Ott
07
2014
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Vegetali sonanti

Strumenti

 

Le idee sono tante ma il tempo sempre di meno. Per questo, a mo’ di attività di ridirezionamento di etologica memoria, oggi scrivo di vegetali sonanti. Non si tratta di teorie new-age o di neurofisiologia vegetale con piante cantanti bensì semplicemente di piante usate per costruire strumenti.

Il tutto sembrerebbe un po’ scontato, dal momento che acero, betulla, quercia, mogano, tiglio, bubinga, afrormosia, noce, pioppo, amazoukè, faggio, cedro, bambù, eucalipto e compagnia bella sono sempre stati usati per la fabbricazione di strumenti musicali, dai pianoforti alle chitarre, dai violini alle batterie, in virtù della loro funzione strutturale e del loro potere risonante. Si tratta spesso di legname pregiato, costoso e spesso purtroppo importato illegalmente (ricordo una causa che la Gibson, storica fabbrica di strumenti a corde ha dovuto affrontare qualche mese fa). Senza andare troppo sul pregiato-sconfinante nell’illegale, i legni di abete rosso e di acero sono molto adatti per lavori di liuteria, ebanisteria e intarsio. Il legno di abete rosso è il più usato per la costruzione della tavola degli strumenti a corda tranne i rari casi in cui si è utilizzato il cedro. Il legno di acero è molto bello alla vista e al tatto, in quanto si presenta liscio, fiammato o occhiolinato (ho in mente il magnifico effetto visivo dei corpi snelli e leggeri in acero delle chitarre e dei bassi elettrici Music Man). Il legno di palissandro (“rosewood” in inglese perché ha fragranze dolciastre persistenti), ben più duro e resistente, è invece usato per la costruzione di alcuni strumenti musicali come il fagotto, il controfagotto, la marimba e lo xilofono, e per le tastiere di pianoforti e strumenti a corda, oltre che per piccoli particolari e rifiniture. Sono tutti strumenti o parti di strumenti in cui l’usura fisica potrebbe comprometterne la struttura ed è quindi richiesto il palissandro per la sua durezza e resistenza.

Ci sono però strumenti che hanno proprio avuto origine da piante, in cui queste ultime non costituiscono un mero supporto. Sono questi gli strumenti più “primitivi”. Mi riferisco soprattutto ai flauti (e ad altri strumenti a fiato simili) ed alle percussioni. La musica, nata probabilmente dall’ascolto dei suoni/rumori naturali e del proprio corpo, è una componente indissolubile dell’uomo. In 2001 Odissea nello Spazio ricordo la storica scena dei due ominidi che usano ossa di animali morti per compiere i primi omicidi ma probabilmente le stesse ossa, insieme a rami, potevano essere usate per produrre i primi suoni ritmici. Senza arrivare alla fantascienza, è quasi certo che i Neanderthal producevano già musica 70.000 anni fa, oltre che a avere un linguaggio molto più articolato di quanto si pensasse. La musica accompagnava e scandiva periodi importanti dell’anno, rituali religiosi, nascite e sepolture. Per suonare, si partiva dal materiale disponibile, che doveva essere resistente ma anche leggero e maneggevole; in poche parole materiale organico. Escludendo quindi le rocce, rimanevano ossa, pelli e setole di animali e, naturalmente, materiale vegetale. Così, la musica del Paleolitico doveva essere probabilmente molto simile, anche se più scomposta, di quella suonata oggi dalla Vegetable Orchestra Onionoise, un’ensemble unica al mondo che esplora le qualità acustiche degli ortaggi (vedere il video qui sotto).

 



 

E vegetale è probabilmente stata anche l’origine del whistle irlandese e di altri flauti semplici, pifferi, zufoli e flageoletti, flauti di Pan.

 
ll dio Pan, nero e vociante, spinto da bramosie d’amore, rincorreva la bella ninfa Siringa. Questa per sottrarsi al pressante assalto si tramutò in una canna lacustre: Pan prese la canna, tagliò e ne fece uno zufolo… attraverso di esso l’orrendo clamore e la caciara del dio divennero dolce melodia …
È questa la leggenda di uno degli strumenti più antichi del mondo; la leggenda del soffio dell’uomo che diventa musica, del respiro che modula suoni ricavati da un piccolo cilindro cavo.

(©CELTICWORLD 2001 Copyright)

 

Il whistle irlandese, prima di diventare tinwhistle (“tin” perché oggi è di solito costruito in stagno), in origine si presentava come un tubicino di osso di animale o di fusto cavo aperto ad un’estremità e munito di beccuccio insufflatore. All’incirca 2000 anni a.C., era provvisto di solo 3 fori per le dita che gli rifornivano un estensione di poche note, per infine arrivare alla sua accordatura attuale in RE solo nel 1800. Incredibilmente semplice ed elegante nella sua struttura, il tinwhistle è arduo da suonare, soprattutto a livelli elevati. Come tutti gli strumenti popolari, è infatti traditore, ha un approccio semplice. Fare uscire da un semplice cannuccio le note più dolci, delicate, espressive e tenere ma anche le più riflessive, tristi e lamentose è però impresa per musicisti ispirati, abili e sensibili.

Senza andare troppo lontano, famose sono le ciaramelle di pascoliana memoria (ricordate? “Udii tra il sonno le ciaramelle, ho udito un suono di ninne nanne. Ci sono in cielo tutte le stelle, ci sono i lumi nelle capanne.”). Molto suggestive e musicali sono quelle suonate sul Pollino (qui vicino a me vedi sotto) perché hanno un suono perfettamente complementare a quello delle surduline (un tipo di zampogna).

 



 

La ciaramella strumento musicale popolare aerofono a doppia ancia, simile all’oboe. Il termine ciaramella, deriva dal diminutivo tardo latino “calamellus”, al femminile “calamilla” e “calamella”, derivante a sua volta dalla parola latina “calamus”, cioè “canna”. E, partendo appunto dalla canna, se avete passione, tempo e pazienza, potete costruirvi anche voi un flauto (qui sotto il video-tutorial)

 



 

Noi però siamo rustici e terra terra, per cui metto qui in basso due splendidi esemplari di strumenti musicali vegetali. Il primo è il flauto costruito con la carota (e splendidamente suonato), che testimonia come l’importante nella musica è la convinzione, il sentimento e, in questo caso, la giusta distanza tra i fori incisi con il coltello.

 



 

Il secondo video, qui in basso, vi fa vedere invece tutto ciò che un abile artigiano può costruire con zucche di diversa forma e dimensione, vere e proprie casse armoniche vegetale per costruire strumenti a fiato, a corda e percussivi. Davvero sorprendente!

 



 

Le percussioni etniche costruite da vegetali, di cui però non sono intenditore né conoscitore, sono davvero tante e di origine quasi sempre vegetal-africana (potete dare un’occhiata qui).

Mi viene in mente che anche un altro strumento che suono, il banjo, ormai simbolo della musica bluegrass (la versione a 5 corde), dixieland e irlandese (la versione tenore a 4 corde) ha origine africana. Oggi sembra quasi un rullante di batteria a cui è attaccato un manico di chitarra ma il banjo originale era molto simile all’odierna korá, uno strumento africano a 21 corde, la cui sonorità si situa tra quella dell’arpa e quella della chitarra, la cui cassa di risonanza è composta da mezza zucca, munito di un manico su cui vengono tese le corde, che si ripartiscono su due file parallele, separate da un cavalletto (vedete la sua foto qui).

 

Banjo

 

Altri però ipotizzano che l’antenato del banjo, e a questo punto di tutti gli strumenti a corda, sia lo n’goni (video in basso), cordofono a 3-5 corde, tipico dell’Africa occidentale. Il banjo, strumento nato nel continente americano all’inizio del 1700, deriverebbe quindi dallo n’goni a seguito della tratta atlantica degli schiavi. La prima documentazione del banjo in nord America risale al marzo 1737, quando un articolo apparso sul New York Weekly Journal raccontò di una festa alla periferia di New York in cui i neri danzavano al ritmo di percussioni, violino e “banger”.

 



 

Per celebrare l’africano origine di uno strumento ormai simbolo quasi esclusivamente della musica più bianca del pianeta (il bluegrass), il grande banjoista Bela Fleck ha pubblicato un bellissimo cd (“Tales From The Acoustic Planet, Vol. 3: Africa Sessions”) in cui va alla ricerca delle origini del sul strumento, suonando con musicisti africani (qui sotto un assaggio ma il cd merita di essere ascoltato per intero).

 



 

E ancora, il didgeridoo, strumento aborigeno australiano che i ha sempre attratto in quanto onnipresente nella sezione etnica dei cataloghi di negozi di strumenti musicali statunitensi (probabilmente per problemi di giacenza dovute alle immani dimensioni dello strumento; maledetto da spedizionieri, mogli e vicini di casa) è ricavato da un ramo di eucalipto, scelto tra quelli il cui interno è stato scavato dalle termiti. Scortecciato, ripulito e accuratamente rifinito, il simpatico ramoscello viene poi decorato e colorato con pitture tradizionali mitologiche. Gli aborigeni lo utilizzano non solo come strumento a fiato, nel quale soffiano e al tempo stesso pronunciano parole, suoni, rumori, ma anche come strumento di percussione, oppure – e questo è più temibile – a mo’ di boomerang. Suonarlo è complesso e richiede, come nel jazz, la tecnica della respirazione circolare, o fiato continuo, la quale permette di suonare uno strumento a fiato senza interrompere il flusso d’aria immesso nello stesso (vedetelo qui in basso).

 

Didgeridoo

 

Concludo con quelli che mi sembrano gli strumenti più poetici di tutti, nati dalla fantasia e dall’arte di arrangiarsi tipica della povertà delle campagne. A questa serie appartengono gli “strumenti effimeri“, così chiamati in quanto la loro durata meccanica spesso non supera la giornata stessa in cui questi strumenti vengono costruiti ed utilizzati. Paragonabili alle farfalle dalla breve vita, tra questi spiccano il flauto costruito con la canna del giunco o del sambuco ed il corno che veniva utilizzato nelle valli alpine come strumento di comunicazione o di allarme a lunga distanza. In passato, ad esempio, i fusti di sambuco, finocchio, ferula, canapa e canne palustri erano usati per costruire strumenti musicali effimeri. In particolare, il sambuco, con il suo cuore spugnoso e facile da scavare, ben si presta alla realizzazione di zufoli e flautini effimeri (io ci faccio anche le casette dei presepi ma questa è un’altra storia). Ho ascoltato per la prima volta il flauto di sambuco in un cd dei Totarella, un gruppo etnico lucano, e ne sono rimasto stupefatto. A pensarci bene anche la foglia di edera è uno strumento effimero: tenuta a fior di labbra veniva usata come un’ancia, il cui suono, potente e tenorile, viene variato modulando le labbra e può essere udito a buona distanza.

Ho sempre avuto avversione per le persone che usano i pianoforti come supporto per centrini e vasi cinesi e che appendono chitarre classiche alla pareti come quadri. Lo strumento musicale è, appunto, uno strumento (la Treccani recita: “Strumento. Nome generico di qualunque arnese necessario per compiere determinate operazioni o per svolgere un’attività fisica e tecnica”); non è una decorazione, non è nemmeno l’arte in sé, ma un semplice mezzo per esprimere qualcosa che già si ha dentro. E proprio negli strumenti effimeri di origine naturale, costruiti in poco tempo, suonati per un giorno e già logori la sera stessa, che si riassume la bellezza e la spontaneità della musica.

 

 

Grazie a loro, ho scritto:

 

Chaloampol Rujinirun, Pranee Phinyocheep, Wudhibhan Prachyabrued, Nikhom Laemsak (2005) Chemical treatment of wood for musical instruments. Part I: acoustically important properties of wood for the Ranad (Thai traditional xylophone).Wood Sci Technol (2005) 39: 77–85

Cornamuse della Franciacorta. http://www.cornamusedellafranciacorta.it/effimeri.html

Strumenti e musica tradizionale: IL WHISTLE. http://spazioinwind.libero.it/devilinthekitchen/documenti/tin%20whistle.html

Considerazioni e appunti personali derivanti da anni di suonate varie.

 

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