Feb
28
2011
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Autumn artificial leaves

 


Un giorno di qualche anno fa, una ricercatrice mi disse: “So di non sapere e questa mia consapevolezza mi rende umile e desiderosa di conoscenza”. Rimasi basito da questa estemporanea manifestazione, ma allo stesso tempo ricordavo di averla già sentita da qualcun altro. Terrorizzato dalla reazione di una eventuale mia (ironica?) osservazione, e considerando lo statuario volto bellicoso davanti a me, non ribattei. Dubitavo di lei, come al solito a ragione, ma me ne accorsi troppo tardi per non pagarne le amare conseguenze. Ricordo ancora però quella frase, attribuita da Platone a Socrate poco prima della sua condanna a morte, e mi è sovvenuta anche ieri, facendo lezione. Mentre parlavo, la lingua toccava dove il dente doleva e non vedevo l’ora di finire per controllare.

La lezione era sull’uso di acqua da parte delle piante, ma a livello molecolare. Come sempre dicevo ai ragazzi dell’istituto alberghiero in cui insegnavo, le piante “mangiano” acqua, nel senso che la utilizzano come materia per nutrirsi. Pochi ci pensano, ma l’ossigeno gassoso (O2) deriva quasi interamente da quello dell’acqua (H2O). In parole povere, le piante (e alcuni batteri fotosintetici) sono gli unici organismi in grado di compiere questo processo “ossigenico”, cioè che “produce ossigeno”. Durante l’università rimasi affascinato da questo fatto e quando trovai la prima spiegazione su un libro di fisiologia, divorai quelle pagine. Curiosamente, l’ultima domanda che il professore mi fece all’esame, quella della lode per intenderci, riguardava proprio questo argomento, ma io, in preda all’emozione del momento (chiedete ad un innamorato della sua amata e vedete cosa accade) mi confusi e quindi la sbagliai, ma questa è un’altra storia.

Tornando alla mia lezione, mi sono trovato davanti alla domanda su come le piante facciano a scindere l’acqua e a utilizzarne i suoi atomi ed elettroni. L’O2 è un materiale di scarto, nel senso che le piante lo liberano in atmosfera attraverso gli stomi (vedi post precedente), ma anche questo non è del tutto vero, dal momento che anche loro respirano! L’idrogeno in forma ionica (protoni, H+) e i relativi elettroni (e–) seguono invece un’altra sorte e fungono da motore energetico principale per la fotosintesi. Nelle piante ossigeniche, quindi, la fotosintesi parte proprio dalla scissione delle molecole di acqua (anche se gli elettroni e i protoni potrebbero provenire anche da altri composti che non siano necessariamente acqua).
Il processo è sorprendente, dal momento che l’acqua è un composto molto stabile e le piante sono le uniche a compiere la sua scissione in natura (meccanismo di water-splitting o, da un altro punto di vista, oxygen-evolution). Come in tutti i processi “strani”, sono coinvolti meccanismi e atomi “strani”. In questo caso il manganese (Mn) è il protagonista di un complesso proteico in cui avviene una serie di reazioni di ossidazione dell’acqua che portano fino alla scissione. Il funzionamento del processo è illustrato in modo approfondito qui e somiglia un po’ a quello di una ruota di mulino a cinque fasi che gira a spese di energia luminosa (servono almeno 8 fotoni per ogni molecola di acqua) invece che di vento. Lo vedete anche qui in basso.

Ora giriamo apparentemente pagina.

Si stima che il consumo globale di energia aumenterà di almeno due volte entro il 2050 e ci sarà un uso spropositato di carbone fossile. Da questo è facile comprendere che è necessario continuare ad investire sulle energie rinnovabili. E cosa c’è di più rinnovabile dell’energia solare? Il problema è catturare questa energia. Il sole irraggia da tutta la sua superficie, ma solo una piccolissima parte di questa energia investe la Terra e solo l’1% di questa viene catturata dalle piante per fare fotosintesi, e infine solo una parte di questo 1% (se tutto va bene, la metà) è accumulata negli zuccheri che la pianta produce; il resto è perso come calore e speso per far andare avanti tutto il processo. Il vantaggio delle piante è che non richiedono manutenzione, costano poco e accumulano l’energia; cose impensabili per gli attuali pannelli fotovoltaici, i quali hanno un’efficienza maggiore, ma devono essere prodotti e riparati a spese nostre, e sono costosi.

Dato che le piante producono il proprio combustibile, gli zuccheri, a partire da luce solare, aria e acqua, senza generare emissioni dannose, alcuni ricercatori stanno progettando “foglie artificiali” che, in modo simile, potrebbero convertire la radiazione solare e l’acqua in H2, utilizzabile per alimentare i veicoli o produrre elettricità e calore. Il problema è che le cose che appaiono “semplici”, come appunto una foglia, in realtà non lo sono. Una foglia è un organo estremamente complesso, regolabile ed efficiente e, al contrario delle macchine, in grado di auto-ripararsi. La “foglia artificiale” dovrebbe catturare luce (fotoni) mediante un materiale fotovoltaico in forma di sottili fogli flessibili composti da nanocavi di silicio, scindere le molecole di acqua in H+, elettroni e O2 mediante questa energia raccolta, eliminare l’ossigeno, e ricombinare ioni idrogeno ed elettroni per formare molecole di idrogeno gassoso (H2). Questa forma di idrogeno potrebbe poi essere usata come combustibile. I catalizzatori da usare (che sostituiscono il compito svolto dalle decine di enzimi della fotosintesi fogliare) dovrebbero poi essere economici, resistenti ed efficienti…

Parallelismi tra foglia artificiale e circuito elettrico (fonte: Lewis e Nocera, 2006)

La separazione di protoni (H+), elettroni e ossigeno in una foglia artificiale (fonte: Gray, 2009)


Compito arduo imitare la natura, insomma.

Le prime reazioni della fotosintesi convertono la luce solare in una corrente, con produzione di ossigeno gassoso (O2). Dal momento che, prima o poi, l’ossigeno ossiderà gli zuccheri prodotti dalla stessa pianta (dato che respirano quello che producono, se no cosa produrrebbero a fare?), il ciclo si chiude e non si hanno rilasci netti di anidride carbonica (CO2) in atmosfera. Imitare la fotosintesi significherebbe quindi avere energia netta gratis senza aumentare l’effetto serra. L’ostacolo maggiore, e qui ritorniamo all’inizio del post, è proprio il complesso che scinde l’acqua, il quale è estremamente efficiente nelle foglie ma nessuno è ancora riuscito a creare in laboratorio. Senza di quello non si va da nessuna parte. Un altro ostacolo risiede nella separazione delle cariche + e –, che nelle cellule delle foglie sono efficacemente divise (non si devono ricombinare subito, se no addio fotosintesi): da una parte il flusso di protoni positivi (H+) e dall’altra gli elettroni negativi (e–). Soltanto alla fine questi si devono ricombinare, e la loro ricombinazione deve fornire energia che le cellule usano per produrre altre sostanze (ATP e NADPH), che a loro volta serviranno per sintetizzare gli zuccheri. Se non vi ho ancora scocciato e siete interessati, leggete questo articolo per capire come i ricercatori stanno affrontando il problema.

A distanza di anni, mi chiedo come abbia fatto allora ad appassionarmi al complesso di scissione dell’acqua!

 

Grazie a loro, ho scritto:

 

Harry B. Gray (2009) Powering the planet with solar fuel. Nature Chemistry 1, 7 (2009)

Nathan S. Lewis and Daniel G. Nocera (2006) Powering the planet: chemical challenges in solar energy utilization. PNAS, October 24, vol. 103, no. 43: 15729–15735

Oxygen Evolution, http://4e.plantphys.net/article.php?ch=7&id=72

Plant Biochemistry, Third edition. Hans-Walter Heldt. Elsevier

Platone, Apologia, 20 e-23 c. Disponibile su :http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaS/SOCRATE_%20SO%20DI%20NON%20SAPERE%20%28PLATO.htm

Reinventare la foglia (2011) Le Scienze gennaio 2011, n. 509. Disponibile su: http://lescienze.espresso.repubblica.it/articolo/Reinventare_la_foglia/1346043

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Feb
21
2011
2

Bocche da “straspirare” e “sfotosintetizzare”

 

La domanda è sorta spontanea, o quasi. Parlavo con una ragazza di traspirazione delle piante (per favore non fate commenti su questa frase che avete appena letto! So già quello che state pensando) e si discuteva su come facessero a regolare così bene la loro perdita di acqua in momenti e ambienti difficili per loro. La discussione, che aveva raggiunto, a detta di sornioni e sghignazzanti presenti, toni anche animosi è stata subito smorzata dalla mia domanda: “Stiamo parlando di meccanismi complessi ma, alla fine, qual è il segnale che permette alle piante di aprire o chiudere gli stomi?”. Il silenzio è calato. Come spesso succede, si costruiscono edifici senza aver comprato prima il terreno. Tutti, me compreso, si sono resi conto che non lo sapevano.


Struttura di uno stoma (fonte: http://www.shef.ac.uk/aps/mbiolsci/hungerford-dan/background.html).


Stoma di petalo di Auricola (ingrandito 3000 volte) (Gunning & Steer, 1996).

Facciamo un passo indietro: le piante “superiori” hanno sulla superficie delle foglie delle piccolissime e numerosissime aperture (da 100 a 300 per ogni mm2, ma un mio amico ne ho contate una volta anche 400 sulle foglie di kiwi!) chiamate “stomi” (“bocche”, dal greco). Questi permettono la fuoriuscita dell’acqua, assorbita dalle radici, trasportata nel fusto e nelle foglie, e infine traspirata in aria. L’acqua utilizzata come “cibo” per la fotosintesi è pochissima rispetto a quella che viene eliminata nuovamente dalla pianta, che appunto la riporta in atmosfera attraverso gli stomi fogliari (il rapporto è di circa 1/500!). Curioso osservare che la stessa tattica è utilizzata dagli insetti per respirare (ma là gli stomi si chiamano “stigmi”. Forse un caso di convergenza adattativa? Chiamo in causa gli evoluzionisti). Se volete vedere dove si trovano gli stomi, andate qui.

 

Divertente lezioncina sul trasporto di acqua nelle piante

Una delle più belle canzoni mai composte sugli stomi

 

Quando una pianta attraversa momenti difficili, se ad esempio cresce su suoli molto salati o si trova in carenza di acqua, tende a chiudere gli stomi, per trattenere quella poca che riesce ad assorbire. A questo punto si potrebbe pensare che basterebbe tenere le porte chiuse per risolvere il problema. Ma, come chiudere le frontiere non risolve il problema degli immigrati, chiudere gli stomi presenta molti svantaggi. Il principale è che gli stomi servono anche per gli scambi dei gas, e in particolare per l’ingresso nella foglia di anidride carbonica (CO2), l’altro principale ingrediente, oltre l’acqua e la luce, necessario perché le foglie  facciano fotosintesi. Anche l’ossigeno, prodotti terminale della fotosintesi, esce dagli stomi. Di conseguenza, le piante non possono tenere gli stomi sempre chiusi, se no morirebbero lo stesso. E fin qui, tutto quadra.

In una pianta in buona salute, con la sua acquccia garantita, i suoi nutrientucci e la sua luciuccia, gli stomi si chiudono completamente solo al calare del sole (le piante grasse fanno il contrario, ma per un motivo diverso). Questo è logico, in quanto di notte la pianta non fotosintetizza per assenza di luce, e quindi non ha bisogno di CO2: conviene tenere gli stomi chiusi per non perdere acqua. All’alba, le piante hanno recuperato tutta l’acqua (o quasi tutta, a seconda di quanta ce n’è) che hanno perso di giorno. Alla luce, riaprono lentamente gli stomi e son pronte per affrontare un nuovo giorno.


Diversi tipi di stomi visualizzati in sezioni trasversali di foglie (fonte: MB Kirkhan, Principles of soil and plant water relations. Elsevier).

 

Il problema è capire cosa li fa aprire? La luce del sole, l’acqua, l’avvio della fotosintesi? O altro?

Gli stomi sono delle aperture regolabili che interrompono l’epidermide delle foglie. L’apertura (o rima o poro) stomatica è circondata da due cellule di guardia, a forma di fagiolo (o di rene, o di palloncino allungato, o ancora di salsicciotto, che oltretutto si abbina bene con i fagioli). Accanto alle due cellule di guardia, ci sono due (o più, a seconda della specie) cellule compagne che aiutano le prime ad aprire e chiudere lo stoma. Sono le cellule di guardia a “decidere” cosa fare: funzionano come delle valvole super-specializzate e in grado di rispondere a svariati fattori ambientali, come la quantità e la qualità di luce, la temperatura, il livello di acqua delle foglie, la CO2 della camera sottostomatica (lo spazio nella foglia immediatamente sotto lo stoma), i ritmi endogeni e circadiani, l’umidità e la temperatura dell’aria, e la quantità di acqua nel suolo.

Ma quale evento è a monte della catena? Chi è causa? Chi conseguenza?

In pratica, succede che le cellule di guardia accumulano soluti, questi richiamano acqua per osmosi; le cellule si rigonfiano (passano dal 40 al 100% del loro volume massimo) e, a causa della loro forma a fagiolo e di alcuni ispessimenti nella loro parte, si discostano a livello della parte centrale (vedete qui). Lo stoma allora si apre.

Se la pianta ha tutto ciò che le serve ma le manca la luce, gli stomi comunque non si aprono. La luce blu (e in minor misura quella rossa) che incide sulle cellule di guardia è fondamentale per aprire gli stomi. Per motivi ancora misteriosi, invece, la luce verde accoppiata a quella blu sembra favorirne la chiusura. L’effetto della luce blu è però difficile da studiare, perché questa stimola anche la fotosintesi. Di nuovo: è la luce blu diretta o è un quid di fotosintetico che fa aprire gli stomi? Sembra essere proprio la luce blu in sé: essa è catturata d fotorecettori, il cui cambiamento di stato attiva delle pompe ioniche (proteine che fanno entrare o uscire soluti dalle cellule), le cellule accumulano soluti per assorbimento o per produzione ex novo (soprattutto potassio, cloro e saccarosio) e di conseguenza l’acqua entra nelle cellule di guardia, che si rigonfiano. I recettori della luce blu nelle cellule di guardia potrebbero essere alcuni carotenoidi (la zeaxantina si contende il primato nei lavori che ho letto). In mutanti per il gene npq1, ad esempio, non si forma zeaxantina e la risposta stomatica alla luce blu è completamente assente; in doppi mutanti per i geni phot1/phot2, che codificano per le fototropine, proteine foto-recettrici per la luce blu, gli stomi rispondono meno alla luce. Molti hanno dimostrato che altri recettori per la luce blu, i criptocromi, hanno un ruolo fondamentale nell’apertura degli stomi, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Il controllo della luce è però anche indiretto: più luce provoca più fotosintesi, che si pappa più CO2, quest’ultima allora diminuisce nella camera sottostomatica, gli stomi se ne accorgono (come, ancora non si sa) e si aprono. Teleologicamente, lo fanno per assorbire altra CO2 dall’aria, ma, si sa, le piante non pensano (o sì? Qui si aprirebbe un lungo dibattito che mi riservo per un altro post).

Recentemente, diversi ricercatori hanno cercato di scoprire la catena di eventi che porta dalla recezione dello stimolo alla risposta stomatica. Molte sembrano essere le cause: l’acqua ossigenata, gli ioni calcio, il diacilglicerolo e svariati enzimi coinvolti nella trasmissione del segnale, e/o nell’attivazione/disattivazione delle pompe ioniche delle cellule di guardia. Anche i cambiamenti intracellulari di pH delle cellule di guardia sembrano essere importanti.

Questo finora descritto succede quando le cose vanno bene… ma quando l’ambiente diventa ostile? Quando ad esempio una pianta ha poca acqua a disposizione, non si può permettere di perderne, e gli stomi si chiudono. Questa risposta è mediata da un fito-ormone prodotto nelle radici, l’acido abscissico (ABA), che agisce principalmente sulle pompe ioniche delle cellule di guardia, le quali perdono così soluti e acqua, sgonfiandosi. Come i nostri ormoni, i fito-ormoni sono prodotti in un organo ma agiscono poi a distanza dopo essere trasportati dalla linfa. L’ABA non è il solo che fa chiudere gli stomi: un ruolo importante ce l’hanno anche segnali elettrochimici e idraulici, come anche l’umidità e la temperatura dell’aria. Curiosamente, anche in una stessa foglia, alcuni stomi si chiudono completamente, altri in parte; e poi, alcuni immediatamente, altri con un movimento lento. Il perché di questa disposizione a “patchwork” (la chiamano proprio così) non si conosce ancora. Anche le piante che hanno sufficiente acqua, di solito riducono l’apertura stomatica (o chiudono una parte dei loro stomi) nelle ora più calde della giornata, in modo da non perdere troppa acqua e nello stesso tempo consentire la fotosintesi. Nel caso dell’ABA, uno dei mediatori nella cascata di eventi che avviene nelle cellule è un composto chiamato ADC-ribosio ciclico.

Tutti i presenti sembrano essere soddisfatti; mi fermo. Mi rivolgo alla ragazza e, per farmi perdonare (e dimenticare), la invito a cena.

Grazie a loro, ho scritto:

Amnon Schwartz, Wei-Hua Wut, Edward B. Tuckers, Sarah M. Assmann (1994) Inhibition of inward K+ channels and stomatal response by abscisic acid: an intracellular locus of phytohormone action. Proc. Natl. Acad. Sci. USA, Vol. 91, pp. 4019-4023.

Brian E. S. Gunning and Martin W. Steer (1996) Plant Cell Biology, Structure and Function. Jones and Bartlett Publisher, London, UK.

Hans Lambers, F. Stuart Chapin III, Thijs L. Pons (2008) Plant Physiological Ecology, Second Edition. Springer Science+Business, New York, USA.

Julian I. Schroeder (2003) Knockout of the guard cell K+ out channel and stomatal movements. Proc. Natl. Acad. Sci. USA,Vol. 100, No. 9, pp. 4976–4977.

Lincoln Taiz, Eduardo Zeiger (2007) Plant Physiology, 4rd ed. Sinauer associates, Inc., Publisher, MA, USA.

Miguel A. Quinones, Zhenmin Lu, Eduardo Zeiger (1996) Close correspondence between the action spectra for the blue light responses of the guard cell and coleoptile chloroplasts, and the spectra for blue light-dependent stomatal opening and coleoptile phototropism. Proc. Natl. Acad. Sci. USA, Vol. 93, pp. 2224-2228.

William H. Outlaw Jr., Oliver H. Lowry (1977) Organic acid and potassium accumulation in guard cells during stomatal opening. Proc. Natl. Acad. Sci. USA, Vol. 74, No. 10, pp. 4434-4438.

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Feb
12
2011
1

La rivincita del rettile vegetale

 

Questo che pubblico oggi è il post che ho scritto per il Carnevale della Biodiversità 2011. Spero vi piaccia. Il tema di quest’anno era “Biodiversità e adattamenti; la lotta costante per il cibo e per lo spazio“. Grazie a Lisa per l’invito e a Marco per la pazienza!


 

 

 

 

 

Sono stato a lungo indeciso sull’argomento di questo post (grazie Lisa!). Ho vagato con la mente dalle “exaptations” di gouldiana concezione applicate all’assorbimento di metalli pesanti al “barcoding” delle specie vegetali, ma mi sembravano idee astratte e artificiali nate da campus del nuovo mondo e da laboratori metropolitani, e invece a me serviva un’idea “terra terra”, nel senso etimologico e buono del termine, e non filosofica o “troppo molecolare”. Alla fine, l’ “illuminazione” è arrivata, come sempre, dall’esperienza vissuta. Ho ripescato le foto delle mie camminate e l’idea, latente, era là (Foto 1-3). La lotta costante per il cibo e lo spazio era sotto i miei occhi ma, temporaneamente distratto dal panino con la frittata nello zaino, non me n’ero accorto. Qualche mese fa, a Serra di Crispo sul Massiccio del Pollino, alzando lo sguardo, avevo detto al mio amico di viaggio che la scena mi sembrava quella di un assedio di faggi alle ultime roccaforti di pino. In realtà, non era un pino qualunque, ma il simbolo del Parco Nazionale del Pollino: il pino loricato. Gli alberi ergevano come fantasmi pallidi e corazzati, corazzati come coccodrilli (loricati entrambi!), dai lenti movimenti (anche le foreste si muovono!) come le tartarughe, testimoni di un passato remoto. Ma basta con la pseudo-poesia e torniamo alla xerofila scienza.

Il pino loricato (Pinus leucodermis Antoine) è un albero raro nonché uno dei più antichi dal punto di vista filogenetico. E’ presente soprattutto all’interno del Parco del Pollino, dov’è presente dalla fascia montana a quella alto-montana ma scende nel settore sud-ovest anche a quote più basse fino a raggiungere i 535 s.l.m. Nel 1863, il botanico tedesco Hermann Christ identificò un nuovo pino da campioni provenienti da ristrette zone montuose della Serbia, del Montenegro e della Grecia settentrionale, e lo chiamò “Pinus heldreichii Christ.”, in onore del suo scopritore, nonché grande botanico, Thoedor Von Heldreich. Nello stesso periodo, un albero simile venne descritto dal botanico Antoine che, evidenziando il colore chiaro della corteccia, gli assegnò il nome di Pinus leucodermis. Nel 1906, il botanico napoletano Biagio Longo studiò i campioni da lui raccolti sul Pollino attribuendoli alla specie “Pinus Leucodermis Antoine”, e coniò il nome di “pino loricato”. Notò infatti che la corteccia della pianta adulta si fessurava in caratteristiche placche poligonali che ricordavano la corazza dei soldati romani, chiamata appunto “lorica” (“thõreka”, “torace”, in greco antico, e “lorica” in latino) (Foto 4). Insomma, un pino la cui corazza è indispensabile per riuscire a resistere alle intemperie che flagellano i crinali del Pollino.

Foto 1. Pini loricati “sotto assedio” (Serra di Crispo, Parco Nazionale del Pollino; foto mie).


Foto 2. Pini loricati a Serra di Crispo (foto M. Campochiaro).


Foto 3. “Sentinelle” isolate di pino loricato “scrutano” l’esercito di faggi sottostante (Serra di Crispo; foto mia e A. Castelmezzano).


 

 

Foto 4. Lorica e pigne di pini loricati a Pietra Castello (a sinistra in alto;  foto A. Castelmezzano) e a Serra di Crispo (le restanti, foto mie).


Ma, alla fine, si tratta di una specie con due varietà o di due specie distinte? Sono due ma la loro origine è la stessa. Due, proprio in base alla classica e scolastica enunciazione di specie di Dobzhansky e Mayr: oramai non si incrociano più reciprocamente. L’areale della specie ancestrale sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo perché fossili e prove certe non ce ne sono) sia stato quello balcanico. I semi alati e leggeri, lunghi fino a circa 6-7 mm, sarebbero giunti nell’Italia meridionale nel Pliocene (da 5,3 a 2,6 milioni di anni fa, quando era un vero e proprio pantano), probabilmente per saltazione, cioè un po’ svolazzando, un po’ impantanandosi e germinando nei vari isolotti che incontravano, fino ad arrivare agli adolescenti Appennini (Foto 5). In seguito si sarebbe verificata una speciazione allopatrica: secessione e ciascuna specie per conto suo. Anche visivamente, si nota subito che in Pinus leucodermis la corteccia dei rami giovani si mantiene per molti anni liscia, lucente, di color cenere chiaro con areole squamiformi che ricordano la pelle di un rettile, e gli strobili (che a me è sempre piaciuto chiamare pigne) hanno la parte esterna della squama (apofisi) di forma piramidale; invece in Pinus heldreichii la corteccia dei rami giovani si scurisce precocemente e gli strobili presentano un’apofisi appiattita.

Foto 5. L’Italia Nel Pliocene (fonte:http://www.naturamediterraneo.com/forum/topic.asp?TOPIC_ID=47403).

Il Pollino è un massiccio molto particolare e ricco di biodiversità perché tra le sue montagne convivono allegramente elementi di tipo artico-alpino, elementi medio-europei, mediterranei, balcanici oltre ad un consistente numero di endemismi e di specie sopravvissute alla flora del Terziario (da 40 a 2,5 milioni di anni fa, di cui il Pliocene è l’epoca finale). Il pino loricato è stato ed è ancora definito “un paleo-endemismo terziario con areale anfi-adriatico”, “un elemento balcanico ad areale disgiunto”, “un relitto delle foreste a conifere mediterranee della penisola Balcanica e dell’Appennino meridionale”. Ma continuiamo pure a denigrarlo, e chiamiamolo anche “fossile vivente”, “relitto delle ere glaciali”, “scherzo della natura”, “stranezza del Creato”, ecc. ecc., tanto queste definizioni-clichès sono difficilmente dimostrabili e spesso scientificamente inesatte, e quindi non lo tangono più di tanto.

In Italia, la specie, ampiamente diffusa sui rilievi carbonatici sub-montani e montani dell’Appennino meridionale nei periodi secchi del Pliocene, ha subito un rapido declino nelle fasi glaciali del Quaternario che si manifestarono nell’Appennino meridionale, con modificazioni climatiche in senso fresco e umido (una mazzata per le conifere, amanti dei climi freddi ma secchi). Oggi, a fare buona compagnia al pino loricato ci sono altre specie che prosperavano nel Terziario, come l’agrifoglio, l’alloro e il tasso, guarda caso tutte specie arboree ricchissime di significati simbolici fino al Medioevo, come se la loro antica origine li abbia resi venerabili (imprinting degli alberi pliocenici sugli ominidi? Questa la suggeriamo a Roberto Giacobbo). Queste specie hanno trovato rifugio nella vegetazione post-glaciale e si rinvengono prevalentemente nella fascia di transizione tra i boschi di querce mesofile (vegetazione sannitica) e la faggeta (vegetazione subatlantica). Attualmente, l’areale di Pinus leucodermis gravita nel settore di influenza tirrenica (più freddo del suo compagno adriatico, con cui sul Pollino va a braccetto) dove prevalgono substrati carbonatici (calcari e dolomie del Mesozoico) ad elevata xericità, associati ad una morfologia rupestre. La specie è quindi esigente: preferisce il freddo, ma secco, e i substrati calcarei.

Ora rivolgo l’attenzione ai suoi avversari per il cibo e lo spazio, se no, tra incidentali e divagazioni varie, esco fuori tema e vengo bacchettato. Dopo l’ultima glaciazione del Quaternario (conclusasi 13500 anni fa), quando il ghiaccio copriva ancora molte zone montane, le foreste appenniniche erano limitate alle zone centro-meridionali. La facevano da padrone due specie oggi a distribuzione più marginale: guarda caso, proprio il pino loricato e il pino silano (Pinus nigra subsp. laricio; da calabrese, propendo campanilisticamente verso il secondo), con presenza sporadica di abete rosso (Picea abies L.). Successivamente, a causa del progressivo riscaldamento, comparvero i primi consorzi misti ad abete bianco (Abies alba Mill.) e faggio (Fagus sylvatica L.), l’abete rosso (quasi) scomparve gradualmente dagli Appennini, e le pinete si spostarono sempre più verso sud. Ma il caldo avanzava, e tra 10300 e 8800 anni fa (inizio dell’Olocene) era l’abete bianco che spopolava sugli Appennini, diventando così predominante. I pini si ritirarono verso la sommità dei rilievi. Nel frattempo, il subdolo faggio, di provenienza atlantica e desideroso di climi oceanici, all’arrivo delle glaciazioni si ritirò sulle montagne del Sud, ma era pronto a ripartire e ad espandersi con l’arrivo della bella stagione postglaciale, a danno delle querce e dei pini. E infatti, con l’instaurarsi di climi sempre più caldi e umidi (tra 7500 e 4500 anni fa), la diffusione del faggio sugli Appennini meridionali subì una forte accelerazione, raggiungendo l’optimum climatico circa 2.500 anni fa.

Foto 6. Pendii xerotermici a Serra di Crispo (foto in alto Mirella Campochiaro, le restanti mie).


Oggi, la fascia montana del Parco del Pollino, è anche detta subatlantica in quanto, al di sopra dei 1000 m, c’è un clima che si avvicina a quello diffuso nel Nord-Ovest dell’Europa, in prossimità dell’Oceano Atlantico, dove infatti le pianure, poste a livello del mare, ospitano estese faggete, analogamente alle montagne appenniniche. Tale clima è caratterizzato da discreta piovosità estiva e frequenza di nebbie, unitamente a temperature non eccessivamente alte. Qui, i boschi a faggio rappresentano le formazioni predominanti fra i 1100 e i 1800-1900 m; sul versante tirrenico, più fresco, non sono rare formazioni anche miste al di sotto di tale fascia, fino agli 800 m, e in ambienti di forra, anche a 500 m. Sul versante nord del Parco (Monte Sparviere, Piano di Iannace), le faggete vedono anche una cospicua partecipazione di abete bianco, il quale, presso il Bosco Vaccarizzo, scende a quote eccezionalmente basse. L’abete bianco, nel Parco, non si spinge quasi mai sui crinali più alti, eccetto che su Serra di Crispo, e quindi difficilmente compete con il pino loricato, anche perché predilige substrati argillosi. Le faggete dei massicci carbonatici del Pollino, invece, ampie e rigogliose, sfiorano i 2000 m e sono a diretto contatto con il loricato.

Questo, al contrario del faggio, non forma mai dei popolamenti chiusi, ma piuttosto delle pinete aperte in stazioni sfavorevoli al faggio, come ad esempio sui pendii xerotermici rivestiti da praterie (Monte La Caccia, Montea, Serra di Crispo, ecc.) (Foto 6-7). Frequenti sono gli esemplari isolati, anche di notevoli dimensioni, su costoni rocciosi, cenge rupestri (Pollinello, Colle Dragone). Grazie alle notevoli capacità di adattamento all’aridità del suolo, il loricato riesce a vivere al di sopra del limite del faggio; infatti, sulle rupi del versante meridionale della Catena del Pollino, diversi sono gli alberi vetusti attorno ai 2100 m. La bellezza unica dei boschi del Pollino è proprio questa: è l’unico esempio appenninico di una certa consistenza in cui una formazione di conifere arboree (il loricato) si colloca al di sopra della faggeta. C’è poco fare: le due specie sono in guerra per lo spazio ma anche per il “cibo”: entrambi preferiscono i substrati calcarei e scappano a radici levate davanti ai terreni argillosi. Dopo quella dai Balcani, quindi, la seconda migrazione, forzata, del loricato è stata quella in senso “verticale”, a causa della pressione del faggio, più forte e invadente.

Foto 7. Anfiteatri naturali di pino loricato a Serra di Crispo (foto mie).


Da biologo rompiscatole, mi chiedo però se tutte queste migrazioni del loricato siano dovute solo a cambiamenti climatici/microclimatici o anche ad altro. Cerco in bibliografia e trovo che il loricato si riproduce in modo estremamente faticoso e lento: la germinazione del seme richiede di due anni, a fronte dei 10-15 giorni occorrenti ai semi delle altre conifere, e l’accrescimento risulta 6-7 volte più lento che in altre specie di conifere (caso unico)! D’altro canto, è un albero molto longevo, potendo arrivare anche a 900-1000 anni (esemplari sul versante calabrese del Pollino) e quindi ha parecchio tempo per lasciare discendenti. Il suo legno è estremamente resinoso e ricchissimo di sostanze fenoliche ad effetto antimicrobico, antiparassitario e allelopatico. Non a caso, questa caratteristica porta a processi di marcescenza molto lenti dopo la morte della pianta, con l’ulteriore e suggestivo effetto di piante non più in vita ma che non crollano al suolo e restano erette per anni, trasformandosi in veri e propri monumenti arborei, “generatori” di nicchie ecologiche per insetti, nematodi e uccelli (Foto 8). Anche da vivo, però, la corteccia del loricato ospita una fauna varia e preziosa, come Buprestis splendens, un buprestide, unico in Italia, legato ai climi freschi mediterranei, ma anche altri coleotteri (buprestidi, curculionidi, scotilidi e ostomidi), o farfalle, tra cui il satiride Erebia gorge; e ancora, vertebrati come lo scoiattolo meridionale melanico (snello ed elegantissimo, con la sua pettorina bianca), la lucertola muraiola che si crogiola al sole sulle radici sporgenti, e uccelli come la cinciallegra, la cincia mora, il codirosso, il merlo del collare, il picchio nero e il picchio muratore (Foto 9).

Foto 8. Anche da morto, il pino loricato ha una funzione importantissima per il bosco, sia dal punto di vista ecologico che paesaggistico (foto mie).

Foto 9. Buprestis splendes (http://www.biolib.cz/en/image/id67420/), scoiattolo melanico (Sciurus vulgaris var. meridionalis)  (fonte: http://www.provediemozioni.it/index.php?pag=Scoiattoli) e maschio di crociere comune (Loxia curvirostra L.; foto mia).


Quale specie delle due “vincerà” la competizione per lo spazio? Il tutto dipende dalla scala di tempo considerata. Nell’immediato sembra che il loricato abbia la meglio sul faggio in quanto a difese dovute al suo metabolismo secondario (es. sostanze allelochimiche o repellenti per gli erbivori, escrezione di essudati radicali acidi che solubilizzino nutrienti difficilmente disponibili, ecc.). La sua resina, acida e ricca di composti fenolici semplici e complessi, è un forte antimicrobico che lo preserva da marciumi e batteriosi. Un’altra barriera efficace contro i patogeni e contro gli agenti atmosferici (fulmini compresi) è costituita dalla sua corteccia fortemente lignificata e suberificata. La struttura aghiforme e la disposizione compatta delle foglie ed il colore chiaro della corteccia, poi, permettono al pino loricato di riflettere la maggior parte della forte luce incidente (a 2000 m non si scherza), conservando solo quella che serve per la fotosintesi ed evitando così fenomeni di foto-inibizione. E’ stato altresì trovato che la traspirazione fogliare e la conduttanza stomatica in questa specie sono finemente regolate, per evitare di perdere troppa acqua a causa della bassa umidità dell’aria delle zone in cui cresce. Infine, le radici, robuste e plastiche allo stesso tempo, permettono alle piante di crescere e ancorarsi su rocce calcaree inaccessibili ad altre specie arboree, spesso su pendii fortemente scoscesi e su crinali che circondano precipizi. In un’ottica più ampia però, il faggio mostra una maggiore plasticità fenotipica (efficienza fotosintetica, struttura dei vasi xilematici, tasso di crescita) che gli permette un maggiore successo competitivo nelle condizioni attuali. E la mazzata finale al pino (e all’abete bianco) è costituita dal fatto che si riproduce non solo da seme ma per polloni (Foto 10), e che il suo legno non è poi così pregiato (gli abeti bianchi appenninici, ma anche i pini, hanno conosciuto molto bene le scuri umane! Recenti studi dendrometrici e dendrocronologici hanno dimostrato che anche l’uomo ed il pascolo hanno fatto la loro parte, insediando ancora di più la sopravvivenza del pino loricato (con qualche eccezione, come l’enorme incendio del 1948 sul monte della sulla Spina che lo ha favorito).

Foto 10. Faggi sui Piani di Acquafredda, Parco del Pollino. Si notano i numerosi polloni, diventati quasi tutti fusti principali (foto mia).

Il rettile vegetale ha perso? 4, 5… E’ quasi ko, messo al tappeto nell’angolino calcareo e secco del ring. 6, 7… E’ alle corde, ovunque attorniato da faggi. 8, 9… ma ecco che si rialza e pensa: “Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare” (Belushi J. et al., 1978).

Le condizioni climatiche e geopolitiche sono mutevoli, così come le specie che più o meno le seguono, e la situazione sta cambiando. Il clima del meridione, sta diventando sempre più caldo, ma anche più secco, e andando avanti così il faggio si ritirerà ed il loricato scenderà di nuovo in basso. Sembra quindi che ci sia un lento ma inesorabile ritorno al clima pliocenico e che il faggio avrà la peggio perché richiede un regime pluviometrico con precipitazioni uniformi durante tutto il periodo vegetativo. Osservazioni recenti testimoniano che, soprattutto al Sud, il faggio si sta ritirando, anche se lentamente. Un’altra prova a favore di questa ipotesi è che in Calabria (Pollino meridionale, Verbicaro, Orsomarso), dove il clima è più secco a causa della barriere costituita dal Pollino stesso, il pino loricato non si limita a permanere nella fascia subalpina, ma scende ampiamente nella zona del faggio, tanto da entrare quasi a contatto con la lecceta. E il faggio sta cedendo anche su altri fronti. Ad esempio, sul Monte Sparviere, nulla catena orientale del Massiccio del Pollino, una volta c’era la faggeta, poi soppiantata dal bosco misto a prevalenza di ontani ed aceri. Non per altro qui sono rimasti anche gli abeti bianchi, xerofili, favoriti  dalla presenza di rocce marnoso-arenacee, non adatte al loricato.

Il pino loricato, in declino fino ad una ventina di anni fa, appare ora in recupero grazie alla forte riduzione del pascolo e alla maggiore protezione (anche se a volte rimane sulla carta) e, specialmente nei suoi habitat di elezione, non è infrequente un attivo rinnovamento. Continuando così, potrebbe di nuovo espandere il suo areale, ripartendo proprio dalle montagne dell’Appennino meridionale. Anche per questo il pino loricato mi ricorda i coccodrilli, che restano nascosti sott’acqua e appena adocchiano la preda hanno dei rapidi scatti. Chi vivrà, magari 900 anni come i grandi Patriarchi del Pollino, vedrà.

Foto 11. A sinistra (foto A. Castelmezzano), pini loricati immersi nella faggeta (Timpa del ladro, Parco del Pollino). A destra (foto mia), splendido esemplare di pino loricato a Serra di Crispo.


Grazie a loro, ho scritto:

  1. Avolio S (1992) L’acquisizione forestale del pino loricato (Pinus leucoderma Antoine). Estratto da L’Italia Forestale e Montana Anno XLVII – Fase. n. 4: 211-227, Luglio-Agosto 1992. Firenze, Tipografia Coppini.
  2. Bernardo L (2010). Pino loricato: non chiamiamolo “fossile vivente”! Apollinea, nov-dic 2010: 16-17.
  3. Bernardo L (2001). Fiori e Piante del Parco del Pollino, 3a edizione. Edizioni Prometeo.
  4. Castelmezzano, A. (2011) Escursioni, chat e  chiacchierate  con il grande esperto A. Castelmezzano (anche se non lui non lo sa!)
  5. I boschi montani di conifere (2007) Quaderni Habitat. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare – Museo Friulano di Storia Naturale.
  6. Il pino loricato. Reperibile su http://www.terranostrabasilicata.it/default.aspx?pagina=pino
  7. Lambers H, Stuart Chapin III F, Pons TL (2008) Plant Physiological Ecology – Second Edition. Springer-Verlag.
  8. Lange W, Janezic TS, Spanoudaki M. (1994) Cembratrienols and other components of white bark pine (Pinus heldreichii) oleoresin. Phytochemistry 35: 1277-1279.
  9. Le faggete appenniniche (2006) Quaderni Habitat. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare – Museo Friulano di Storia Naturale.
  10. Omasa K, Nouchi I, De Kok LJ (2005) Plant Responses to Air Pollution and Global Change. Springer-Verlag.
  11. Schulze E-D, Beck E, Müller-Hohenstein K (2002) Plant Ecology. Springer-Verlag.
  12. Tassi F (1998) Studi sulla fauna del Pollino. Studi per la conservazione della natura, vol. 26; Ente Autonomo Parco Nazionale D’Abruzzo. Ed. Almadue srl, Roma.
  13. Thompson JD (2005) Plant Evolution in the Mediterranean. Oxford University Press.
  14. TodaroL, Andreu L, D’Alessandro CM, Gutiérrez E, Cherubini P, Saracino A (2007) Response of Pinus leucodermis to climate and anthropogenic activity in the National Park of Pollino (Basilicata, Southern Italy). Biological Conservation 137: 507-519.
  15. Willis KJ, McElwain JC (2002) The Evolution of Plants. Oxford University Press.
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Feb
03
2011
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La valutazione dell’attività scientifica di un ricercatore è un ambito complesso, e proprio per questo bello da studiare. Dai (fortunati) professori entrati molti anni fa in università ed enti di ricerca sotto casa, aiamo passati adesso a ricercatori che si aggiornano per tutta la vita, che hanno un rapido accesso alle informazioni e alle pubblicazioni scientifiche, che si formano all’estero e spesso rimangono, nonostante tutto, precari o penalizzati rispetto ad altre professioni. Sembra quindi che i nuovi ricercatori debbano essere più bravi di quelli “vecchi”. Io credo però che così non sia. Ritengo che, almeno in Europa, l’ingresso nel mondo della ricerca, almeno negli enti pubblici, sia un fenomeno aleatorio e dipenda spesso da cause che nons empre risiedono nel merito scientifico. Proprio perché il sistema della ricerca sta diventando più complesso e globale, le scoperte viaggiano per e-mail e non sono più esclusivamente comunicate nei congressi, e più persone possono scaricare pubblicazioni on-line che prima erano in forma cartacea all’interno di biblioteche “fisiche” e meno accessibili, diventare ricercatore (per mestiere, non per indole!) dipende anche dal caso; quindi è fondamentale trovarsi al posto giusto al momento giusto. In Italia la situazione, si sa, è difficilissima (per mancanza di fondi, di cultura scientifica, presenza di “pressioni” a vari livelli), ma sento da colleghi stranieri  che ciò che si guadagna in termini di maggiore trasparenza si paga in termini di maggiore competitività.

Con l’aumento dell’informazione e della diffusione di internet, sono aumentate anche le riviste scientifiche, sempre più specialistiche e di difficile accesso, alcune delle quali ormai pubblicano solo on-line e non più su carta, ciascuna con il suo impact factor (un indice generale dell’importanza della rivista). Bisogna allora abbonarsi su internet per leggere gli articoli, ma gli abbonamenti costano, e tanto, anche perché ci si abbona a pacchetti di riviste. Per fortuna, più ostacoli ci sono e più l’ingegno si aguzza e quindi, sul sito Google Scholar si possono spesso trovare gratis  intere pubblicazioni, per non parlare delle miriadi di siti più o meno legali da cui scaricare interi libri (in quel caso il fattore limitante diventa il tempo, nel senso che non basterebbe una vita per leggerli tutti!).

Se usate Google Scholar e Mozilla come browser, è utilissimo il programmino Scholar H-Index Calculator. Lo potete installare facilmente, poi riavviate Mozilla e, quando farete una ricerca per nome e cognome su Google Scholar, vi apparirà agiamente un riquadro celeste con vari indici. Il più usato di questi è l’indice h, che si basa non solo sul numero di citazioni, ma anche su quante volte sono state citate, nonché sul numero ed importanza degli autori. Il tutto è facile per Google, dal momento che ha a disposizione una marea di dati in rete. Se siete curiosi e avete pubblicato, calcolate i vostri indici e auto-valutatevi!



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