Ott
24
2012
0

La Gaia scienza (seconda parte)

 

[…segue]

 

James Lovelock concentra l’attenzione sul concetto che sul pianeta Terra le condizioni chimico-fisiche rimangono tali da consentire la presenza della vita proprio grazie alla vita stessa. Avviene quindi un processo di autoregolazione (omeostasi) che si svolge mediante processi di feedback, ossia di retroazione, svolto in maniera spontanea dal biota (gli esseri viventi di un’area). Dunque, si tratta di un processo che considera l’aspetto evoluzionistico dell’intero. La retroazione è la capacità dei sistemi dinamici, dove dinamico indica che evolve nel tempo, di modificare le proprie caratteristiche in base ai risultati espressi dal sistema. A tale proposito, è importante sottolineare il concetto di sistema fisico, esso è un essere che risponde ad un ingresso mediante un’uscita. Nella Teoria di Gaia, riprendendo tale concetto, è chiaramente espresso che anche in natura avviene il processo di retroazione, al quale in tal caso si preferisce accordare il nome di feedback.

Un sistema in natura, quindi anche il sistema di Gaia, modifica le proprie caratteristiche in relazione agli effetti scaturiti dalle modifiche stesse. Ad esempio, un organismo vivente, ma allo stesso modo la biosfera, ha dei parametri caratteristici che vengono tenuti sotto controllo. Questi parametri devono mantenersi all’interno di una gamma di valori ben determinata al fine di garantire il benessere dell’organismo stesso. Nei sistemi biologici sono possibili due tipi di retroazione: la retroazione positiva e la retroazione negativa. La retroazione positiva tende ad accelerare un processo, quella negativa tende a rallentarlo. Quindi, in termini di feedback, quello negativo tende a mantenere la stabilità di un sistema, contrastando i cambiamenti dell’ambiente esterno, mentre quello positivo tende a modificare le condizioni del sistema per portarlo in un nuovo stato di equilibrio. Nella Teoria di Gaia la vita e la parte inanimata del pianeta, insieme, attraverso molti anelli di retroazione stabilizzano la Terra a condizioni fisico-chimiche tali da consentire la presenza della vita. Quindi, nonostante le variazioni dell’ambiente esterno gli organismi viventi e, più in generale, Gaia, mantengono costante il loro ambiente interno grazie, appunto, ai meccanismi di retroazione messi in atto dal sistema nervoso, ormonale e dal complesso sistema di flussi e cicli del pianeta. Il fisiologo americano Walter B. Cannon ebbe a dire: “I processi fisiologici coordinati che mantengono gran parte dello stato stazionario dell’organismo sono così complessi e peculiari delle creature viventi, coinvolgendone, all’occorrenza, cervello e nervi, cuore, polmoni, reni e milza, i quali lavorano insieme armoniosamente, che ho suggerito uno speciale termine per questi stati: omeostasi”.

Sulla Terra prevalgono meccanismi di retroazione negativa, ossia strategie messe a punto per contrastare o ridurre lo spostamento in una determinata direzione. I meccanismi di retroazione positiva, tipici dei sistemi instabili, ma presenti comunque anche su Gaia, invece, determinano un ulteriore incremento del processo già in atto. Un esempio di retroazione negativa preso dalla vita quotidiana è, senz’altro, il funzionamento del ferro da stiro che, grazie ad una lametta bimetallica che funge da sensore, a seconda del caldo o del freddo, chiude o apre il circuito mantenendo la temperatura intorno ad un valore prefissato. Un esempio relativo all’Ipotesi di Gaia riguarda il comportamento di un gas tipico della nostra atmosfera: l’anidride carbonica. Il suo aumento nell’atmosfera provoca un aumento di temperatura in conseguenza dell’effetto serra, ma un aumento di temperatura provoca una diminuzione di anidride carbonica. Viceversa, quando la temperatura diminuisce, tale gas torna ad aumentare (in conseguenza del fatto che con una temperatura minore diminuisce l’attività fotosintetica e prevale quella respiratoria). Un esempio relativo alla retroazione positiva si può trovare alla fine delle ere glaciali dove un temporaneo e consistente aumento delle temperature determina lo scioglimento di una parte della superficie ricoperta da ghiacci ai Poli. I ghiacci dei Poli, grazie al fatto che sono bianchi, riflettono i raggi solari . L’aumento della temperatura globale fa sciogliere i ghiacci, questo comporta l’aumento della quantità dei raggi solari assorbiti dalla Terra per diminuzione dell’effetto albedo (l’albedo è la quantità di radiazione riflessa), il che fa aumentare ulteriormente la temperatura globale e sciogliere altri ghiacci e così via. Questo sistema è sicuramente instabile e porta allo scioglimento completo dei ghiacci. Lo stesso meccanismo o processo può anche agire al contrario, sempre in retroazione positiva, portando all’espansione dei ghiacci del Polo. Le retroazioni, ove l’effetto interagisce con la causa, sono dei modelli semplificati per capire le risposte che mette in atto Gaia.

Tuttavia, la realtà è probabilmente più complessa e per avvicinarsi ad essa è meglio pensare all’idea di sinergia. Nelle sinergie sono contenute le varie retroazioni positive e negative ma, l’effetto risultante finale risulta essere maggiore della somma degli effetti che si ottengono agendo separatamente. Esistono sinergie positive e negative: – il rimboschimento dei tropici: rimuove anidride carbonica dall’aria, quindi riduce l’effetto serra, ma protegge anche il suolo dall’erosione, fornisce legname e contribuisce alla conservazione della diversità biologica; – i gas che distruggono l’ozono: aumento delle radiazioni ultraviolette e quindi aumento di temperatura, distruzione delle alghe marine che fissano anidride carbonica, e quindi ulteriore aumento di gas serra e temperatura.

Lovelock, per dimostrare questo tipo di controllo a retroazione e quindi convincere la comunità scientifica della sua nuova Teoria di Gaia, che in realtà era stata accolta molto freddamente al momento della sua pubblicazione, elaborò nel 1983 un modellino che simulasse la capacità di autoregolazione di un pianeta che avrebbe le stesse dimensioni della Terra e che orbiterebbe intorno ad una stella che si trova alla stessa distanza che separa il sole dalla Terra, ovvero un modello semplificato di Gaia in cui gli anelli di retroazione permettono l’autoregolazione del sistema. Questo modello prende il nome di “pianeta delle margherite”, in inglese “Daisyworld”. Su tale pianeta immaginario sono presenti solo due tipi di popolazione: margherite bianche e margherite nere, ovvero un pianeta completamente ricoperto da semi di margherite dai petali bianchi o neri. Le margherite bianche si adattano bene ai climi caldi, in quanto il loro colore chiaro riflette in parte la luce solare; le margherite nere sono ben adattate ai climi freddi, in quanto il loro colore scuro trattiene gran parte dei raggi solari. Il pianeta e le sue margherite formano un ecosistema (come Gaia) in grado di autoregolarsi per resistere a limitate variazioni di calore emesso dalla stella (il Sole).

 

Figura. La Teoria del Controllo e il Pianeta delle Margherite.

 

Su Daysilandia la temperatura cresce progressivamente per l’aumento dell’insolazione fino a rendere possibile la germinazione dei fiori che sopravvivono in un range dai 5 ai 40°C. Inizialmente crescono quindi sia le margherite bianche che nere; in seguito prevalgono le margherite nere, grazie al loro colore che garantisce l’assorbimento della luce e quindi una migliore fotosintesi rispetto alle altre (figura sopra). Man mano che le margherite nere si diffondono, aumenta la temperatura del pianeta, finché queste non sono più in grado di sopravvivere per l’eccessivo calore accumulato. Ecco allora che subentrano le margherite bianche che, grazie al loro colore, hanno la capacità di riflettere la luce solare (le margherite chiare, inoltre, “soffrendo” meno il caldo di quelle scure, prendono il sopravvento), adattandosi meglio all’aumento di temperatura (figura sopra). Ma, la riflessione dell’energia solare da parte di tutte le margherite bianche fa di nuovo abbassare la temperatura , e quindi finiscono per prevalere di nuovo le margherite nere.

L’idea che ne deriva è che il sistema funziona come un gigantesco termostato. Difatti, le margherite bianche e nere, grazie al diverso albedo, sono in grado di rendere stabile la temperatura di un intero pianeta semplicemente crescendo (la sola presenza di due varietà di margherite basta a regolare il clima). Tale fenomeno non è altro che il risultato inatteso di un sistema complesso. Questo semplice modello può essere complicato ulteriormente inserendo più fiori (ci sono modellini che considerano gli effetti dell’azione combinata di margherite con trenta colori diversi), fiori che si evolvono cambiando colore, conigli che nascono, si diffondono e mangiano margherite, e così via. E, il dato fondamentale è che più il modello di simulazione è complesso più la temperatura del pianeta tende ad essere mantenuta costante. Obiettivo del modello è studiare come il sistema risponde a variazioni di energia solare in arrivo, in modo da mantenere le proprie condizioni di equilibrio. Il modello dimostrerebbe come il sistema Gaia sia costituito da elementi che interagiscono tra di loro in modo complesso, quasi un superorganismo che funziona come un unico sistema autoregolante. Tutto ciò significa che la vita tende a mantenere costanti il più possibile le condizioni adatte a se stessa, in modo spontaneo, emergente e auto-organizzato in una sorta di equilibrio dinamico.

Nel caso specifico dell’atmosfera terrestre, questa è costituita da ossigeno, anidride carbonica e azoto in grandi quantità: gas che hanno una fortissima probabilità di creare molte reazioni chimiche e di combinarsi tra di loro. Su Gaia l’atmosfera è costante e tali reazioni chimiche non si esauriscono (come è avvenuto miliardi di anni fa nell’atmosfera marziana) perché la forme di vita sulla Terra mantiene l’equilibrio mediante processi inorganici e organici (ad es. attraverso i processi fotosintetici). Il significato di tutto questo è molto semplice: animali, piante, terreno, gas nell’atmosfera, calcare nel fondo dei mari, batteri che fungono da catalizzatori, movimenti delle piattaforme oceaniche e attività sismica, vulcanica e meteorica fanno tutti parte di un immenso sistema che funziona con la perfezione di un orologio, proprio come accade in un organismo vivente. E così, come un orologio o un organismo deve controllare tutte le sue parti per garantire lo stato ottimale dell’intero, così deve fare Gaia per tenersi lontana dall’equilibrio chimico che, come già detto, Lovelock spiega attraverso il concetto di omeostasi.

Ma questa è un’altra storia…

 

[continua…]

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Ott
15
2012
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Biodiversity

 

Edited by Adriano Sofo, ISBN 978-953-307-715-4, Hard cover, 138 pages, Publisher: InTech, Published: October 10, 2011 under CC BY 3.0 license, in subject Environmental Sciences
DOI: 10.5772/1836

Biodiversity is strongly affected by the rapid and accelerating changes in the global climate, which largely stem from human activity. Anthropogenic activities are causing highly influential impacts on species persistence. The sustained environmental change wildlife is experiencing may surpass the capacity of developmental, genetic, and demographic mechanisms that populations have developed to deal with these alterations. How biodiversity is perceived and maintained affects ecosystem functioning as well as how the goods and services that ecosystems provide to humans can be used. Recognizing biodiversity is essential to preserve wildlife. Furthermore, the measure, management and protection of ecosystem biodiversity requires different and innovative approaches. For all these reasons, the aim of the present book is to give an up-to-date overview of the studies on biodiversity at all levels, in order to better understand the dynamics and the mechanisms at the basis of the richness of life forms both in terrestrial (including agro-ecosystems) and marine environments.

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Book contents

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Ott
11
2012
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La Gaia scienza (prima parte)

 

 

Chi è Gaia? Che cos’è? Il che cosa è dato dal sottile guscio sferico di rocce e acqua che separa l’incandescente interno della Terra dall’atmosfera. Il chi è il tessuto interagente degli organismi viventi che nel corso di quattro miliardi di anni si sono avvicendati sulla Terra per abitarla. L’unione del che cosa e del chi, e il modo in cui l’uno condiziona l’altro, è stato chiamato “Gaia”. Questo corpo gigantesco, paragonato da Tyler Volk a un sistema fisiologico, fu chiamato Gaia da James Lovelock, su suggerimento di William Golding, premio nobel per la letteratura e autore di uno dei libri più ottimisti sul genere umano (“Il signore delle mosche”). Come spiega lo stesso Lovelock, questo nome è una metafora che rappresenta la Terra vivente. Difatti, Gaia (o Gea), dea greca della Terra, significa “pianeta vivente” e rappresenta bene l’idea di questo sistema vivo ed “intelligente” che respira e si evolve.

L’idea che la Terra sia “viva”, nel suddetto senso metaforico, ha una lunga storia. Le divinità maschili e femminili erano considerate personificazioni di specifici aspetti della natura (si trattasse del cielo o di una sorgente), e l’idea che la Terra stessa sia un’entità vivente riaffiora periodicamente nella filosofia greca. Nella mente degli uomini dell’antichità la Terra è stata sempre la generatrice e la nutrice per eccellenza (la Gaia dei greci) e il concetto di “Madre Terra” è una categoria dello spirito che permane ancora nelle grandi religioni. Leonardo da Vinci vedeva il corpo umano come microcosmo della Terra, e la Terra come macrocosmo del corpo umano. Non sapeva, come noi oggi, che il corpo umano è un macrocosmo (oggisi parla di microbiota) di minuscoli esseri viventi, ovvero batteri, virus, parassiti spesso in guerra tra loro e in numero maggiore rispetto alle cellule del nostro corpo. Lo stesso Giordano Bruno, più di 400 anni fa, fu messo al rogo per aver sostenuto che la Terra era viva, e che anche gli altri pianeti potevano esserlo. Nel 1785 il geologo James Hutton considerava il nostro pianeta come un sistema capace di autoregolazione ma ancora non concepiva un pianeta di tipo “Gaia”.

Nel mondo moderno l’accumularsi di conoscenze sull’ambiente naturale e lo sviluppo dell’ecologia hanno fatto sì che i ricercatori abbiano ipotizzato che la biosfera sia qualche cosa di più di un insieme di esseri viventi all’interno dei loro habitat naturali: il suolo, il mare e l’aria. La fede antica e la concretezza moderna si sono fuse e a fondere tutti questi spunti di intuizione in un’ipotesi compiuta, appunto lIpotesi di Gaia, è stato James Lovelock.

I molti viaggi fatti nello spazio non soltanto hanno presentato la Terra sotto una nuova veste, ma hanno fornito anche le informazioni sull’atmosfera e sulla superficie terrestre, le quali hanno dato una nuova visione delle relazioni tra la parte vivente e quella inorganica della Terra. Tutto ciò ha fatto sorgere il modello nel quale la sostanza vivente della Terra, l’aria, gli oceani, le superfici emerse formano un sistema complesso, che può essere visto come un unico organismo avente la capacità di autoregolarsi, ovvero mantenere nel nostro pianeta le condizioni adatte alla vita.

La ricerca di Gaia iniziò nei primi anni sessanta, quando la NASA cominciava a pianificare l’esplorazione dello spazio e la ricerca della vita al di fuori della Terra, attività che ebbe il suo culmine con ilviaggio marziano di due “navigatori” meccanici (atterraggio della sonda Viking su Marte). Al progetto, in veste di consulente, insieme con molti altri ingegneri, scienziati e filosofi, partecipò anche James Lovelock, chimico e scienziato inglese, con l’incarico di progettare strumenti per la rilevazione della vita su Marte. A quell’epoca, la pianificazione degli esperimenti era in gran parte basata sull’ipotesi che la testimonianza della vita su Marte sarebbe stata molto simile a quella della vita sulla Terra.

Dopo circa un anno Lovelock incominciò a porsi alcune domande molto semplici; ad esempio: “Come possiamo essere sicuri che il tipo di vita su Marte, se esiste, possa rilevarsi con degli esami basati sul genere di vita della Terra? “ Per non parlare di più difficili domande, come: “ Che cos’è la vita, e come dovrebbe essere identificata?”. La grande intuizione dello scienziato fu di analizzare il pianeta Terra per studiare le modificazioni intervenute in seguito alla presenza di forme di vita.

Nel 1965 James Lovelock, in collaborazione con la grande biologa Lynn Margulis, ipotizza Gaia partendo dal principio di equilibrio, cioè uno stato di stabilità dal quale non si può estrarre energia; tale stato di equilibrio da un punto di vista chimico rappresenterebbe la prossimità della morte, in quanto si raggiunge allorquando tutta l’energia del sistema è stata consumata. La vita di un pianeta dovrebbe quindi essere caratterizzata da un forte stato di “disequilibrio chimico” dei gas atmosferici; dove prevale l’anidride carbonica (come su Marte e Venere) ci sarebbero poche probabilità di vita organica, dato che questo un gas poco reattivo. Diverso è il caso dell’ossigeno, un gas estremamente ossidante perché in grado di attrarre verso di sé gli elettroni di legame con altri elementi.

L’atmosfera marziana è costituita da: 95% anidride carbonica, 2,7% azoto, 1,6% argon e solo 0,13% ossigeno. Al contrario, la Terra presenta una miscellanea di gas instabili e pronti a reagire tra di loro: 21% ossigeno, 0,9% argon, 78% azoto, tracce di anidride carbonica ed altri gas. Dal confronto delle diverse composizioni ci si può chiedere cosa fosse responsabile di tanta diversità e se l’atmosfera terrestre fosse stata sempre così. La navicella spaziale americana Viking che atterrò su Marte e la navicella russa Venera che atterrò su Venere non hanno mai rilevato presenza di vita. Venere ha oggi perso quasi tutto il suo idrogeno e di conseguenza è sterile e, secondo molti, senza speranza di ospitare la vita. Marte ha ancora acqua e perciò dell’idrogeno chimicamente legato, ma la sua superficie è così ossidata da essere priva delle molecole organiche dalle quali la vita può essere costruita. Ambedue i pianeti non soltanto sono morti, ma ora non potrebbero più mantenere la vita.

Sebbene noi abbiamo soltanto una piccolissima prova diretta circa la chimica della Terra quando la vita ebbe inizio, sappiamo che essa assomigliava più al presente stato chimico dei grandi pianeti esterni, Giove e Saturno, piuttosto che a Marte o a Venere. E’ probabile che miliardi di anni fa Marte, Venere e la Terra avessero composizioni simili ricche di molecole di metano, idrogeno, ammoniaca e acqua dalla quale la vita può trarre origine; ma così come il ferro arrugginisce e la gomma perde la sua elasticità, il tempo, il grande ossidante, fa in modo che anche un pianeta inaridisca e diventi sterile quando quell’elemento essenziale alla vita, l’idrogeno, si dilegua nello spazio.

L’esperimento di Miller–Urey rappresenta forse la prima dimostrazione che le molecole organiche si possono formare spontaneamente, nelle giuste condizioni ambientali a partire da sostanze inorganiche piu’ semplici. L’ esperimento fu condotto negli anni cinquanta da Stanley Miller e dal suo docente, il premio nobel Harold Urey, per dimostrare la teoria di Oparin e Haldane, i quali ipotizzavano che le condizioni della Terra primordiale avessero favorito reazioni chimiche conducenti alla formazione di composti organici a partire da componenti inorganiche.

 

 

Figura 1. (In alto) Esperimento di Stanley Miller e Harold Urey. (In basso) Mille all’opera nel 1953.

 

Per compiere l’esperimento Miller ricreò determinate condizioni ambientali che si pensava fossero presenti nella Terra primordiale. Partì dal presupposto che in quell’atmosfera non ci fosse ossigeno libero, quanto piuttosto abbondasse idrogeno, l’elemento più diffuso nell’universo, e altri gas quali metano (CH4) e amoniaca (NH3), oltre ad acqua (H2O). Con queste condizioni ed in presenza di una fonte di energia, come fulmini o la radiazione solare, si sarebbero potute originare molecole più complesse. Per l’esperimento Miller e il suo professore introdussero in una sorta di pallone-bollitore una miscela dei suddetti gas a composizione simile a quella dell’atmosfera primordiale. Nella sfera più grande l’aria era attraversata da scariche elettriche che mimavano le scariche dei fulmini dell’atmosfera primordiale. A valle di questa zona una condensazione forzata di vapore presente nell’aria, mimando l’azione delle nuvole, riportava l’acqua e tutto ciò che eventualmente in essa si fosse solubilizzato nella sfera più piccola. Per circa una settimana furono fatti susseguire altri cicli, alla fine della quale, esaminando la composizione del liquido, si scoprì che esso conteneva delle molecole che in esso precedentemente non erano presenti e, tra queste, molte che entrano nella composizione di un organismo vivente, ovvero gli aminoacidi (necessari per la costruzione delle proteine), acidi organici e inorganici, urea. Il liquido dell’esperimento (equivalente al mare della Terra di miliardi di anni fa), arricchendosi di composti organici, si trasformava in una sorta di “brodo primordiale” dal quale, in qualche maniera, potevano originarsi le prime macromolecole biologiche e le prime più semplici forme di vita. Quindi, i due scienziati avevano dimostrato che una tappa fondamentale per l’origine della vita, l’evoluzione chimica a partire da semplici molecole inorganiche era possibile nella Terra dei primordi. In seguito, la comparsa delle prime cellule consentì l’assorbimento di azoto e l’emissione di ossigeno grazie ai primi meccanismi fotosintetici in primordiali batteri, quali i cianobatteri verdi, che mutarono progressivamente la composizione gassosa del pianeta. Difatti, è proprio lo studio dell’evoluzione chimica atmosferica che rappresentò per Lovelock il punto di partenza per la formulazione dell’Ipotesi di Gaia. La Terra è un unico organismo vivente e cosciente, capace di autoequilibrarsi e in grado di controllare i parametri che la caratterizzano (temperatura, pH del suolo, ecc.) e in grado di mantenerli nelle loro condizioni ottimali. “D’improvviso la rivelazione: ho visto la Terra come un pianeta vivo. Da allora la ricerca per conoscere e comprendere il nostro pianeta è stato il Graal dal quale mi sono sentito costantemente attratto”.

Secondo questa ipotesi, incredibilmente, i 10 milioni di esseri viventi, gli oceani, le rocce, il suolo, l’aria interagiscono tra di loro come se si trovassero in una grande rete, con reciproci impulsi. L’ idea è di considerare il pianeta un unico organismo vivente, all’ interno del quale tutti gli organismi coesistono e interagiscono come delle cellule, dentro catene, reti, flussi e meccanismi di ricircolo, dando il loro contributo per mantenere un costante equilibrio, assicurando, in tal modo, la vita. L’Ipotesi di Gaia permise dunque a Lovelock di superare, o meglio di integrare la teoria classica evoluzionista. Darwin sosteneva che l’ambiente modellasse la vita, Lovelock osserva come anche la vita modella l’ambiente. Queste due prospettive vanno lette in interazione fra loro e sono in grado di generare una spirale di cambiamento. Nasce quindi la geofisiologia, una nuova scienza olistica che si occupa delle modalità di funzionamento della Terra concepita come un organismo vivente. Da un punto di vista epistemologico la geofisiologia ignora la tradizionale distinzione tra scienze della Terra (chimica, mineralogia, ecc.) e scienze della vita (biologia, medicina, ecc.) che separa l’evoluzione delle rocce e l’evoluzione della vita. La geofisiologia considera invece i due processi come un’unica scienza evolutiva. Per il geofisiologo la vita è la proprietà di un sistema circoscritto aperto ad un flusso di energia e di materia, in grado di mantenere costanti le proprie condizioni interne, malgrado il mutare delle condizioni esterne, attraverso processi di autoregolazione (omeostasi). Questa autoregolazione permette al sistema di mantenersi lontano da quello stato di equilibrio chimico, che corrisponderebbe alla sua morte. Queste dinamiche complesse di autoregolazione, che sono alla base dell’Ipotesi di Gaia, furono esemplificate con un semplice modellino che illustra la capacità di reazione di un sistema al cambiamento: Il Daisyworld.

[segue…]

 

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Ott
05
2012
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Punti caldi

 

 

Dopo aver letto “L’orologiaio cieco” di Richard Dawkins (bello), il mio libro di genetica vegetale (meno bello) e vari libri di fantascienza, mi sono sorti ultimamente un po’ di dubbi, spero causati dall’ultima categoria di libri.

Nel genoma delle piante (e non solo delle piante) sembrano esserci hot spots (punti caldi), cioè sequenze nucleotidiche dove le mutazioni avvengono più frequentemente. In base a questa informazione, differenti tratti di DNA hanno quindi una diversa capacità di mutare. Ora, le mutazioni non sono eventi casuali nel vero senso della parola. Mi spiego meglio: il fatto che avvengano dipende da precisi fattori (non casuali), primo tra tutti l’instabilità dell’appaiamento delle basi azotate tra i due filamenti di DNA durante la replicazione, un meccanismo che ogni tanto vacilla. Questa instabilità è dovuta probabilmente alla radioattività naturale terrestre, soprattutto dovuto a particolari tipi di rocce (es. granito) e alle radiazioni solari (molte) e cosmiche (poche) provevienti dallo spazio che arrivano sulla superficie terrestre. Questo lo affermava anche Isaac Asimov nei suoi libri sulla Fondazione, di cui mi fido ciecamente, non fosse altro perché i suoi libri hanno affiancato quelli di testo durante gli anni universitari ed erano molto graditi dai docenti.

Tornando alle mutazioni; casuali sono invece i siti del DNA dove possono avvenire.  Quindi, non è l’evento di per sé casuale ma solo la sua posizione nel genoma. Considerando che i genomi delle piante sono spesso molto più grandi di quelli umani e che le piante sono sottoposte a tutti i tipi possibili di condizioni ambientali sfavorevoli proprio perché sessili, mi aspetterei mutazioni sparse ovunque nel genoma; ma non è così: anche nelle piante ci sono gli hot spots.

Il mio dubbio è questo: esistono davvero gli hot spots dove si concentrano molte mutazioni (non so, perché sono più esposte agli agenti mutageni, sono più protette o hanno strutture o sono costituiti tipi di sequenze che li “corazzano”…) oppure noi troviamo le mutazioni più frequentemente negli hot spots solo perché a quei siti è “permesso” mutare, cioè perché le mutazioni che insorgono là sono più tollerate dagli organismi? E i siti che non mutano sono tali perché effettivamente non avvengono mutazioni là oppure perché le eventuali mutazioni che compaiono in questi siti più “conservati” sono selezionate negativamente e quindi gli organismi che le possiedono non sopravvivono o non si riproducono?

Sarà ignoranza mia, ma ancora non ho le idee chiare… Esistono quindi veri hot spots, tanto pubblicizzati nei libri di genetica, o sono solo un’illusione dovuta agli eventi contingenti della selezione naturale?

 

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