Dic
23
2013
2

Guinness dei primati vegetali

 

La fine dell’anno è di solito tempo di bilanci, contabilità che deve quadrare, obiettivi e prestazioni che ci si prefigge di raggiungere l’anno successivo, ecc. ecc. ecc. Allora, quale periodo migliore di questo per parlare di record? Il nostro ineluttabile antropocentrismo ci porta a considerarci i più bravi e intelligenti; a limite estendiamo qualche dote gli animali. Ci arrendiamo ad esempio davanti alle loro dimensioni, alla loro velocità e forza. E le piante?

 

Molto prima che gli esseri umani costruissero le prime case di fango, paglia e legno, le piante usavano materiale organico per creare una moltitudine di strutture avanzate. Al pari degli animali, le piante usano la velocità e le dimensioni per sbaragliare la concorrenza e sopraffare gli avversari della stessa specie e di specie diverse. Anche sulle pendici più esposte alle intemperie, le piante hanno capacità di tempistica e resistenza per sopravvivere agli inverni più amari. Nei deserti più brulli e remoti, le piante adottano strutture e meccanismi per proteggersi, e impiegano strategie chimiche contro i loro nemici.

 

Iniziamo.

 

Le foreste pluviali contengono oltre il 50% delle specie vegetali del mondo e, insieme, le foreste pluviali, boreali e temperate costituiscono il 20% della biomassa della Terra. Considerando però tutte le piante, alghe comprese, arriviamo al 97,3%. Ogni anno sulla Terra vengono prodotti per fotosintesi circa 1.000.000.000.000 tonnellate di carbonio. Cosa che gli animali solo si sognano, con il 2,7% di biomassa (1,8% solo per gli insetti e un misero 0,1% per l’uomo!). Possiamo affermare che gli organismi vincenti sono proprio loro. E’ proprio negli ecosistemi pluviali che la concorrenza tra piante si fa spietata: mentre le specie più basse vivono in condizioni di umidità e temperatura costante ma hanno la luce come fattore limitante, gli alberi più alti svettano in cima, hanno molta luce ma le loro chiome pagano il pegno di un caldo torrido e di un tasso di umidità più basso. Per questo, in una foresta l’altezza fa la differenza (il motto “altezza, mezza bellezza” vale anche per loro). Alcuni dei più grandi alberi della foresta sono i più grandi organismi viventi sulla Terra: per esempio, la sequoia gigante californiana Sequoiadendron giganteum può superare gli 80 metri di altezza e contiene abbastanza legna per costruire oltre 40 piccole case, ma meglio non dirlo in giro. L’albero più grande. La sequoia gigante “Generale Sherman”, conservata presso il Sequoia National Park della California, è alta 84 metri, ha un tronco con una circonferenza di 34 metri e pesa circa 2500 tonnellate. La beffa è che la nostra mente va sempre a elefanti e balenottere azzurre e invece l’organismo vivente più grande della Terra è invece una pianta. Gli alberi detengono anche altri due primati assoluti: le radici del fico sudafricano, che possono raggiungere i 120 m di profondità, e il più alto esemplare vivente, una sequoia sempreverde (Sequoia sempervirens) in California di 111 metri di altezza (anche se un eucalipto australiano, ora morto, arrivò a 132 metri). Infine, un primato forse meno spettacolare, un comune albero dà protezione e cibo mediamente a un centinaio di altre specie vegetali e animali che non siano microorganismi; questa funzione viene svolta anche da morto (basti pensare ai picchi e ai vari insetti xilofagi).

 

Sequioadendron giganteum. Fonte: http://lh2treeid.blogspot.it/2010/09/sequoiadendron-giganteum-giant-sequoia.html

 

Sempre rimanendo nelle foreste pluviali, le liane assorbono acqua e nutrienti dal suolo con le radici, come avviene per quasi tutte le piante, ma per arrivare in cima alle chiome degli alberi su cui crescono devono essere in grado di trasportare le sostanze nutritive attraverso i lunghissimi fusti, che possono raggiungere anche i 900 metri di lunghezza! Per questo il sistema di trasporto di acqua delle liane è il più avanzato ed efficiente in assoluto. Un’altra pianta equatoriale, il taro gigante (Alocasia robusta) possiede la superficie più grande indivisa di qualunque altra foglia sul pianeta: arriva a oltre 3 metri di lunghezza e oltre 2 metri di larghezza. Le sue enormi foglie lucide prosperano nel sottobosco delle foreste tropicali dell’Asia, disponendosi in modo tale da raccogliere la maggiore quantità possibile di luce durante tutto il giorno.

 

Alocasia robusta. Fonte: UBC Botanical Garden Forums

 

Parlando sempre di lunghezza delle foglie, le palme non sono da meno: molte specie hanno foglie lunghe anche parecchi centimetri ma prima fra tutte c’è la palma rafia (Raphia farinifera), le cui foglie possono pendere per 24 metri, praticamente quanto un edificio di sette piani. E ancora, il seme più grande di qualsiasi pianta è sempre appartenente ad una palma, il coco de mer (Lodoicea maldivica), di cui abbiamo parlato in un post di qualche mese fa, e la più grande infiorescenza è sempre di una palma, la Corypha umbraculifera.

Passando dalle dimensioni alle proprietà fisiche, il bambù è una graminacea che, oltre ad essere la specie erbacea più grande, con un fusto talmente duro e legnoso da competere con l’acciaio. E’ infatti in grado di resistere a pressioni di circa 7000 N/m2 (una pressione che potrebbe schiacciare la pietra), che la rende l’organismo vivente pianta più forte in assoluto, davanti al quale anche i muscoli più efficienti dei vertebrati impallidiscono. Ripresa dall’alto, a mo’ di un telescopio che si apre, ogni nuova sezione della pianta si estende dal centro delle vecchie sezioni. Le specie di bambù più veloci sono in grado di avanzare verso la luce ad un ritmo impressionante di oltre 5 centimetri all’ora (più di un metro al giorno!). Questa incredibile capacità di crescita rende il bambù una pianta cruciale per il controllo dell’erosione del suolo.

 

Foresta di bambù. Fonte: http://www.nuok.it/chioto/una-passeggiata-fra-le-canne-di-bambu/

 

Alcune piante, come il banksia arancione (Banksia prionotes), hanno evoluto strategie riproduttive che si basano sugli incendi. A causa della sua altezza (fino a 10 metri) e dello scarso fogliame, è in grado di sopravvivere anche alle fiamme di un incendio boschivo. Non appena il calore attorno alla sua base raggiunge i 265°C (superando così anche le spore batteriche più resistenti al calore) i suoi grandi coni ricchi di semi sono “cotti al forno”. Quando poi il fuoco diminuisce e la temperature dei coni cala, questi si aprono, permettendo ai loro semi di cadere sulla terra arida, dove germinano. Ci sono poi vere e proprie specie incendiarie, come l’eucalipto, che questi incendi per così dire li provocano, avendo evoluto del fogliame coriaceo, resinoso e oleoso che facilmente prende fuoco a temperature superiori ai 40°C. Naturalmente lo fanno per un loro vantaggio: i loro semi germinano solo se esposti al fuoco e il fuoco fa fuori tutti i loro competitori; ma questa è un’altra storia che racconterò presto.

 

Il seme più robusto di qualsiasi altra pianta in natura è quello della specie acquatica perenne Nelumbo nucifera, o loto sacro, che cresce nelle praterie umide di Asia, Medio Oriente e Australia. Prove fossile indicano che queste piante erano presenti nel primo Cretaceo – tra 145 e 100 milioni di anni fa – e sono tra le più antiche piate a fiore. Il segreto della sua sopravvivenza viene dalla capacità di emettere nuovi germogli dai rizomi, modificazioni del fusto con funzione di riserva; in questo modo, una singola pianta può crescere fino a coprire uno specchio d’acqua dolce in pochi mesi. Grazie ai rizomi che la fissano in profondità nel fango, la pianta emette foglie rotonde che galleggiano sulla superficie dell’acqua Una volta l’anno, vaste superfici coperte a loto producono fiori profumati, di circa 20 cm di diametro, di colore rosa, rosso e bianco. Dopo l’impollinazione, producono semi grandi pressappoco quanto un’oliva, di aspetto marmoreo. I semi di loto sono coperti da un rivestimento legnoso incredibilmente duro, quasi completamente impermeabile all’acqua. Dopo la caduta dalla pianta, questi semi si depositano sul fondo del loro habitat acquoso, dove possono rimanere per centinaia di anni. Alcuni di questi semi (con un’età di più di 1000 anni) sono stati recuperati da un’antica torbiera in Manciuria e, dopo essere stati esposti all’acqua, sono stati ancora in grado di germogliare . Nel tentativo di verificare la vera forza di questi semi, essi sono stati sottoposti a fiamma ossidrica, sepolti nel cemento e presi a martellate, senza tuttavia subire alcun danno.

 

Se pensiamo che il record di velocità appartenga ai ghepardi, ancora una volta, sbagliamo. Il fiore di una specie di Cornus canadensis è più veloce di una pallottola. Si tratta di una specie di corniolo perenne, tappezzante, originario dei boschi dalla costa orientale degli Stati Uniti fino al Canada. Questo “super- speeder “ si muove 100 volte più veloce della pianta carnivora venere acchiappamosche e oltre il doppio dell’ultraveloce canocchia pavone (Odontodactylus scyllarus), un crostaceo provvisto di micidiali arti raptatori che possono frantumare i gusci robusti di molluschi e crostacei, o immobilizzare pesci di taglia superiore alla sua. Tornando l corniolo, questo diffonde il suo polline come una catapulta, ad una velocità incredibile (meno di 0,5 millisecondi). Utilizzando le riprese video ad alta velocità, ricercatori del Williams College (MA, USA), hanno cronometrato le piccole esplosioni di Cornus canadensis. Il risultato è che i petali costringono gli stami ricchi di polline in una posizione ripiegata. Quando i petali si aprono, i quattro stami si dispiegano, accelerando a 2.400 volte la forza di gravità, circa 800 volte l’accelerazione che un astronauta sperimenta durante un decollo. Questi fiori sbocciano sorprendentemente in un tempo più breve di quello necessario a un proiettile per raggiungere l’uscita della canna di un fucile.

 

 



Apertura del fiore di Cornus canadensis registrata a 10.000 fotogrammi al secondo.

 

Le piante ci battono, come sappiamo bene, anche in longevità, e questo non soltanto grazie ai semi. Pinus longaeva è una specie di pino caratterizzata da estrema longevità, scoperta nelle regioni di alta quota delle montagne del sud-ovest degli Stati Uniti. Un esemplare di Pinus longaeva, soprannominato Matusalemme, localizzato nella Antica foresta dei Pini dai coni Setolosi delle montagne Bianche californiane ha un’età di oltre 4700 anni, stimata mediante la conta degli anelli di crescita annuale in un piccolo campione prelevato con la tecnica del micro-carotaggio. Questo esemplare è l’albero singolo più longevo del mondo. La più antica pianta conosciuta è però probabilmente un arbusto di creosoto (Larrea tridentata) nel deserto del Mojave, in California. Si ritiene che alcuni di questi cespugli abbiano 11.700 anni! In Tasmania, ad un esemplare di agrifoglio del re (Lomatia tasmanica), scoperto qualche anno fa, è stata attribuita l’ età di 43.600 anni: il record di longevità assoluto per un vivente. Sono numeri che hanno dell’ incredibile ma secondo alcuni botanici vi sarebbero piante che, riproducendosi per clonazione, potrebbero avere anche un milione di anni.

 

Infine – è questo è periodo – il miracolo. Mentre nutriamo seri dubbi su Lazzaro, la Selaginella lepidophylla, o falsa rosa di Gerico, è una pianta che si è adattata a sopravvivere alle condizioni di prolungata siccità del suo ambiente naturale perché, anziché modificare il proprio metabolismo, cercare di trattenere acqua durante il giorno e assorbire quanta più umidità possibile durante la notte, lascia che i propri tessuti si disidratino fortemente (fino al 5%!). Quando l’umidità del terreno e dell’aria torna a salire, anche dopo molto tempo da quando si è disidratata, questa pianta è in grado di reidratarsi e recuperare perfettamente le proprie capacità fotosintetiche e di crescita. Piante di questo tipo sono state chiamate “piante della resurrezione” (ne esistono circa 330 specie conosciute in tutto il mondo e capaci di simili adattamenti). Non sempre però le piante della resurrezione riescono a “risorgere”: nel caso della Selaginella, se la disidratazione è stata troppo rapida, o in caso di un’alternanza irregolare di condizioni di siccità e umidità, la pianta non ha il tempo di prepararsi a dovere a resistere allo stress idrico a cui è sottoposta. Allo stesso modo, le capacità di seccarsi e riprendere a vivere possono scemare nel tempo e la pianta, dopo decine di volte in cui riesce ad alternare il disseccamento e la crescita vegetativa, muore.

 

 



La resurrezione di Selaginella lepidophylla.

 

Buon anno a tutti!

 

 

Grazie a loro, ho scritto

 

A caccia delle piante più vecchie della Terra. Corriere della Sera. http://archiviostorico.corriere.it/2002/aprile/07/caccia_delle_piante_piu_vecchie_co_0_0204072496.shtml

Age shall not wither them: the oldest trees on Earth. http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5jbqPkeCraj9vmMDWjweCt0A6fKow?hl=en

Stefano Mancuso, Alessandra Viola (2013) Verde Brillante. Giunti.

The Plant Talent Show, 7 Unbelievable Things that Plants Do When You aren’t Looking. http://www.realfarmacy.com/the-plant-talent-show/#l5h07zBKsBSYjQxc.99

Will Benson (2012) Kingdom of Plants. Collins.

Appunti personali di vario genere.

 

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Dic
10
2013
1

Laboratori farmaceutici viventi

 

 

Da quando le piante sono alimento per l’uomo, esse sono state anche utilizzate come farmaci: per lenire il dolore, per digerire meglio (spesso alimenti crudi), per il benessere in generale. In realtà, già i nostri antenati primati erano in grado di automedicarsi mangiando frutti di bosco ricchi di una sostanza chimica chiamata tannino, che era – e tuttora è – una cura efficace contro i parassiti intestinali. I primati, probabilmente perché dotati di una certa autocoscienza e della capacità di manipolare l’ambiente circostante, sono abbastanza bravi a procurarsi erbe curative. Ad esempio, i gorilla sanno riconoscere e raccogliere circa 118 diverse specie di piante con varie proprietà medicinali, compresi semi ricchi di caffeina, i frutti degli alberi di cola e persino i semi velenosi delle piante appartenenti alla famiglia delle Apocynaceae (canapa del Canada), che in piccole quantità possono aiutare a non affaticare il cuore. Attraverso tentativi ed errori, i primi gruppi di cacciatori-raccoglitori sarebbero venuti a conoscenza di alcune piante che avevano proprietà curative; fu poi la tradizione orale a tramandare questo sapere di generazione in generazione. Nei reperti di un’abitazione di 77.000 anni fa (età della pietra) in Sud Africa, sono stati rinvenuti resti di varie specie di giunchi e carici, così come foglie di una pianta (Cryptocarya woodii) contente sostanze chimiche con proprietà insetticide e sarebbero quindi state adatte costruire giacigli in grado di respingere le zanzare.

Con il passar del tempo, un maggiore benessere e una migliore qualità di vita resero gli uomini più inclini ad informarsi sulle piante. Fu così che ebbe inizio l’uso di piante per ottenere rimedi curativi più complessi. Con l’aumento della complessità, la memoria non bastava più. Si cominciarono quindi a trascrivere gli ingredienti e i metodi di applicazione dei rimedi fitoterapici. Alcune di queste descrizioni “erboristiche” ci sono miracolosamente pervenute. In un documento registrato nel 1500 a.C. in Egitto, ma che si ritiene sia stato copiato da testi precedenti risalenti 3000 a.C., era ben descritta una panoramica sul mondo della medicina egizia, che prevedeva l’uso di rimedi rudimentali come una miscela di diverse erbe tritate ed essiccate su un mattone per essere inalate al fine di curare l’asma. La medicina più efficace, descritta come “un delizioso rimedio contro la morte”, prevedeva l’uso di mezza cipolla e schiuma di birra. La medicina ayurvedica dell’India antica descrive circa 1250 diverse piante medicinali nei suoi testi sanscriti. Un gran numero di questi sono stati esaminati da fitoterapisti contemporanei alla ricerca di nuovi principi attivi. In Cina, durante la dinastia Han (206 – 220 a.C.) vennero redatti i quattro classici della medicina cinese: Huang Di Nei Jing (classico dell’imperatore giallo), Nan Jing (classico delle difficoltà) Shang Han Za Bing Lun (Il libro dei danni causati dal freddo e di altre malattie) e Shen Nong Ben Cao Jing (Materia Medica del dio dell’agricoltura). In quest’ultimo, erano riportate 365 diverse forme di erba, legno, radici e pietre, insieme a varie parti di animali, con accanto il loro effetto sulla salute. E’ inoltre noto che gli antichi Greci e Romani utilizzavano varie piante medicinali.

Durante il Medioevo, i rimedi a base di erbe degli antichi stati legati ad un approccio in gran parte spirituale e, dal momento che la Chiesa era il principale centro di alfabetizzazione, molti degli antichi testi medicinali furono trascritti dai monaci insieme ai loro manoscritti religiosi. Di conseguenza, i monasteri divennero ben presto i centri locali di conoscenza medica. Nei chiostri dei conventi venivano coltivate molte delle erbe e degli arbusti necessari per preparare le cure e le pozioni prescritte, come basilico, cumino, aglio, finocchio, ecc., al punto tale che le popolazioni dei villaggi circostanti si recavano ai monasteri per ricevere le cure. Una delle principali scuole di medicina praticata dai monaci e medici popolari del Medioevo fu quella dell’umorismo, che aveva le sue radici nella medicina greca del 400 a.C., e rimase la base della medicina moderna in Europa fino al XVIII secolo. In base a questo approccio medico, la malattia era il risultato di uno squilibrio di uno dei quattro umori (bile gialla, flemma, sangue e bile nera) e a questo squilibrio si poteva rimediare usando le piante opportun. Si credeva che le piante potessero essere calde, fredde, umide o secche, e che la loro forma e struttura fossero indicative delle loro proprietà curative. Ad esempio, i semi a forma di teschio della Scutellaria spp. erano usati per curare il mal di testa, mentre le foglie a pois di Pulmonaria spp., che ricordavano appunto la forma di un polmone, servivano per il trattamento dei disturbi respiratori.

In seguito alle voci sulle capacità curative delle piante, diffuse attraverso le società scientifiche del XVI secolo, furono fondati da illustri botanici e medici degli istituti destinati esclusivamente allo studio delle piante medicinali. Il primo centro fu aperto da Luca Ghini, che fondò l’Orto Botanico dell’Università di Pisa nel 1543. Questo forniva materiale vegetale per gli studi medici e la formazione di medici e farmacisti in Italia, Francia e altri paesi occidentali. Nella prima metà del ‘600, istituti simili furono aperti a Bologna, Colonia , Praga e Oxford, e tra loro era frequente un interscambio di conoscenze, protocolli, rimedi e materiale vegetale. In questo modo, la comprensione della botanica medica si ampliò notevolmente e, con i progressi della tecnologia della stampa, furono redatte enciclopedie complete di piante medicinali e dei loro usi (chiamat in inglese “herbals”). Uno dei più famosi erboristi fu John Gerard che, nel suo “Generall Historie of Plantes” (1597), elencava gli usi medicinali di specie autoctone e piante esotiche provenienti dal Nuovo Mondo. Il suo testo descriveva l’uso di varie piante da ingerire direttamente, da adoperare in cucina oppure da posizionare sul corpo dei pazienti. Ad alcune piante si attribuivano addirittura poteri soprannaturali e il loro effetto poteva essere aumentato se queste venivano raccolte in una certa fase della luna o in alcuni precisi luoghi. Anche se molte delle descrizioni si Gerald possono apparire divertenti da leggere alla luce della nostre conoscenze mediche attuali, molti rimedi erano invece effettivamente efficaci. A titolo di esempio, il pungitopo (Ruscus aculeatus) alleviava i dolori mestruali. Difatti, questa specie, diffusa anche nei nostri boschi (e protetta: mi raccomando a non raccoglierla!), contiene due saponine steroidee, note come ruscogenina e neoruruscogenina, e diversi flavonoidi (come la rutina o rutoside), che aumentano la resistenza delle pareti capillari e ne normalizzano la permeabilità; ciò si traduce in una minore fuoriuscita di liquidi ed in una riduzione dei sintomi di sanguinamento. E ancora, l’agrimonia (Agrimonia eupatoria) era indicata per i problemi di fegato e di reni, e l’aloe (Aloe vera) era utile per purgarsi.

Con il periodo delle esplorazioni e del commercio internazionale, agli albori del XVII secolo, una pletora di specie vegetali arrivarono in Europa da Africa, Asia e Americhe. A poco a poco, i giardini botanici europei cominciarono a spostare la loro attenzione: mentre le università erano ancora concentrate sugli effetti benefici delle piante, i giardini e le organizzazioni iniziarono a mostrare le specie più attraenti della flora tropicale. Fu così che botanica e medicina divennero due settori di studio indipendenti. Tuttavia, molti giardini botanici, come i Royal Botanic Gardens britannici di Kew, non persero di vista né le qualità estetiche né quelle benefiche delle piante e, mentre le loro collezioni botaniche si riempivano della flora tropicale più inusuale, gli annali dei loro erbari cominciarono presto a comprendere una moltitudine di specie di piante straniere che potevano essere utilizzate come cibo o medicinali. All’inizio del XIX secolo, i chimici europei avevano ormai sviluppato tecniche per isolare le sostanze chimiche attive dalle piante e iniziarono a scrutare le sostanze attive in un certo numero di piante officinali ben conosciute. In particolare, erano particolarmente interessati agli effetti antidolorifici del papavero da oppio (Papaver somniferum), importato dall’India. A partire dal 1805, il farmacista tedesco Friedrich Serturner aveva escogitato un modo per estrarre il principio chimico attivo, che fu appunto chiamato “morfina”, da Morfeo, il dio del sonno. Oggi la morfina rimane ancora uno dei farmaci più efficaci per il sollievo dal dolore.

Un’altra importante pianta medicinale , che arrivò in Europa nel 1600 grazie ai missionari gesuiti del Sud America, fu la corteccia dell’albero della china (Cinchona spp.), che era stata usata per secoli dal popolo Quechua peruviano per sopportare meglio i brividi di freddo. I Quechua riducevano la corteccia in polvere per poi diluirla nel vino. Un giovane gesuita, Agostino Salumbrino, che lavorava come farmacista a Lima, ipotizzò che questo intruglio poteva anche essere utile nel trattamento delle febbri causate dalla malaria e così inviò alcuni campioni di corteccia di china a Roma, dove in quel periodo la malaria era molto diffusa. Sorprendentemente, l’intuizione si rivelò corretta e, nel 1632, la corteccia di china fu usata per trattare il primo caso di malaria. La notizia si diffuse ben presto, così come anche il suo uso profilattico contro la malaria, flagello che si pensava inestirpabile, soprattutto nelle aree paludose. Quando le nazioni europee cominciarono a stabilire colonie in Africa, Asia e Sud America, la domanda di china aumentò. Tuttavia , fu solo nel 1820 che due scienziati francesi, Pierre Pelletier e Joseph Caventou, estrassero il principio attivo e dimostrarono definitivamente che questo era in grado di uccidere alcuni stadi dell’agente eziologico della malaria (il protozoo Plasmodium spp). A questo prodotto chimico fu dato il nome di “chinino”, derivante dal nome peruviano per “corteccia”, appunto “quina-quina”. L’ uso del chinino cambiò radicalmente il corso della storia: i colonialisti potettero spingersi ulteriormente nelle regioni malariche precedentemente invalicabili dell’Africa tropicale e dell’Asia. A causa delle emergenti resistenze contro alcuni farmaci di sintesi, il chinino è stato recentemente rivalutato per combattere alcuni dei casi più gravi di malaria . Oggi, l’unico altro farmaco che rivaleggia con la sua efficacia è l’artemisinina, che è a sua volta derivata da un’altra pianta (Artemisia annua), l’assenzio dolce . Per molti secoli, questo potente farmaco era noto nella medicina cinese con il nome di “qinghaosu”, ma è stato riscoperto nel mondo occidentale solo nel 1970. Da allora, le cortecce di altri alberi sono state studiate per cercare altri composti aventi funzioni medicinali.

Originariamente utilizzato da Egizi, Greci e nativi americani per la sua capacità di alleviare il dolore, il salice era stato adocchiato dagli erboristi che, già dal 1700, cercavano di estrarre e purificare i potenti composti antidolorifici della sua corteccia. Nel 1758, un sacerdote inglese di nome Edward Stone stava masticando un ramoscello di salice quando il suo gusto amaro lo colpì e lo riportò con il pensiero al gusto della corteccia dell’albero di china. Supponendo che potessero contenere sostanze chimiche simili, Stone prese alcuni ramoscelli di salice, li seccò, li ridusse in polvere e cominciò a sperimentare gli effetti su alcuni parrocchiani-cavie affetti da febbre reumatoide. Stone scoprì che la corteccia di salice aveva sia un effetto antinfiammatorio che uno effetto analgesico. I suoi risultati furono successivamente pubblicati sulla rivista Philosophical Transactions nel 1763. Sulla base di questi risultati, circa 60 anni più tardi, nel 1828, un professore di farmacia dell’Università di Monaco di Baviera, Johann Buchner (da cui il nome del comune attrezzo di laboratorio utilizzato per effettuare filtrazioni sottovuoto) riuscì ad estrarre dalla corteccia del salice pochi grammi di cristalli puri di colore giallo e diede al composto il nome di “salicina”, dal latino “Salix”, il genere di piante a cui appartiene appunto il salice. Nel 1829, un chimico francese di nome Henri Leroux aveva ulteriormente migliorato la procedura di estrazione per produrre fino a 25 grammi di salicina da 1 chilogrammo di corteccia e, subito dopo, un chimico italiano, Raffaele Piria, che lavorava a Parigi, mise a punto un metodo per purificare una sostanza ancora più efficace, l’acido salicilico. L’ uso di acido salicilico per il trattamento di dolori e febbri si dimostrato di essere altamente efficace, anche se dosi eccessive causano irritazione alla mucosa dello stomaco. Alcuni scienziati tedeschi decisero allora di aggiungere gruppi acetile all’acido salicilico per ridurre questo doloroso effetto collaterale. Infine, nel 1897, una società farmaceutica tedesca (la Bayer) iniziò a produrre acido acetilsalicilico di sintesi. La corteccia del salice non serviva più come materiale di partenza: era nata l’aspirina, oggi uno dei farmaci più usati al mondo non solo come antidolorifico ma anche contro malattie di vasta portata come ictus, diabete, tumori, demenza e attacchi di cuore, con l’incredibile quantità di 40.000 tonnellate consumate a livello globale ogni anno.

 

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