Feb
12
2013
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Coccoooo… cocco bello, cocco fresco

Questo articolo e’ stato scritto, in occasione del Darwin day 2013,  per il Carnevale della Biodiversita’ – ottava edizione, dal tema: “L’isola che c’è”. Per la rassegna completa di tutti i blog e post che partecipano al Carnevale vai sul blog Leucophaea, di Marco Ferrari.

 

 

Domenica, 7 ottobre 1492

[…] In questo giorno al levar del sole, la caravella Niña, che precedeva le altre perché più spedita, e tutte andavano a gara per vedere terra per primi […]

 

Giovedì, 11 ottobre 1492

 […] Videro gabbiani e un giunco verde vicino alla nave. Quelli della caravella Pinta scorsero un altro piccolo tronco, intagliato a quanto sembrava con ferro, e un pezzo di altra canna e altra erba, di quella di terra e una piccola tavola. Quelli della caravella Niña videro anche altri segnali di terra e un piccolo ramoscello carico di rose canine. Visti che ebbero questi segnali, tutti si rincuorarono e andarono lieti. […]

 

Venerdì, 12 ottobre 1492

 […] Alle due, passata la mezzanotte, apparve terra […] Giunti a terra, videro alberi verdissimi, molte fonti e frutti di varie sorte. […]

 

 

E’ così che Cristoforo Colombo raccontava, nel suo diario di bordo, l’approdo alle sue agognate Indie, che però non erano “altro” che S. Salvador e isole annesse (Cuba e Haiti). Un errore di poche migliaia di chilometri ma giustificabile per le conoscenze dell’epoca, che segnò l’arrivo dell’uomo occidentale in America. Nonostante non fosse un botanico, Colombo era un grande osservatore e quindi notò immediatamente la ricchezza e la diversità delle nuove terre, sia in senso di biodiversità che di diversità rispetto alle piante che conosceva, e ne faceva riferimento spesso nelle pagine del suo diario.

 

Non soltanto Colombo, ma anche molti altri navigatori di quel periodo facevano ben attenzione agli uccelli e ai vegetali che galleggiavano in acqua. In condizioni di scarsità di provviste e di acqua, con ciurme malate ed esasperate, spesso veri e propri covi di criminali, prive di medicinali e di donne, l’avvistamento della terra era di primaria importanza, se non altro per la vita stessa dell’ammiraglio e per le eventuali ricompense di regnanti finanziatori seduti sulle comode poltrone dei loro regni. E così, l’occhio del navigante era ben allenato a individuare subito uccelli di terra ma che di giorno andavano in mare per cibarsi, come gabbiani e cormorani, e a discernere una semplice erbetta galleggiante di alghe morte da residui di piante provenienti dalla costa. Questi erano infatti chiari segnali del vicino approdo. Ed è qui che entriamo in scena noi. Perché tra questi residui galleggianti ci sono i più grandi semi del mondo: le noci di cocco. I primi esploratori spagnoli le chiamarono “coco”, che significa “faccia di scimmia“, perché le tre tacche (occhi) sul dado peloso assomigliano un po’ alla testa e alla faccia pelosa di una scimmia.

 

La noce di cocco più comune è il seme della palma da cocco (Cocos nucifera), ma ce n’è anche un’altra un po’ meno conosciuta che è il seme della Lodoicea maldivica seychellarum, il cui trinomio topografico mi instilla inspiegabilmente un’incredibile invidia. Il seme di quest’ultima palma è il più grande e pesante in assoluto, ha una forma bifida e ricorda il bacino di una donna (da cui anche l’altro bel nome di Lodoicea callypige, cioè “dalle belle natiche”, di rimembranza ellenistica). Prima del 1800 si pensava che i semi giungessero dagli abissi marini e che si trattasse dei frutti di un albero che cresceva sotto la superficie del mare, conosciuto anche in Occidente come “cocco di mare” (“coco de mer” in francese). L’unico problema è che il seme maturo di Lodoicea non ha un mallo molto sviluppato (il mallo è il mesocarpo polposo tipico di una drupa, presente anche nelle nostre noci), ha un peso specifico maggiore di quello dell’acqua marina, e quindi non galleggia molto e non è trasportato dalle correnti marine se non per poche centinaia di metri. Per cui, dimentichiamocelo per ora.

 

La noce di cocco “classica” (quella, per intenderci, di Cocos nucifera, di cui da ora in poi parleremo) ha invece di un mallo fibroso molto leggero, resistente e ricco di aria che avvolge la noce, permettendo il suo galleggiamento per periodi di tempo molto lunghi e il trasporto mediante le correnti acquatiche (idrocoria). L’acqua marina, che distrugge la maggior parte degli altri semi, impiega molto tempo prima di penetrare nel mallo e nel guscio legnoso delle noci di cocco, le quali possono tranquillamente resistere fino a tre mesi in mare, a volte trasportate per centinaia di chilometri. Superato il punto di risacca delle spiagge di altre isole, i simpatici semini, sotto l’acqua piovana, germinano. E, dopo alcuni anni, il ciclo lentamente ricomincia. I frutti sono talmente duri e pesanti (fino a 2 chili e 30 cm di altezza) che ogni anno fanno fuori circa 1000 incauti turisti (non oso pensare ai possibili epigrammi), molti più delle vittime degli squali ad esempio.

 

 

Noci di cocco (in alto) di Lodoicea callypige e (in basso) di Cocos nucifera.

 

 

Come negli animali, anche tra le piante ci sono specie a strategia r e specie a strategia K . Le prime sono di solito annuali e monocarpiche adattate a riprodursi rapidamente e a colonizzare habitat nuovi e spesso transitori, dove la competizione è bassa. Le seconde hanno una vita più lunga, sono spesso perenni e policarpiche, e conservano una parte della loro energia per la loro crescita vegetativa. Nel nostro caso, con frutti grandi e numerosi, ci troviamo di fronte ad una specie a strategia K, per nulla affatto pioniera, in grado di crescere velocemente come una palma sa fare, ma solo in determinate condizioni di luce, acqua e temperatura; quindi abbastanza esigente.

 

Molte specie vegetali sono in grado di disperdersi per mezzo dell’acqua. E’ noto che la vita terrestre, e questo vale anche per le piante, derivi dall’acqua. Per questo, le prime piante eterosporee (con gameti “maschili” e “femminili” diversi in forma, dimensione e disposizione) avevano megaspore femminili che si disperdevano efficientemente attraverso l’acqua. Le felci che vivevano nelle paludi del Carbonifero (350 milioni di anni fa) si propagavano presumibilmente per idrocoria. Ad esempio, Lepidocarpon , una felce arborea che raggiugeva dimensioni imponenti (fino a 40 m di altezza), estintasi alla fine del Carbonifero, aveva una megaspora che funzionava prima da paracadute e poi, una volta in acqua, era trasportata dal vento come una vela (e la vela era un organo dal leggiadro e semplice nome di “lepidostrobofillo”).

 

Megasporangio di Lepidocarpon. Fonte: http://www.ucmp.berkeley.edu/IB181/VPL/Lyco/Lyco3.html

 

 

I discendenti tuttora viventi di queste felci arboree, appartenenti al genere Isoetales, presentano poche specie che vivono in zone umide con ruscellamento. Ancora oggi, molte specie di felci sono prevalentemente acquatiche o perlomeno idrofile. Molti sono i generi di piante acquatiche che si riproducono vegetativamente per frammentazione, quali Elodea, Hydrilla e Lagariosiphon, tristemente diventate “erbacce acquatiche” dopo la loro introduzione in nuovi ambienti da parte dell’uomo, ma l’idrocoria, cioè la dispersione di semi e frutti per mezzo dell’acqua, è tipica di poche specie.

 

I frutti e i semi dispersi in acqua sono relativamente grandi, e a volte molto grandi. Le noci di cocco siamesi di Lodoicea maldivica pesano tutte e due sui 15-30 chili e possono arrivare a mezzo metro di lunghezza, conquistando così il primato di frutto (e seme) più grande del mondo! Le più ordinarie noci di cocco di Cocos nucifera hanno un seme soltanto, ma comunque bello grosso. I frutti sono infatti drupe ovali voluminose, con tre spigoli arrotondati e sono provvisti di tre involucri: il più esterno è un’epidermide (epicarpo) liscia e sottile, inizialmente di colore verde, che a maturazione diventa prima giallastra e poi bruna; al di sotto di essa vi è lo spesso strato fibroso (mesocarpo) che racchiude al suo interno un endocarpo legnoso durissimo; nelle noci immature esso racchiude a sua volta l’endosperma oleoso (tessuto ricco di nutrienti destinato ad alimentare l’embrione), o mandorla – in pratica, quello tanto reclamizzato ad alta voce sulle bancarelle – cavo all’interno e ripieno di un succo opalescente lattiginoso, di sapore fresco e zuccherino (“succo di cocco”), che diminuisce in quantità man mano che il frutto matura e che l’italiano medio fa fuoriuscire infilzando con delicatezza un cacciavite in uno dei tre fori con l’aiuto di un martello. L’embrione è situato all’interno ad un’estremità della mandorla. I tre strati nel loro insieme costituiscono il frutto; l’endosperma e l’embrione rappresentano invece il seme. L’involucro legnoso durissimo presenta alla base tre pori dalla superficie morbida, detti occhi: è da uno di essi che il germoglio originatosi dall’embrione avrà la possibilità, perforandolo, di fuoriuscire dal guscio, dando così origine alla nuova plantula.

 

Anche da sola, la noce di cocco è contemporaneamente una bevanda, un alimento e una fibra. Fornisce acqua, latte e olio per cucinare. Il chiaro e dolciastro succo di cocco è una bevanda rinfrescante. Dal momento che questo fa parte dell’endosperma, il quale nutre l’embrione, il succo è ricco di fitormoni per la crescita (le citochinine e altri composti simili sono stati identificati per la prima volta proprio dal succo di cocco, e questo è spesso addizionato ai terreni di crescita usati nelle colture cellulari vegetali e nella micropropagazione). Il latte di cocco, un po’ come il nostrano di mandorla, si ottiene invece mescolando la polpa grattugiata con acqua e poi spremendo il tutto per far uscire il liquido; esso insaporisce e arricchisce zuppe, salse e impasti. Per estrarre l’olio dalle noci di cocco, usato direttamente per cucinare nei paesi tropicali e per preparare altri prodotti nei paesi occidentali, si deve spaccare la noce matura. Dopo essiccazione al sole, la polpa, detta copra, viene separata dal guscio per estrarne l’olio. Infine, le fibre dell’endocarpo legnoso, costituite da piccoli fili lignificati lunghi circa a 1 mm, una volta lavorate, raggiungono anche i 30 cm di lunghezza; sono leggere, elastiche e resistenti all’abrasione, e vengono utilizzate per fabbricare pennelli, scope e cordame.

 

Alcune specie idrocore: (a) Lodoicea maldivica, (b) Cocos nucifera, (c) Entada gigas. Fonte: Ingrouille e Eddie (2006).

 

 

Oltre alle noci di cocco, un altro caso di gigantismo è quello di Entada gigas, una pianta rampicante legnosa che produce legumi di 12 centimetri di larghezza e più di 1 m di lunghezza. Il frutto si rompe in segmenti fluttuanti, ciascuno contenente un grosso seme, che si riversano nei corsi d’acqua. Si suppone sia stata l’osservazione dei semi di Entada sulle spiagge delle Azzorre che abbia spinto Cristoforo Colombo a ipotizzare l’esistenza di un continente di là dall’Atlntico. Ancora oggi, gli inglesi chiamano quasi semi “seabens” perché arrivano sulle loro coste trasportati dalla corrente del Golfo.

 

Alcuni semi e frutti di piante idrocore galleggiano grazie alle della presenza di camere d’aria, come nel frutto di Xanthium o nel falso frutto di Atriplex. Il frutto-scatola (Barringtonia asiatica) del sud-est asiatico può rimanere a galla per almeno due anni ed è anche utilizzato come galleggiante per la pesca.

 

 

 

(In alto) Falso frutto di Atriplex halimus, munito di camere d’aria. Bari, 1 m, ott 2012. Foto di Vito Buono. (In basso) Frutto-scatola (Barringtonia asiatica). Foto di Barry Conn e Kipiro Damas (http://www.pngplants.org/PNGtrees/TreeDescriptions/Barringtonia_asiatica_L_Kurz.html).

 

 

Si stima che solo circa 250 specie sono regolarmente disperse nelle isole oceaniche mediante acqua ed è stato stimato che, dei 378 colonizzazioni vegetali originari delle isole Galapagos, solo il 9% sono idrocore (le restanti sono state trasportate dal vento o uccelli). Non è solo una questione di sopravvivenza durante il periodo di dispersione in mare. Stabilizzarsi nella zona intertidale, infatti, non è per nulla semplice. Per questo motivo, anche qui la selezione naturale si è scatenata: ad esempio, la mangrovia rossa (Rhizophora mangle) si aiuta con la viviparità, producendo una lunga piantina pendente prima che venga definitivamente rilasciata. Non si tratta di propaguli perché la riproduzione non è vegetativa, ma di vere e proprie piantine. Un meccanismo simile è presente nella Aegialitis (Plumbaginaceae). Quest’ultima è stata uno delle prime specie tropicali a raggiungere e Krakatoa dopo una catastrofica eruzione vulcanica avvenuta nell’agosto del 1883.

 

               

Giovani piantine pendenti (in alto) di mangrovia rossa (Rhizophora mangle) e (in basso) di Aegialitis.

 

 

Alcune piante acquatiche non sono strettamente idrocore ma ittiocore, cioè disperse dai pesci, o avicore, cioè diffuse da uccelli acquatici. I frutti dell’erba acquatica Glyceria, sono consumati da carpe; i frutti a forma di oliva della infestante acquatica Posidonia adottano la tattica “Pinocchio-style” e sono mangiati dai tonni nel Mediterraneo; e ancora, i peli sul frutto delle canne del genere Typha prevengono l’imbibizione prima della liberazione, ma in seguito permettono il galleggiamento in acqua, dove si aprono e affondano, per infine germinare (ma alcuni dei suoi semi appuntiti sono stati trovati aderenti alla pelle dei pesci).
I semi delle ninfee maturano nel frutto sott’acqua ma, quando rilasciati, riemergono a galla in massa, dove diventano appetibili per gli uccelli acquatici. Come per molti semi di piante terrestri, il passaggio attraverso l’intestino degli uccelli acquatici può agire come uno stimolante per la loro germinazione. In Nuphar, i frutti maturano sopra la superficie dell’acqua, ma sono poi i carpelli contenenti i semi che galleggiano come esche sulla superficie, dove sono mangiati dai pesci. Molti frutti delle piante acquatiche (alcune delle quali estinte, come Ceratophyllum e Trapa) sono duri e con escrescenze spinose, due caratteristiche che possono favorire la dormienza e la dispersione, nonché l’ancoraggio su substrati sono instabili. Le spine sui frutti della Victoria amazonica, le cui foglie galleggianti sono capaci di sorreggere un bambino, svolgono un ruolo diverso: quello della protezione dagli erbivori.

 

 

             

(In alto) Frutto-esca di Nuphar. (In basso) Victoria amazonica.

 

Anche senza citare i noti studi alle Galapagos di San Darwin, di cui oggi celebriamo il Natale (la mia teoria zichicca “scienza ≈ religione” prende sempre più piede), gli ecosistemi insulari sono sempre stati oggetto di particolare attenzione da parte di naturalisti ed ecologi. La discontinuità terra-acqua pone dei limiti ben precisi alla distribuzione delle specie rendendo le comunità insulari sostanzialmente chiuse ad interazioni ecologiche con l’esterno. La diversità nelle isole ha quindi delle caratteristiche molto interessanti; ed è per questo che sono state e sono da sempre molto studiate. L’immigrazione delle specie dalla terraferma all’isola diventa tanto più difficile quanto maggiore è la distanza dalla costa. Già nel 1967, MacArthur e Wilson avevano ipotizzato che il numero di specie presente su di un’isola variasse come risultato di due forze contrapposte. Da una parte, specie non ancora presenti sull’isola possono giungere sull’isola dalla terraferma (anche portate su un’isola da “zattere” naturali o artificiali), dall’altra le specie già presenti sull’isola possono estinguersi. Infatti, le popolazioni delle specie insulari sono in generale molto più piccole di quelle ospitate dalla terraferma e quindi soggette a una serie di problemi che le possono condurre più facilmente all’estinzione rispetto ai più fortunati cospecifici continentali. Ciò non è accaduto alla noce di cocco, che anzi si è diffusa enormemente in tutti i paesi tropicali e, almeno inizialmente, soprattutto nelle isole. Perché?

 

Di isola in isola per sua girovaga natura, la noce di cocco ha un areale genetico di origine pressoché sconosciuto. L’argomento è infatti ancora un mistero irrisolto, sia perché i frutti si disperdono per mezzo delle correnti, sia perché è stata diffusa dai popoli che colonizzarono le isole oceaniche.

L’elevato dinamismo migratorio della palma da cocco ha fatto sì che il suo luogo d’origine sia ancora oggi uno dei grandi enigmi insoluti della biologia vegetale. Infatti, le sue fasi di diffusione, le vie migratorie, l’età e il luogo d’origine della palma da cocco non sono ricavabili con sicurezza partendo dalla distribuzione attuale. Si ritiene che sia originaria dell’arcipelago indo-malesiano e che nell’antichità si sia diffusa per mare nelle vicine isole del Pacifico, prima che l’uomo la trasportasse per distanze ancora maggiori, probabilmente a ovest, fino al sud dell’India e nello Sri Lanka e ad est nelle Isole Samoa. Negli ultimi 250 anni gli studiosi hanno proposto però anche teorie diverse, che prevedono l’origine in America Centrale, Polinesia, Fiji, ed altre aree ancora.

Gli europei (portoghesi e spagnoli) scoprirono per la prima volta il cocco esplorando le coste occidentali dell’America centro meridionale e dal 1525 cominciarono a coltivarlo diffondendolo altrove. Successivamente, l’ibridazione, la selezione e la diffusione da parte dell’uomo, ha dato alla vasta gamma di varietà e di distribuzione pantropicale che vediamo oggi.

Torniamo un attimo indietro: quindi in America il cocco era in qualche modo arrivato?

L’attestazione precolombiana del cocco in America centrale proviene da analisi dei microsatelliti del DNA delle popolazioni di palma da cocco in America Centrale e nel Pacifico. Sembra che in America la palma da cocco sia stata portata da popolazioni umane provenienti dal sud-est asiatico (il trasporto via mare effettivamente era difficile, data la lontananza!), il cui vasellame è stato ritrovato anche in Ecuador. Le analisi dei microsatelliti hanno dimostrato che il cocco americano è geneticamente più vicino a quello filippino rispetto a quello delle più vicine isole della Polinesia, rafforzando così le evidenze archeologiche.

 

 

Vasi a forma di casa: manufatto di origine sud-est asiatica ritrovati in Ecuador. Fonte: Baudouin & Lebrun (2009).

 

 

Questo per sud-est asiatico e America. Passiamo ora alla migrazione verso ovest. Analisi con marcatori RFLP, hanno confermato che le popolazioni di palma da cocco del sud-est asiatico e delle isole del Pacifico hanno più polimorfismi e sono quindi geneticamente più diverse, mentre le palme di India, Sri Lanka e Africa occidentale hanno caratteristiche genetiche più omogenee. Questo potrebbe significare che le zone di origine siano le prime e poi, per mano dell’uomo o per idrocoria, la specie si sia diffusa verso l’ovest.

 

In tutto questo marasma migratorio, intervengono le varietà nane (la palma da cocco “wild type” giunge anche a 25-30 metri di altezza), arrivate fino in Africa, e probabilmente introdotte all’inizio del 1900 dall’Asia e dal Pacifico. Si sarebbe trattato di pochi mutanti, considerando la bassa variabilità genetica di queste popolazioni. Il marasma migratorio della palma da cocco diventa manicomio allo stato puro se si considerano anche gli spostamenti tettonici e le isole più o meno temporanee che hanno fatto da ponte per la dispersione naturale di questa specie (se ne avete la forza, leggete il lavoro di Harries del 1990, sotto in bibliografia). Mentre il cocco viaggiava, infatti, i continenti si spostavano. Harries è però fortunatamente (per me) in accordo con altri botanici sul fatto che la palma da cocco sia stata coltivata per la prima volta proprio in Malesia, dove ha subito un vero programma empirico di miglioramento genetico da parte degli agricoltori locali.

 

Sfinito da cotanto girovagare non mi resta che consultare il lavoro di Gunn et al. (2011). L’articolo è recente (per molti revisori, segno incontrovertibile di garanzia). Qui, “nell’analisi genetica più ampia finora mai svolta” (umili, gli autori), sono state trovate prove di due distinte origini di coltivazione della palma di cocco: una nelle isole del sud-est asiatico, l’altra nei margini meridionali del subcontinente indiano. Nonostante il lungo e ampio movimento di palme dovuto agli uomini sia all’interno che tra questi bacini oceanici, le piante attuali non mostrano segni di sostanziale commistione genetica tra le due principali sottopopolazioni. Data l’assenza di evidenti barriere riproduttive, l’elevato livello di differenziazione genetica tra le due sottopopolazioni suggerisce un lungo periodo di isolamento prima dell’influenza umana. In questa luce, la predominanza di commistione genetica nella parte occidentale dell’Oceano Indiano suggerisce che gli esseri umani abbiano probabilmente giocato un ruolo di primo piano nella coltivazione e nella propagazione di palme di cocco in quella regione. Nel Pacifico, invece, la selezione umana ha determinato la comparsa di tratti utili quali il nanismo, la capacità di autoimpollinarsi e particolari forme del frutto. Infine, la sottopopolazione presente nel Madagascar è particolarmente varia, probabilmente a causa dell’antico percorso commerciale austronesiano, che connetteva est Africa, Madagascar, il sud-est asiatico, Formosa e Oceania. Gli Arabi contribuirono poi a diffondere la specie sulle coste dell’Africa con i loro commerci nell’Oceano Indiano.

 

Se avete ancora un po’ pazienza, vi lascio con questa mappa: è la versione più recente della distribuzione geografica delle sottopopolazioni di palma da cocco nel mondo secondo Gunn et al. (2011). La specie ne ha fatti di giri!

 

Distribuzione geografica delle popolazioni indo-atlantiche e pacifiche di palma da cocco secondo Gunn et al. (2011) (liberamente disponibile on-line).

 

 

 

Grazie a loro, ho scritto:

 

Baudouin L & Lebrun P (2009) Coconut (Cocos nucifera L.) DNA studies support the hypothesis of an ancient Austronesian migration from Southeast Asia to America. Genet Resour Crop Evol 56: 257-262.

Colombo C (1492-1493) Diario di Bordo. Cristoforo Colombo. Collana Storia d’Italia. Einaudi, Torino.

Dennis JV, Gunn CR (1971) Case against trans-Pacific dispersal of the coconut by ocean currents. Economic Botany 25(4): 407-413.

Diamond JM (1973) Distributional ecology of New Guinea birds. Science, 179:759-769.

Gunn BF, Baudouin L, Olsen KM (2011) Independent origins of cultivated coconut (Cocos nucifera L.) in the old world tropics. PLos ONE 6(6): e21143.

Harries HC (1990) Malesian origin for a domestic Cocos nucifera. In: The Plant Diversity of Malesia eds. P. Baas, K. Kalkman e R. Geesink. Pp. 351-357. Leyden.

Harries HC (1978) The evolution, dissemination and classification of Cocos nucifera L. The Botanical Review 44(3): 265-319.

Ingrouille M, Eddie B (2006) Plants: Evolution and Diversity. Cambridge University Press, UK.

Lebrun P, N’cho YP, Seguin M, Grivet L, Baudouin L (1998) Genetic diversity in coconut (Cocos nucifera L.) revealed by restriction fragment length polymorphism (RFLP) markers. Euphytica 101: 103-108.

MacArthur RH, Wilson EO (1967) The Theory of Island Biogeography. Princeton University Press, Princeton, NJ, USA.

Smith JMB (1991) Tropical drift disseminules on Southeast Australian beaches. Australian Geographical Studies 29(2): 355-369.

Tozzi M (2010) Ma fanno più vittime le noci di cocco. “La stampa” on-line.

 

 

Dalla Grande Ragnatela Mondiale:

 

http://it.wikipedia.org/wiki/Lodoicea_maldivica

http://it.wikipedia.org/wiki/Mallo_%28botanica%29

http://lastampa.it/2010/12/06/cultura/opinioni/editoriali/ma-fanno-piu-vittime-le-noci-di-cocco-vweaBadfG15FrKcZOgZaRM/pagina.html

http://olmo.elet.polimi.it/ecologia/dispensa/node68.html

http://wol.jw.org/it/wol/d/r6/lp-i/102003208

http://www.ucmp.berkeley.edu/IB181/VPL/Lyco/Lyco3.html

Written by Horty in: Senza categoria |
Mar
30
2022
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Fillotassi, serie di Fibonacci, sezione aurea e altre cose di questo genere (prima parte)

L’architettura delle piante è caratterizzata da un alto grado di regolarità. Il numero e la geometria degli organi, cioè la loro forma e posizione all’interno della pianta e della chioma sono infatti specifici per ogni pianta, ma allo stesso tempo dipendono molto anche dalle condizioni climatiche al momento della loro iniziazione e sviluppo. La regolare disposizione degli organi laterali (ad esempio le foglie su un gambo, le brattee su una pigna, i fiori in un capolino) è un aspetto importante della forma vegetale, conosciuta come fillotassi (dal greco phyllon, foglia + taxis, ordine). Specificatamente, la fillotassi è quindi lo schema secondo cui le foglie si inseriscono sui rami ma, in senso più ampio, essa studia la disposizione delle foglie, dei rami, dei fiori, dei semi o di altre strutture nelle piante con lo scopo principale di evidenziare l’esistenza di schemi regolari. Una fillotassi regolare si trova in molte specie di piante superiori, dai muschi alle felci, dalle conifere alle piante a fiore. A causa della sua notevole precisione, regolarità e bellezza, la fillotassi è stata per secoli oggetto di ammirazione e di indagine scientifica. Ci sono state numerose ipotesi per spiegare la natura del principio meccanicistico alla base della fillotassi; tuttavia, non tutti sono stati esaminati sperimentalmente. Ciò è dovuto principalmente alla delicatezza e alle piccole dimensioni della parte del germoglio (meristema apicale) dove appunto si formano gli organi della pianta e i modelli fillotattici sono stabiliti.

Recentemente, la combinazione di genetica, strumenti molecolari e micromanipolazione ha comportato l’identificazione di alcuni regolatori di crescita delle piante, in particolare alcuni ormoni vegetali (auxine) coinvolti nella formazione e nello sviluppo degli organi. Gli schemi fillotassici osservabili in natura la maggior parte delle volte sono comunque quattro: l’assetto può essere distico, a spirale di Fibonacci, decussato e tricussato, a seconda dell’angolo di divergenza che divide due foglie; ma ci sono anche altri schemi ricorrenti, come la disposizione distica e quella verticillata (figura in basso). Nel primo caso sarà di 180°, nel secondo seguirà l’andamento di una spirale con un angolo di 137,5°, per la disposizione decussata ci saranno 90° (un esempio è la pianta del basilico) e, in􀀁ne, per la tricussata 60°. Ciò che però tutti i modelli fillotattici hanno in comune è che i nuovi organi tendono a formarsi il più lontano possibile da organi precedentemente presenti (questa regola empirica è stata formulata per la prima volta da Hofmeister nel 1868). In termini di rilevanza biologica, la regola di Hofmeister è pensata per essere vantaggiosa in termini di cattura efficiente della luce e dell’acqua. Tuttavia, diversi modelli fillotassici producono un’efficienza di intercettazione luminosa simile. Pertanto, la cattura della luce non spiega ad esempio perché i modelli a spirale siano così prevalenti in natura o in base a quali condizioni ambientali una particolare disposizione delle foglie potrebbe avere un vantaggio selettivo.

 

Alcuni schemi di fillotassi (fonte qui).

 

La fillotassi è quindi regolata da intriganti relazioni matematiche. Una di queste è il fatto straordinario che il numero di spirali che può essere tracciato attraverso un modello fillotassico sono prevalentemente numeri interi della sequenza di Fibonacci, nome dato a Leonardo Pisano, nato a Pisa nel 1175 e morto presumibilmente nella stessa città nel 1235. Nella successione di Fibonacci, ciascun numero equivale alla somma dei due precedenti: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, 233, ecc. La successione di Fibonacci è la più antica fra le successioni ricorsive note, ma questi numeri non furono identificati come qualcosa di speciale fino alla metà dell’ottocento, quando presero il nome con cui li conosciamo oggi grazie a François-Edouard-Anatole Lucas (1842-1891). Già Keplero osservò che il rapporto tra due numeri consecutivi della successione tende, come vedremo in seguito, alla sezione aurea, ma è a partire dal 1830 che si ha una grande crescita dell’interesse verso questa successione. Si notò infatti, che i numeri comparivano come numeri delle spirali delle brattee su una pigna e si osservarono una gran varietà di altri casi dove si poteva trovare questa successione. Jacques-Philippe-Marie Binet (1786-1856) sviluppò una formula per trovare un qualsiasi numero di Fibonacci data la sua posizione nella successione, e tutt’ora questi numeri affascinano i matematici di tutto il mondo. I numeri della successione di Fibonacci si possono facilmente ritrovare nel numero di spirali formate dai semi di girasole o di una margherita, o disegnate dalle brattee delle pigne, dalle spine delle piante grasse o dalle esplosioni pirotecniche di alcune infiorescenze. Ad esempio, nell’ananas (figura in basso) ci sono di solito 8 file di spirali verso sinistra e 13 verso a destra, più 5 centrali; quindi tre numeri della serie di Fibonacci. E lo stesso fenomeno accade nelle spirali che si formano nelle pigne.

 

 

Ancora, il numero petali dei fiori sono spesso numeri di Fibonacci.

Iris 5 petali, rosa 5 petali, epatica 8 petali, margherita 21 petali (fonte qui).

 

In molte specie di piante, i numeri di Fibonacci ricorrono nella disposizione delle foglie sui rami. In pratica, le foglie sono disposte sui rami in modo da non coprirsi l’una con l’altra, così da permettere a ciascuna di loro di ricevere più luce (e qualcuno dice anche più acqua piovana). È detto quoziente di fillotassi il rapporto tra il numero di giri e il numero di foglie tra due foglie simmetriche. Tale quoziente è quasi sempre il rapporto tra due numeri consecutivi o alternati della successione di Fibonacci. Per esempio, nel disegno in basso, occorrono 3 giri completi e passare attraverso 8 foglie per ritornare alla foglia allineata con la prima: il quoziente di fillotassi è 3/8. Altri esempi. Nei tigli le foglie si dispongono intorno al ramo con un quoziente di fillotassi pari a1/2. Nel nocciolo, nel faggio e nel rovo è di 1/3. Il melo, l’albicocco e alcune specie di querce hanno le foglie ogni 2/5 di giro e nel pero e nel salice piangente ogni 3/8 di giro.

 

 

Quindi, i numeri di Fibonacci si ritrovano quando contiamo il numero di volte che giriamo intorno allo stelo, andando di foglia in foglia, per unire due foglie sovrastanti. Se invece contiamo nell’altra direzione, avremo un diverso numero di giri per lo stesso numero di foglie. E troviamo un numero di Fibonacci anche se contiamo le foglie incontrate per arrivare alla foglia direttamente sopra quella di partenza, contando anche questa. Il numero di giri in ogni direzione ed il numero di foglie incontrate, sono quindi tre numeri di Fibonacci consecutivi.

Fino ad ora abbiamo visto i numeri di Fibonacci come successione anziché come numeri singoli. La fillotassi, però, spesso non è guidata direttamente dalla successione, ma dalla relazione fra i membri consecutivi della successione, attraverso i loro quozienti. Il quoziente fra due numeri di Fibonacci consecutivi tende a un particolare numero chiamato rapporto aureo (o sezione aurea), che per convenzione si indica con la lettera greca ϕ (phi).

ϕ = 1,6180339887498948482045868343656 ecc. ecc.

La sezione aurea fu scoperta da Ippaso di Metaponto e si conosce sin dall’antichità, tanto che la si può trovare nel libro VI degli Elementi di Euclide, ma probabilmente era già noto ai Babilonesi. La lettera ϕ è stata scelta probabilmente in onore del famoso scultore greco Fidia, il grande architetto greco vissuto tra il 490 e il 430 a.C. il quale, secondo numerosi storici dell’arte, ha spesso volutamente applicato la proporzione aurea e ha fatto di questo numero una caratteristica fissa delle proprie opere, ma ϕ è presente anche nelle piramidi egizie (ad es., nel rapporto tra altezza e base della grande piramide di Cheope).

 

Sezione aurea nelle opere di Leonardo.

 

Inoltre, il rettangolo costruito sul rapporto aureo tra base e altezza prende il nome di rettangolo aureo (figura in basso). Sorprendentemente, si è dimostrato più volte nei secoli che è effettivamente il rettangolo più piacevole alla vista. Scomponendo un rettangolo aureo, cioè sottraendo dal rettangolo aureo un quadrato di lato uguale al lato minore del rettangolo, si ottiene come risultato un rettangolo più piccolo, che è ancora aureo. Procedendo sempre nello stesso modo, si formano rettangoli sempre più piccoli, uno dentro l’altro. Inoltre, tracciando le diagonali di ogni coppia di rettangoli (quello di partenza e quello più piccolo) si nota che si incontrano in un punto nel quale converge una serie di rettangoli aurei sempre più piccoli. In questa figura si può costruire una spirale disegnando un arco di circonferenza entro ogni quadrato, fino a formare una spirale logaritmica approssimata, chiamata spirale aurea, anche detta spira mirabilis (figura in basso). La spirale logaritmica è definita anche proporzionale perché ogni raggio vettore sarà più ampio del precedente secondo una progressione geometrica, facendo sì che la curva, crescendo, non cambi forma. La spirale proporzionale ha inoltre due caratteristiche peculiari: non raggiunge mai il polo (cioè il punto attorno al quale si avvolge infinite volte) e la sua forma non cambia quando se ne modificano le dimensioni, sia che si aumentino sia che si riducano; per questo viene detta autosomigliante.

[continua…]

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Dic
27
2014
0

E agricoltura fu (parte prima)

 

00 - Incroci frumento

 

Alla fine dell’ultima glaciazione, a partire da a 12.500 anni fa, alcuni gruppi umani di cacciatori-raccoglitori divennero agricoltori in modo indipendente e in diversi luoghi del pianeta. Perchè compirono questo passo? Non certo per la ricerca di una vita più comoda. La vita del contadino è spesso più faticosa di quella del nomade cacciatore-raccoglitore – come si può anche oggi verificare nella vita dei gruppi di cacciatori-raccoglitori tuttora esistenti – e neppure si può dire che sia stata la scarsità di selvaggina, frutti e/o semi: l’agricoltura è nata in aree e in periodi in cui abbondavano le risorse alimentari. E allora perché? Non lo sapremo mai con certezza (sono passate circa 400 generazioni!) ma una motivazione alla base fu probabilmente la preoccupazione per il futuro,  la necessità di sapere che la comunità in cui gli uomini vivevano potesse continuare a vivere e prosperare, anche in un ambiente mutevole. Liberarsi dall’aleatorietà della caccia (un giorno va bene, ma tante volte si torna a mani vuote) è stata sicuramente una spinta importante per iniziare a coltivare. L’avvento dell’agricoltura fu probabilmente favorito da una prima specializzazione dei compiti tra i membri delle comunità umane, da cui derivarono una certa stanzialità e la comparsa del “tempo libero”, un concetto inesistente nei gruppi di cacciatori-raccoglitori.

“In breve, l’agricoltura e l’allevamento comparvero in modo spontaneo in poche aree del pianeta, con tempi assai diversi, e si diffusero da questi nuclei originari in due modi: tramite l’apprendimento delle tecniche da parte dei popoli confinanti, o con l’invasione da parte dei primi agricoltori. (…) In alcune aree in cui le condizioni climatiche erano favorevoli, tuttavia, l’agricoltura non nacque mai spontaneamente, né fu portata in tempi preistorici, e l’uomo vi continuò a vivere per millenni come cacciatore e raccoglitore fino a quando non venne in collisione con il mondo moderno. Possiamo ben vedere che, senza un qualche intervento, l’uomo avrebbe comunque continuato a praticare le sue attività di caccia e raccoglimento. Quindi: cosa o chi ha permesso all’uomo in alcune zone del globo di “evolversi” ed iniziare così a praticare agricoltura ed allevamento? Questo è un problema che rimane ancora oggi aperto nello studio della preistoria.”

Jered Diamond (“Armi, acciaio e malattie”)

 

Inoltre, con il ritiro dei ghiacci, le pianure e le colline si andavano ricoprendo di distese erbose dove crescevano spontaneamente graminacee e leguminose selvatiche e l’area era popolata da animali selvatici. La caccia, la pesca e i molluschi rappresentavano una fondamentale risorsa alimentare per i nostri antenati, ma frutti, radici, tuberi e semi di piante selvatiche erano attivamente raccolti, come documentato dal ritrovamento di resti di frutti e semi carbonizzati e mineralizzati in numerosi siti paleolitici e mesolitici. Il ritrovamento di mortai primitivi dimostra anche che i semi venivano macinati. L’ambiente forniva abbondanti risorse alimentari e i nomadi potevano permettersi uno stile di vita semisedentario sfruttando sistematicamente le risorse presenti sul territorio, creando rifugi temporanei e depositi scavati nel terreno per conservare ciò che trovavano. Le piante raccolte erano piante selvatiche e a maturità disperdevano i semi nell’ambiente. Questo carattere è fondamentale per la sopravvivenza allo stato selvatico: se i semi restano sulla spiga o nel baccello, infatti, non cadono a terra e non possono germinare. Non è detto poi che la stagione successiva sia una stagione favorevole alla crescita delle nuove piante: una stagione fredda o molto piovosa, o molto secca potrebbe essere fatale per la crescita. È necessario quindi che i semi, una volta caduti a terra, non germinino tutti nello stesso tempo ma che alcuni restino dormienti fino all’anno successivo. Meglio una germinazione scalare, scaglionata nel tempo: se i primi semi che germinano incontrano una stagione sfavorevole non è grave, essi moriranno, ma altri semi che germinano più avanti nella stagione possono essere più “fortunati” e di conseguenza la sopravvivenza della pianta (e della specie) sarà assicurata.

Questi caratteri dipendono dall’azione di specifici geni presenti nel patrimonio genetico, cioè nel DNA, di ogni pianta e di tanto in tanto vanno incontro a mutazioni spontanee che li rendono inattivi. Di solito le mutazioni sono svantaggiose per le piante perché le privano di caratteristiche importanti per la sopravvivenza alto stato selvatico, ma d’altro canto potrebbero essere molto interessanti per dei raccoglitori. Cosa c’è di meglio che trovare spighe mature con ancora i semi attaccati al rachide, semi non ricoperti da glume che possono essere subito macinati piuttosto che sbucciati uno ad uno, semi che messi in terra prontamente germinano. In poche parole, i nostri antenati, raccoglitori sistematici che esploravano quotidianamente il loro territorio, erano attenti all’insorgenza di nuovi caratteri e ne comprendevano il valore. Queste “novità” erano preziose perché avrebbero potuto facilitare di molto la raccolta del cibo; valeva quindi la pena osservare se le mutazioni venivano conservate anche nelle generazioni successive di piante. Ebbe inizio quindi un doppio processo: la domesticazione, cioè la scelta da parte dell’uomo di quei mutanti spontanei con caratteristiche a lui favorevoli, e la coltivazione, che implicava la conservazione del seme, la preparazione del terreno, la raccolta e la semina, cioè un preciso progetto culturale.

Un bel carattere. Come avviene che una pianta selvatica non disperda più i semi? La dispersione richiede la formazione di tessuti particolari, detti di abscissione, posti alla giunzione tra il seme e la pianta madre, in cui le cellule si “suicidano” precocemente per formare uno strato fragile. La formazione del tessuto di abscissione è un processo attivo, regolato e che richiede numerose funzioni geniche. Quando qualcuna di queste si “rompe”, non si forma più il tessuto e, nel caso dei cereali, la spiga non si disarticola più, rimane cioè intatta. I dettagli su quali siano i geni coinvolti e quale sia la mutazione che favorì la mancata abscissione variano da specie a specie o addirittura da varietà a varietà. Nel caso del riso si è scoperto che basta la mutazione di una sola base nel gene qSH1 (17.000 paia di basi), per bloccare la dispersione dei semi. Tutti gli altri 50.000 geni del riso, che insieme ammontano a 400 milioni di paia di basi, potrebbero rimanere identici, ma questo piccolo cambiamento nel gene qSH1 è sufficiente a stravolgere completamente la biologia riproduttiva della pianta. Cosa succede infatti quando una pianta selvatica non disperde più i semi? La riproduzione è molto più difficile perché quando tutta la spiga e non il singolo seme cade a terra, i semi si interrano più difficilmente e se anche germinassero, andrebbero velocemente in competizione tra loro per l’acqua, nutrienti e luce. Nel frumento, la comparsa di questo carattere risale a circa 11.000 anni fa, poco prima dell’affermarzione dell’agricoltura. Fu l’operato dei primi selezionatori e agricoltori che permise a questo carattere, altrimenti fortemente negativo, di diffondersi nelle popolazioni di piante cerealicole (foto in basso).

01 - Abscissione semeLa domesticazione comporta quasi sempre la mancata formazione degli strati di abscissione a livello del seme

 

Un pronto risveglio. Il secondo carattere distintivo della domesticazione di tutti i cereali e di molte altre piante coltivate è la ridotta dormienza del seme. I semi delle piante selvatiche quando cadono a terra in genere non germinano con le prime piogge ma rimangono dormienti, cioè vitali ma inattivi, per mesi o anni. Questo meccanismo previene la germinazione nella stagione sbagliata o quando le condizioni climatiche non siano favorevoli ed è quindi importante per la sopravvivenza. D’altra parte, la perdita totale di dormienza è un carattere molto negativo perché implica la germinazione dei semi quando sono ancora nella spiga, situazione che conduce a morte precoce. È facile intuire come i primi agricoltori abbiano favorito il carattere di una dormienza ridotta, ma non del tutto assente: per il fatto stesso di seminare e raccogliere, tendevano a selezionare le piante che spuntavano per prime e che per prime arrivavano a seme. I semi più dormienti, al contrario, spuntavano in ritardo e avevano poche possibilità di contribuire alla generazione successiva. Questo spiega perché le piante coltivate mostrano oggi, dopo millenni di selezione, una germinazione rapida e sincrona.

Nasce l’agricoltura. I due processi alla base dell’invenzione dell’agricoltura, domesticazione e coltivazione, si sono ripetuti sostanzialmente immodificate in diverse parti del pianeta (foto in basso), in tempi diversi e con piante diverse, grazie a comunità umane che hanno agito indipendentemente le une dalle altre, accomunate dallo stesso atteggiamento di fondo nei confronti dell’ambiente che li ospitava: uomini non più passivi di fronte alla natura (solo raccoglitori) ma coltivatori, cioè in rapporto continuo con il territorio in cui vivevano. I primi in assoluto sono stati gli abitanti della Mezzaluna fertile. Questa è un area a forma di arco che sale da Egitto, Israele, Siria, Turchia e poi scende verso Iraq e Iran: è racchiuso dal Mar Mediterraneo a ovest, dai monti Zagros a est e dalla catena del Tauro a nord. Qui sono state ritrovate le tracce più antiche di agricoltura con la domesticazione e coltivazione di frumento, orzo, piselli, ceci, lenticchie e lino.

 

03 - Nascita agricoltura

 Lo sviluppo dell’agricoltura in varie regioni geografiche.

 

Il frumento. I progenitori del frumento, l’alimento base di tutte le grandi civiltà antiche del bacino del Mediterraneo, sono graminacee delle specie Triticum boeoticum, Triticum urartu, Aegilops speltoides, Triticum tauschii e Triticum dicoccoides che crescevano (e crescono tuttora) nella Mezzaluna fertile. Sono tutte specie con 14 cromosomi, eccetto il T. dicoccoides che ne ha 28 perché deriva da un incrocio interspecifico spontaneo tra T. urartu (genoma AA) e A. speltoides (genoma BB). Il fatto importante è che l’incrocio mantiene insieme nella pianta figlia tutti i 14 cromosomi delle due specie parentali: se quindi i “genitori” sono diploidi (14 cromosomi ciascuno), T. dicoccoides è un tetraploide (28 cromosomi; genoma AABB) e, come spesso accade, è una specie più vigorosa e produttiva, ma soprattutto in questo caso anche fertile, cioè capace di mantenersi e propagarsi spontaneamente allo stato tetraploide. Queste specie presentano i tipici caratteri della “selvaticità”: spighe fragili che a maturità disperdono i semi, semi ricoperti da foglioline (le glume e glumelle) che aderiscono tenacemente al chicco e “dormienti“, cioè che germinano in tempi diversi, anche dopo anni. Con la coltivazione ebbe inizio anche la domesticazione, cioè la scelta da parte dell’uomo di quelle variante genetiche che spontaneamente emergevano nelle popolazioni selvatiche: la spiga non fragile, il seme nudo, non rivestito tenacemente dalle glume, la maggiore dimensione del seme e la maggiore fertilità della spiga, che comportavano una più alta produttività.
Il primo frumento ad essere stato coltivato è stato il T. monococcum (piccolo farro) specie che deriva, a seguito di domesticazione, dal T. boeoticum. Ben presto i coltivatori privilegiarono però il T. dicoccoides (genoma AABB) in quanto più produttivo e più adattabile a climi più caldi. Da esso è derivato per domesticazione il T. dicoccum (farro medio, forma con semi ancora “vestiti”, che mantiene le glume anche dopo la trebbiatura), base principale dell’alimentazione dei popoli del Mediterraneo per millenni. Dal T. dicoccum ha avuto origine il T. durum (grano duro, a semi “nudi”, capostipite dei frumenti utilizzati oggi per fare la pasta). Il T. dicoccum è stato a sua volta protagonista di un evento fortuito molto particolare: esso si è incrociato spontaneamente con il T. tauschii (genoma DD) che cresceva negli stessi territori dove veniva coltivato il T. dicoccum. L’incrocio ha causato un aumento del numero di cromosomi, generando stavolta una specie esaploide (genoma AABBDD) con 42 cromosomi (i 28 del T. dicoccum più i 14 del T. tauschii) ancora più produttiva: il T. spelta (grande farro o spelta; con semi “vestiti“) dal quale successivamente si è ottenuto il T. aestivum, a semi nudi, cioè l’attuale frumento tenero con cui si prepara il pane e una miriade di altri prodotti da forno.

 

04 - Origine frumento

Gli incroci che hanno dato origine alle specie odierne di frumento.

 

Un’accoppiata fortunata. Frumento e orzo sono essenzialmente una fonte di carboidrati (e quindi di energia) per l’alimentazione umana: sono pero relativamente poveri di proteine, oltretutto di bassa qualità nutrizionale per l’uomo in quanto carenti di aminoacidi essenziali come la lisina, il triptofano e la treonina. Per arrivare a una dieta equilibrata, bisogna associarli quindi ad altre fonti di proteine. Nella Mezzaluna fertile, queste non mancavano. Insieme alla domesticazione di capre, pecore e bovidi che fornivano latte e carne, si coltivavano infatti anche alcune leguminose (piselli, lenticchie, ceci, lupini, cicerchie) contenenti un elevato contenuto di proteine ricche di amminoacidi essenziali e in grado così di supplire alle carenze nutrizionistiche dei cereali.

 

[continua…]

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Dic
23
2013
2

Guinness dei primati vegetali

 

La fine dell’anno è di solito tempo di bilanci, contabilità che deve quadrare, obiettivi e prestazioni che ci si prefigge di raggiungere l’anno successivo, ecc. ecc. ecc. Allora, quale periodo migliore di questo per parlare di record? Il nostro ineluttabile antropocentrismo ci porta a considerarci i più bravi e intelligenti; a limite estendiamo qualche dote gli animali. Ci arrendiamo ad esempio davanti alle loro dimensioni, alla loro velocità e forza. E le piante?

 

Molto prima che gli esseri umani costruissero le prime case di fango, paglia e legno, le piante usavano materiale organico per creare una moltitudine di strutture avanzate. Al pari degli animali, le piante usano la velocità e le dimensioni per sbaragliare la concorrenza e sopraffare gli avversari della stessa specie e di specie diverse. Anche sulle pendici più esposte alle intemperie, le piante hanno capacità di tempistica e resistenza per sopravvivere agli inverni più amari. Nei deserti più brulli e remoti, le piante adottano strutture e meccanismi per proteggersi, e impiegano strategie chimiche contro i loro nemici.

 

Iniziamo.

 

Le foreste pluviali contengono oltre il 50% delle specie vegetali del mondo e, insieme, le foreste pluviali, boreali e temperate costituiscono il 20% della biomassa della Terra. Considerando però tutte le piante, alghe comprese, arriviamo al 97,3%. Ogni anno sulla Terra vengono prodotti per fotosintesi circa 1.000.000.000.000 tonnellate di carbonio. Cosa che gli animali solo si sognano, con il 2,7% di biomassa (1,8% solo per gli insetti e un misero 0,1% per l’uomo!). Possiamo affermare che gli organismi vincenti sono proprio loro. E’ proprio negli ecosistemi pluviali che la concorrenza tra piante si fa spietata: mentre le specie più basse vivono in condizioni di umidità e temperatura costante ma hanno la luce come fattore limitante, gli alberi più alti svettano in cima, hanno molta luce ma le loro chiome pagano il pegno di un caldo torrido e di un tasso di umidità più basso. Per questo, in una foresta l’altezza fa la differenza (il motto “altezza, mezza bellezza” vale anche per loro). Alcuni dei più grandi alberi della foresta sono i più grandi organismi viventi sulla Terra: per esempio, la sequoia gigante californiana Sequoiadendron giganteum può superare gli 80 metri di altezza e contiene abbastanza legna per costruire oltre 40 piccole case, ma meglio non dirlo in giro. L’albero più grande. La sequoia gigante “Generale Sherman”, conservata presso il Sequoia National Park della California, è alta 84 metri, ha un tronco con una circonferenza di 34 metri e pesa circa 2500 tonnellate. La beffa è che la nostra mente va sempre a elefanti e balenottere azzurre e invece l’organismo vivente più grande della Terra è invece una pianta. Gli alberi detengono anche altri due primati assoluti: le radici del fico sudafricano, che possono raggiungere i 120 m di profondità, e il più alto esemplare vivente, una sequoia sempreverde (Sequoia sempervirens) in California di 111 metri di altezza (anche se un eucalipto australiano, ora morto, arrivò a 132 metri). Infine, un primato forse meno spettacolare, un comune albero dà protezione e cibo mediamente a un centinaio di altre specie vegetali e animali che non siano microorganismi; questa funzione viene svolta anche da morto (basti pensare ai picchi e ai vari insetti xilofagi).

 

Sequioadendron giganteum. Fonte: http://lh2treeid.blogspot.it/2010/09/sequoiadendron-giganteum-giant-sequoia.html

 

Sempre rimanendo nelle foreste pluviali, le liane assorbono acqua e nutrienti dal suolo con le radici, come avviene per quasi tutte le piante, ma per arrivare in cima alle chiome degli alberi su cui crescono devono essere in grado di trasportare le sostanze nutritive attraverso i lunghissimi fusti, che possono raggiungere anche i 900 metri di lunghezza! Per questo il sistema di trasporto di acqua delle liane è il più avanzato ed efficiente in assoluto. Un’altra pianta equatoriale, il taro gigante (Alocasia robusta) possiede la superficie più grande indivisa di qualunque altra foglia sul pianeta: arriva a oltre 3 metri di lunghezza e oltre 2 metri di larghezza. Le sue enormi foglie lucide prosperano nel sottobosco delle foreste tropicali dell’Asia, disponendosi in modo tale da raccogliere la maggiore quantità possibile di luce durante tutto il giorno.

 

Alocasia robusta. Fonte: UBC Botanical Garden Forums

 

Parlando sempre di lunghezza delle foglie, le palme non sono da meno: molte specie hanno foglie lunghe anche parecchi centimetri ma prima fra tutte c’è la palma rafia (Raphia farinifera), le cui foglie possono pendere per 24 metri, praticamente quanto un edificio di sette piani. E ancora, il seme più grande di qualsiasi pianta è sempre appartenente ad una palma, il coco de mer (Lodoicea maldivica), di cui abbiamo parlato in un post di qualche mese fa, e la più grande infiorescenza è sempre di una palma, la Corypha umbraculifera.

Passando dalle dimensioni alle proprietà fisiche, il bambù è una graminacea che, oltre ad essere la specie erbacea più grande, con un fusto talmente duro e legnoso da competere con l’acciaio. E’ infatti in grado di resistere a pressioni di circa 7000 N/m2 (una pressione che potrebbe schiacciare la pietra), che la rende l’organismo vivente pianta più forte in assoluto, davanti al quale anche i muscoli più efficienti dei vertebrati impallidiscono. Ripresa dall’alto, a mo’ di un telescopio che si apre, ogni nuova sezione della pianta si estende dal centro delle vecchie sezioni. Le specie di bambù più veloci sono in grado di avanzare verso la luce ad un ritmo impressionante di oltre 5 centimetri all’ora (più di un metro al giorno!). Questa incredibile capacità di crescita rende il bambù una pianta cruciale per il controllo dell’erosione del suolo.

 

Foresta di bambù. Fonte: http://www.nuok.it/chioto/una-passeggiata-fra-le-canne-di-bambu/

 

Alcune piante, come il banksia arancione (Banksia prionotes), hanno evoluto strategie riproduttive che si basano sugli incendi. A causa della sua altezza (fino a 10 metri) e dello scarso fogliame, è in grado di sopravvivere anche alle fiamme di un incendio boschivo. Non appena il calore attorno alla sua base raggiunge i 265°C (superando così anche le spore batteriche più resistenti al calore) i suoi grandi coni ricchi di semi sono “cotti al forno”. Quando poi il fuoco diminuisce e la temperature dei coni cala, questi si aprono, permettendo ai loro semi di cadere sulla terra arida, dove germinano. Ci sono poi vere e proprie specie incendiarie, come l’eucalipto, che questi incendi per così dire li provocano, avendo evoluto del fogliame coriaceo, resinoso e oleoso che facilmente prende fuoco a temperature superiori ai 40°C. Naturalmente lo fanno per un loro vantaggio: i loro semi germinano solo se esposti al fuoco e il fuoco fa fuori tutti i loro competitori; ma questa è un’altra storia che racconterò presto.

 

Il seme più robusto di qualsiasi altra pianta in natura è quello della specie acquatica perenne Nelumbo nucifera, o loto sacro, che cresce nelle praterie umide di Asia, Medio Oriente e Australia. Prove fossile indicano che queste piante erano presenti nel primo Cretaceo – tra 145 e 100 milioni di anni fa – e sono tra le più antiche piate a fiore. Il segreto della sua sopravvivenza viene dalla capacità di emettere nuovi germogli dai rizomi, modificazioni del fusto con funzione di riserva; in questo modo, una singola pianta può crescere fino a coprire uno specchio d’acqua dolce in pochi mesi. Grazie ai rizomi che la fissano in profondità nel fango, la pianta emette foglie rotonde che galleggiano sulla superficie dell’acqua Una volta l’anno, vaste superfici coperte a loto producono fiori profumati, di circa 20 cm di diametro, di colore rosa, rosso e bianco. Dopo l’impollinazione, producono semi grandi pressappoco quanto un’oliva, di aspetto marmoreo. I semi di loto sono coperti da un rivestimento legnoso incredibilmente duro, quasi completamente impermeabile all’acqua. Dopo la caduta dalla pianta, questi semi si depositano sul fondo del loro habitat acquoso, dove possono rimanere per centinaia di anni. Alcuni di questi semi (con un’età di più di 1000 anni) sono stati recuperati da un’antica torbiera in Manciuria e, dopo essere stati esposti all’acqua, sono stati ancora in grado di germogliare . Nel tentativo di verificare la vera forza di questi semi, essi sono stati sottoposti a fiamma ossidrica, sepolti nel cemento e presi a martellate, senza tuttavia subire alcun danno.

 

Se pensiamo che il record di velocità appartenga ai ghepardi, ancora una volta, sbagliamo. Il fiore di una specie di Cornus canadensis è più veloce di una pallottola. Si tratta di una specie di corniolo perenne, tappezzante, originario dei boschi dalla costa orientale degli Stati Uniti fino al Canada. Questo “super- speeder “ si muove 100 volte più veloce della pianta carnivora venere acchiappamosche e oltre il doppio dell’ultraveloce canocchia pavone (Odontodactylus scyllarus), un crostaceo provvisto di micidiali arti raptatori che possono frantumare i gusci robusti di molluschi e crostacei, o immobilizzare pesci di taglia superiore alla sua. Tornando l corniolo, questo diffonde il suo polline come una catapulta, ad una velocità incredibile (meno di 0,5 millisecondi). Utilizzando le riprese video ad alta velocità, ricercatori del Williams College (MA, USA), hanno cronometrato le piccole esplosioni di Cornus canadensis. Il risultato è che i petali costringono gli stami ricchi di polline in una posizione ripiegata. Quando i petali si aprono, i quattro stami si dispiegano, accelerando a 2.400 volte la forza di gravità, circa 800 volte l’accelerazione che un astronauta sperimenta durante un decollo. Questi fiori sbocciano sorprendentemente in un tempo più breve di quello necessario a un proiettile per raggiungere l’uscita della canna di un fucile.

 

 



Apertura del fiore di Cornus canadensis registrata a 10.000 fotogrammi al secondo.

 

Le piante ci battono, come sappiamo bene, anche in longevità, e questo non soltanto grazie ai semi. Pinus longaeva è una specie di pino caratterizzata da estrema longevità, scoperta nelle regioni di alta quota delle montagne del sud-ovest degli Stati Uniti. Un esemplare di Pinus longaeva, soprannominato Matusalemme, localizzato nella Antica foresta dei Pini dai coni Setolosi delle montagne Bianche californiane ha un’età di oltre 4700 anni, stimata mediante la conta degli anelli di crescita annuale in un piccolo campione prelevato con la tecnica del micro-carotaggio. Questo esemplare è l’albero singolo più longevo del mondo. La più antica pianta conosciuta è però probabilmente un arbusto di creosoto (Larrea tridentata) nel deserto del Mojave, in California. Si ritiene che alcuni di questi cespugli abbiano 11.700 anni! In Tasmania, ad un esemplare di agrifoglio del re (Lomatia tasmanica), scoperto qualche anno fa, è stata attribuita l’ età di 43.600 anni: il record di longevità assoluto per un vivente. Sono numeri che hanno dell’ incredibile ma secondo alcuni botanici vi sarebbero piante che, riproducendosi per clonazione, potrebbero avere anche un milione di anni.

 

Infine – è questo è periodo – il miracolo. Mentre nutriamo seri dubbi su Lazzaro, la Selaginella lepidophylla, o falsa rosa di Gerico, è una pianta che si è adattata a sopravvivere alle condizioni di prolungata siccità del suo ambiente naturale perché, anziché modificare il proprio metabolismo, cercare di trattenere acqua durante il giorno e assorbire quanta più umidità possibile durante la notte, lascia che i propri tessuti si disidratino fortemente (fino al 5%!). Quando l’umidità del terreno e dell’aria torna a salire, anche dopo molto tempo da quando si è disidratata, questa pianta è in grado di reidratarsi e recuperare perfettamente le proprie capacità fotosintetiche e di crescita. Piante di questo tipo sono state chiamate “piante della resurrezione” (ne esistono circa 330 specie conosciute in tutto il mondo e capaci di simili adattamenti). Non sempre però le piante della resurrezione riescono a “risorgere”: nel caso della Selaginella, se la disidratazione è stata troppo rapida, o in caso di un’alternanza irregolare di condizioni di siccità e umidità, la pianta non ha il tempo di prepararsi a dovere a resistere allo stress idrico a cui è sottoposta. Allo stesso modo, le capacità di seccarsi e riprendere a vivere possono scemare nel tempo e la pianta, dopo decine di volte in cui riesce ad alternare il disseccamento e la crescita vegetativa, muore.

 

 



La resurrezione di Selaginella lepidophylla.

 

Buon anno a tutti!

 

 

Grazie a loro, ho scritto

 

A caccia delle piante più vecchie della Terra. Corriere della Sera. http://archiviostorico.corriere.it/2002/aprile/07/caccia_delle_piante_piu_vecchie_co_0_0204072496.shtml

Age shall not wither them: the oldest trees on Earth. http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5jbqPkeCraj9vmMDWjweCt0A6fKow?hl=en

Stefano Mancuso, Alessandra Viola (2013) Verde Brillante. Giunti.

The Plant Talent Show, 7 Unbelievable Things that Plants Do When You aren’t Looking. http://www.realfarmacy.com/the-plant-talent-show/#l5h07zBKsBSYjQxc.99

Will Benson (2012) Kingdom of Plants. Collins.

Appunti personali di vario genere.

 

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