariati meccanismi di funzionamento. Oltre a quelli decritti sopra, nelle piante e nei funghi sono stati scoperti ribointerruttori che, a seconda della conformazione che determinano, impediscono o favoriscono lo splicing della stessa molecola. Nel batterio Bacillus subtilis, ce n’è uno che addirittura determina o meno la auto-distruzione della molecola di mRNA di cui fa parte. In quest’ultimo caso, il legame del ribointerruttore con il glucosammino-6-fosfato induce l’autodistruzione del ribointerruttore, mentre il legame con il glucosio-6-fosfato mantiene integro il ribointerruttore e permette la sintesi della proteina corrispondente.
Altri interruttori, ancora più incredibili, rispondono all’aumento di temperatura e non a delle molecole particolari. Per esempio, quando il batterio patogeno Listeria monocytogenes invade un ospite, la temperatura elevata dell’ospite (37°C circa) fa cambiare struttura alla piattaforma di espressione del gene batterico prfA. Di conseguenza, il ribosoma si può legare e la traduzione della proteina corrispondente può avvenire. Altri ribointerruttori rispondono anche al freddo o ad atri stimoli ambientali.
Lo studio dei ribointerruttori è importante perché sostanze in grado di innescare i ribointerruttori potrebbero servire da nuovi antibiotici, in particolare se si riuscisse a distruggere la funzione di geni essenziali per la sopravvivenza e la virulenza di un organismo.

Epilogo (per ora)

Forme di RNA non codificante con nuove funzioni sono scoperte di continuo e le pubblicazioni su questi argomenti abbondano. Ciò avvalora sempre più l’ipotesi di un primitivo mondo ad RNA, dove l’RNA è comparso prima di DNA e proteine e ha avuto ruoli diversi nelle prime dorme di vita. Con il tempo, le funzioni dell’RNA sono state sempre più relegate a messaggero del DNA. Negli anni’90, le nuove tecniche di sequenziamento genico non fecero che confermare il primato del DNA sull’RNA. Oggi le cose stanno fortemente cambiando, proprio perché si è passati dalla genetica e dal suo controllo ferreo sugli organismi (considerate meri insiemi di geni), all’epigenetica, in cui i diversi tipi di RNA hanno un ruolo fondamentale e influenzano a loro volta altri meccanismi epigenetici a scala più ampia (metilazione dei geni, struttura e posizione dei cromosomi nel nucleo cellulare, controllo sui trasposoni). Ritenuto a lungo un umile messaggero, l’RNA potrebbe avere invece un grande potere nel controllo dell’espressione genica. Rimane da comprendere se tutti questi tipi di RNA, con le loro funzioni sono vestigia di un passato in cui l’RNA aveva un ruolo ancora più importante, oppure hanno un’origine recente.

La scoperta sensazionale sull’RNA fu però un’altra e cominciò da dei fiori di petunia. Ma questa è la prossima storia…

[continua]

 

Grazie a loro, ho scritto:

 

Appunti, discorsi e materiale vario.

Breaker RR, Barric JE (2007) Il potere dell’RNA. Le Scienze, 464: 96-103

Cheh TR (1987) L’RNA come enzima. Le Scienze 221: 32-41

Clancy S (2008) RNA functions. Nature Education 1(1)

Un nuovo interruttore genico a RNA (2011) Disponibile su: http://www.lescienze.it/news/2011/02/14/news/un_nuovo_interruttore_genico_a_rna-553050/

Watson D, Caudy AA, Myers RM, Witwoski JA (2007) Recombinant DNA. Genes and genomes – a short course. Third Edition. Freeman and Company & Cold Spring Harbor Laboratory Press, New York, USA. Pp. 219-246

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