Ott
30
2018
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Plart

Prima di tornare all’ “hard popular science”, che contraddistingue un po’ questo blog, vorrei chiudere l’argomento delle interrelazioni tra arte e biologia vegetale.

Nel mio lavoro, ho fatto lezioni di chimica e biochimica, botanica e fisiologia generale, di biologia generale, di storia della biologia e di educazione ambientale. Le ho fatte sempre con piacere, dalla prima all’ultima, anche se non sempre con leggerezza e facilità. La mia formazione classica mi ha permesso di fare sempre continui collegamenti con l’etimologia dei termini usati nella scienza e, naturalmente, con la storia dell’arte. Quando parliamo di biologia, è necessario sempre porre attenzione al paesaggio nel suo complesso, al cielo (anche notturno), alla bellezza, alla bellezza rovinata, alle modifiche provocate dall’uomo e alle minime sollecitazioni dei sensi per entrare in un rapporto intimo con la natura. È difficile dire quanto la natura abbia influenzato l’arte, ma sicuramente molto; in questo articolo cercherò di dare un mio piccolo contributo, documentandolo con foto spesso mie.

Un proverbio dei Sioux diceva “Gli alberi sono le colonne del mondo, quando gli ultimi alberi saranno stati tagliati, il cielo cadrà sopra di noi” ma, se ci pensiamo, già i Greci, ispirati dalla forma cilindrica degli alberi di alto fusto, trassero spunto per i famosi tre ordini di colonne per i loro templi (quelle corinzie avevano anche un capitello decorato con foglie di acanto, qui in basso, un genere di piante che ha foglie incise profondamente, con qualche somiglianza a quelle del cardo selvatico e della celidonia).

 

 

Nell’arte vesuviana del primo secolo d.C. si ritrovano bellissime nature morte, come questa cesta di fichi qui in basso, con tutte le sfumature di rosso e viola che contraddistinguevano i dipinti di Pompei. Tra i Romani, la natura morta era considerata un genere di secondaria importanza.

 

 

Il parallelismo che mi viene in mente, facendo un salto in avanti di 15 secoli, è la Canestra di frutta di Caravaggio (1599) dove, più che la voluttà dei dipinti pompeiani, predomina il realismo e il senso di decadenza, accentuati dai colori autunnali e dallo stato di maturazione avanzato dei frutti.

 

 

In realtà, già Vincenzo Carpi, aveva anticipato il genere della natura morta, che sarebbe diventato un vero e proprio genere artistico autonomo, come qui nella Fruttivendola (1580), dove aspetti naturalistici, umoristici e grotteschi sono sapientemente dosati.

 

 

Addirittura, il noto Giuseppe Arcimboldo (1526-1593) giunse a comporre ritratti umani a partire da frutta, vegetali e altri elementi botanici, come è evidente nelle sue famose Quattro stagioni.

 

 

In tempi più recenti, John Constable (1776- 1837) è stato considerato uno dei massimi paesaggisti del Romanticismo. Constable è principalmente noto per i suoi dipinti ritraenti Dedham Vale, un luogo al suo villaggio natio, rappresentato in molte sue opere. Tra le tante, a me personalmente piacciono molto Il mulino di Dedham e Studio del tronco di un albero di olmo. In quest’ultimo, Constable ha una cura maniacale per il ritidoma del tronco.

 

I fiori sono stati soggetti prediletti da alcuni pittori. Vincent Van Gogh, tra il 1788 e il 1789, dipinse varie tele con girasoli in ciascuna fase della fioritura, dal bocciolo all’appassimento. Questo soggetto diede gioia e ottimismo a Van Gogh, che utilizzò spesso come sfondo un blu/violetto e il giallo cadmio (solfuro di cadmio) per i fiori gialli, ottenendo un contrasto e un’espressività mai visti prima.

 

 

Un altro artista tormentato dai fiori fu l’impressionista Claude Monet, il quale realizzò tra il 1905 e il 1914 La serie delle ninfee, un ciclo di circa 250 dipinti. Monet disse al critico d’arte François Thiébault-Sisson: “Ho dipinto tante di queste ninfee, cambiando sempre punto d’osservazione, modificandole a seconda delle stagioni dell’anno e adattandole ai diversi effetti di luce che il mutar delle stagioni crea. E, naturalmente, l’effetto cambia costantemente, non soltanto da una stagione all’altra, ma anche da un minuto all’altro, poiché i fiori acquatici sono ben lungi dall’essere l’intero spettacolo; in realtà sono soltanto il suo accompagnamento. L’elemento base è lo specchio d’acqua il cui aspetto muta ogni istante per come brandelli di cielo vi si riflettono conferendogli vita e movimento. La nuvola che passa, la fresca brezza, la minaccia o il sopraggiungere di una tempesta, l’improvvisa folata di vento, la luce che svanisce o rifulge improvvisamente, tutte queste cose che l’occhio inesperto non nota, creano variazioni nel colore ed alterano la superficie dell’acqua: essa può essere liscia e non increspata e poi, improvvisamente, ecco un’ondulazione, un movimento che la infrange creando piccole onde quasi impercettibili, oppure sembra sgualcire lentamente la superficie conferendole l’aspetto di un grande telo di seta spruzzato d’acqua […]”

 

 

È però nell’arte rinascimentale che si ebbero gli aspetti più mirabili della raffigurazione di piante, foglie e frutti. Nella Cacciata dal Paradiso terrestre di Michelangelo (1510) mi ha sempre colpito il fatto che la corteccia e le foglie dell’albero della conoscenza del Bene e del Male mi sembrano quelle di un fico piuttosto che di un melo.

 

 

La cura maniacale nel dipingere il fogliame e accentuarne il contrasto con lo sfondo del cielo è invece tipica di Giorgione (Tramonto, 1505-1508), dove le figure dei santi quasi scompaiono tra gli elementi naturalistici.

 

 

A giocare con le condizioni climatiche fu anche Lorenzo Lotto nell’Allegoria della virtù e del vizio (1505), dove il paesaggio tempestoso del vizio (a destra) contrasta con quello chiaro e sereno della virtù (a sinistra), con un albero che separa le due parti.

 

 

Il Polittico di San Luca fu eseguito da Mantegna per l’omonima cappella della chiesa di Santa Giustina a Padova tra il 1453 e il 1454. San Luca è solo al suo scrittoio, concentrato a scrivere la storia di Gesù, in alto. I personaggi sembrano isolati soli, ognuno chiuso del suo spazio dorato ma, se si guarda con attenzione, Luca e i santi ai suoi lati poggiano, quasi come statue, sullo stesso basamento di marmo. Chi avrà perso i frutti lì a terra e, soprattutto, che frutti sono? A me sembrano nespole comuni, considerando la buccia ruvida, marrone e tomentosa. Chi le ha perse, non saprei proprio.

 

 

La cosiddetta Madonna greca (1460-1465) di Giovanni Bellini proveniente dal Palazzo Ducale di Venezia, deve il suo soprannome alla scritta in greco mhter Zeou, visibile in alto su un fondo molto compromesso. Il Bambino ha un’aria triste, poggia i piedi su un davanzale e tiene in mano un frutto (mela?), da leggere come simbolo della futura Passione.

 

 

Nello Sposalizio della Vergine, Vittore Carpaccio (1460-1526) raffigura l’episodio apocrifo dei pretendenti di Maria che rompono i bastoni, mentre lei sceglie il più anziano, Giuseppe, il cui bastone, al contrario di quello degli altri, germina.

 

 

Nella Madonna col Bambino e Santi di Carlo Crivelli (1482), la presenza di oggetti in rilievo, le chiavi, il pastorale di San Pietro, i gioielli, i coltelli che feriscono San Pietro Martire, la ricchezza dei materiali e degli ori, fino ai frutti, agli ortaggi e ai fiori (bellissime le pesche e il baccello di fava aperto) che decorano il basamento, vogliono fare delle immagini una presenza reale.

 

 

 

La bellissima Natività e adorazione dei pastori (1485) proviene invece dalla bottega di Andrea della Robbia, specializzato nella tecnica della ceramica policroma invetriata, inventata da suo zio Luca. Salta all’occhio che, alla bicromia bianco-blu tipica del suo stile, si affianca il verde e il marrone della vegetazione, dando all’insieme un senso di eleganza e bilanciamento.

 

 

Infine, anche se potremmo andare avanti all’infinito, vorrei citare Le Storie della vera croce, un ciclo di affreschi conservato ad Arezzo dipinto quasi interamente da Piero della Francesca, tra il 1452 e il 1466 che ne fece uno dei capolavori di tutta la pittura rinascimentale. Qui dovremmo probabilmente consultare un esperto in tecnologia de legno, dal momento che il ciclo narra le vicende della croce sui cui fu crocifisso Gesù, a partire dal figlio di Adamo, Set, che riceve dall’arcangelo Michele il germoglio dell’Albero della Conoscenza, da cui sarà tagliato il legno per la croce, fino al presagio delle regina di Saba e di Salomone, al ritrovamento della croce da parte di Elena, moglie dell’imperatore Costantino, alla riconquista della croce da parte dei Persiani e alla sua riconquista da parte dell’imperatore bizantino Eraclio, che la riporta a Gerusalemme. Il ciclo è affrescato con splendide immagini di alberi, di un dettaglio mai visto in precedenza.

 

 

 

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