Ott
14
2015

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Native diet

 

“Quando togliamo qualcosa alla terra, dobbiamo anche restituirle qualcosa. Noi e la Terra dovremmo essere compagni con uguali diritti. Quello che noi rendiamo alla Terra può essere una cosa così semplice e allo stesso tempo così difficile come il rispetto”.

Jimmie Begay – Indiano Navajo

 

 

Qualche giorno fa, dopo ore di guida nel deserto dell’Arizona, ho incontrato e parlato con alcuni nativi americani della tribù Navajo e mi sono stupito di ciò che sono diventati. I Navajo, scesi dai territori dell’Alaska verso sud quando noi eravamo in pieno periodo rinascimentale, contano oggi 250.000 anime, per lo più confinate in un riserva desertica tra Arizona, Utah, New Mexico, nella zona in cui i tre stati USA (più il Colorado) convergono (four corners). Sono tra le popolazioni più emarginate degli Stati Uniti. Il loro passato di fieri cacciatori di bisonti e feroci oppositori degli invasori spagnoli (e poi anglosassoni) è infatti solo un lontano ricordo. Oggi, molti Navajo sono poveri, con una lingua nativa ormai di fatto morta, obesi, alcolizzati, depressi e culturalmente minacciati dal modello consumistico americano, lontano anni luce dalla loro concezione della vita semi-nomade che si basava sul lavoro dei campi e sulla caccia, in quasi perfetto equilibrio con gli ecosistemi e i ritmi naturali. Il fatto di vivere una riserva grandissima (62.755 km quadrati), praticamente quanto tutto lo stato del West Virginia e più del più del 20% dell’Italia, lontana da grandi centri urbani, non ha evitato che l’erosione culturale dei Navajo si arrestasse.

 

01 - Arizona desertDeserto del nord Arizona (fonte: A.Sofo).

 

 

I Navajo avevano mutuato moltissime delle pratiche agronomiche da popolazioni che prima di loro erano arrivati in quelle aree, come i Pueblo e i precedenti, oggi scomparsi, Anasazi (questi ultimi vissuti tra il VII secolo e la fine del XIV). Tutti questi popoli derivavano da diverse ondate migratorie di popolazioni provenienti dall’Asia, da cui mutuavano i caratteristici tratti somatici e la vita semi-nomade. Così, durante le ore di viaggio mi chiedevo come potessero aver vissuto in una zona desertica e argillosa, che si estende a perdita d’occhio per centinaia di chilometri in ogni direzione. In fin dei conti, seppure relegati là da un governo federale che ha destinato loro le terre più desertiche e improduttive degli Stati Uniti, i loro antenati erano vissuti là e, in alcuni periodi storici, le popolazioni erano state relativamente prospere.

Il segreto dei Navajo erano, oltre l’abilità nella caccia, i metodi agronomici utilizzati. Prima dell’agricoltura moderna, basata sulle macchine, i combustibili fossili, i fertilizzanti di sintesi e le sementi selezionate, i popoli adattavano i metodi colturali alle condizioni (spesso avverse) in cui vivevano, e i Navajo non furono da meno. Alla base del loro successo c’era innanzitutto la scelta delle specie da coltivare. Già gli Anasazi, infatti, erano abili agricoltori e si basavano su una serie di strategie e pratiche agronomiche, ognuna delle quali adattata alle condizioni di uno specifico micro-ambiente, al fine di sopravvivere e avere un raccolto assicurato. Per migliaia di anni, mais, fagioli e diversi tipi di zucche furono alla base della dieta Pueblo prima e Navajo dopo. Tutte e tre le specie provenivano dall’odierno Messico, poco distante. La datazione isotopica e cronometrica di alcuni reperti archeologici e resti umani rinvenuti negli USA sud-occidentali hanno indicato che il mais era già affermato nella zona a partire dal 400 A.C. Coltivare queste tre specie era un’arma vincente per varie ragioni. Esse erano coltivate insieme in spazi adibiti ad orto (vedi foto in basso).

 

 02 - Pueblo gardensOrti dei Pueblo a scopo dimostrativo (Grand Canyon National Park) (fonte: A.Sofo).

 

Questa consociazione era ottimale: le leguminose azotofissatrici arricchivano di azoto il terreno, le zucche, a foglia larga, evitavano l’erosione eolica (forte e continua in quelle zone) o dovuta alle precipitazioni (poche, intense e improvvise), e il mais prosperava, dal momento che esso richiede luce abbondante e temperature di sviluppo più alte rispetto ad altri cereali. Da un punto di vista nutrizionistico, le cose andavano ancora meglio, in quanto l’accoppiata cereali-legumi consente un apporto di proteine e di carboidrati facilmente digeribili (ho parlato di questo qualche post fa), il tutto combinato con l’acqua e i sali minerali della zucca e con la cacciagione. E’ ormai accertato, infatti, che combinare legumi e cereali diminuisce l’incidenza di malattie cardiovascolari e i livelli di colesterolo LDL, facilita la digestione e fornisce un apporto bilanciato di carboidrati e proteine, nonché di sostanze antiossidanti come gli isoflavoni.

Insomma, come accadeva per l’originale dieta mediterranea (non quella in cui ci si abbotta di pasta e pane!), i Navajo avevano tutto ciò che serviva e non soffrivano di carenze alimentari. Alcuni ricercatori stanno cercando di far recuperare la tradizione dell’orto Navajo, in modo che si adotti di nuovo, almeno parzialmente, la vecchia dieta e che si recuperino tradizioni prima che perdano del tutto. Recentemente, si stanno cercando di salvaguardare le colture tipiche dei Navajo (e dei loro vicini Hopi, nel Colorado) perché sono molto resistenti alla siccità e costituiscono riserve di biodiversità; proprio per questo, il loro germoplasma è – e sarà sempre più in futuro – di estrema importanza (vedete questo sito, da cui è anche possibile comprare le sementi).

Sono tantissime le varietà di mais, fagioli e zucche usate in passato dai Navajo, ma tra le più importanti vi sono i rattlesnake beans (fagioli a serpente a sonagli), perché a maturità i baccelli somigliano alla coda di un serpente, i four corners bean, dal nome toponomastico; tra le varietà di mais, ricordiamo il Navajo Robin’s egg, con le stupende pannocchie con chicchi bianchi e blu, che veniva piantato per invocare gli spiriti della pioggia, e l’Hopi greasy head, usato anche per riti e cerimonie; tra le zucche, infine, ci sono le tail squash, con la loro bellissima colorazione a strisce verdi-gialle-arancio, e le Navajo orange Hubbard, che ricordano la forma di un agrume, rosa-arancio con chiazze grigie. E ce ne sono talmente tante altre che, se pensiamo alle poche ed esigenti varietà attuali che sfamano mezzo mondo, c’è solo da piangere. Basti pensare che I moderni ibridi di mais richiedono tra i 45 e i 60 cm di precipitazioni annuali per produrre un raccolto medio. Ebbene, questo valore è maggiore anche di quello degli anni umidi nelle zone desertiche dell’Arizona, dove però i Pueblo coltivavano mais tranquillamente usando varietà tolleranti alla scarsità idrica. Oltre a queste tre colture, i Navajo erano esperti di piante medicinali, di cui utilizzavano le proprietà vermifughe e stimolanti, e fungevano altresì da fonte di vitamine.

 

 03 - Navajo cropsAlcune delle colture adotatte dai Pueblo e dai Navajo (da: http://shop.nativeseeds.org/).

Inutile dire che oggi la situazione è molto cambiata, al punto tale che molti Navajo soffrono di malattie cardiovascolari, diabete di tipo II, obesità e alcune forme di cancro. Il diabete è particolarmente frequente nella popolazione giovane, quella che ormai ha più abbandonato la dieta originaria. Emblematico il caso del McDonald’s di Kayenta, a 70 km dalla Monument Valley, affollato di nativi americani trecce-muniti che si ingozzavano di hamburger e patatine.

Per quanto riguarda e tecniche colturali, i Navajo erano molto parsimoniosi e, come diremmo oggi, sostenibili ed eco-compatibili. Costruivano canali per irrigare i campi, piccole dighe, paratoie, fossati, terrazze, orti protetti e pacciamati. Cercavano in ogni maniera di conservare l’umidità e mitigare gli effetti dell’erosione. In particolare, già gli Anasazi usavano ricoprire (pacciamare) il terreno coltivato con ghiaia e ciottoli (pebble-mulched gardens) che reperivano da aree adiacenti (borrow pits).

 

 04 - Pebble-mulched gardens
Struttura di un tipico orto Navajo pacciamato con ghiaia, con la presenza di zone in cui il suolo è stato solcato e di buche da cui il terreno è stato rimosso (e poi portato in altre aree, indicate dalle frecce) (da: Lightfoot, 1993).

 

 

Questa tecnica agronomica, con tutte le sue molteplici varianti, era straordinariamente efficace per aumentare le rese in un ambiente semi-arido estremo, in quanto i sassi agivano come una valvola a senso unico che intrappolava l’acqua nel suolo per infiltrazione senza però poi perderla per evaporazione, evitando così fenomeni di aridità e salinizzazione dei terreni coltivati. Questo, unito alla protezione del suolo dall’erosione, al controllo delle erbe infestanti, alla diminuzione dell’escursione termica (alta nel deserto), favoriva la germinazione e la crescita delle piante. Di contro, gli orti così pacciamati non ricevevano sostanza organica dai residui colturali, per cui non rimanevano fertili per più di 15-20 anni e an certo punto era necessaria una certa rotazione. Seppure efficaci, gli orti pacciamati rappresentarono solo una piccola percentuale dei terreni coltivati dai Navajo, che invece traevano la maggior parte del cibo dai terreni arati normalmente. Furono probabilmente una riserva e una sicurezza in annate particolarmente aride, un esperimento su piccola scala che garantiva i fabbisogni di singoli nuclei familiari. Inoltre, è stato calcolato che l’umidità trattenuta dallo strato minerale pacciamante non era sufficiente per la crescita delle colture, per cui venivano faticosamente irrigati a mano usando recipienti di argilla (ollas).

 

 

05 - Pebble gardens constructionRicostruzione di un pebble-mulched garden (da http://kuaua.com/friends-of-coronado-historic-site/).

 

Difatti, è stato scoperto che, nei periodi di espansione demografica delle popolazioni Pueblo e Navajo, gli orti pacciamati, che salvaguardavano la fertilità del suolo ma allo stesso tempo richiedevano un impegno costante, furono sempre più marginali e rimasero come una variante agronomica casuale e adottata solo da pochi, al punto tale che fu dimenticata.

I nativi americani, poche decadi prima di essere culturalmente e fisicamente annientati dagli europei, avevano quindi già scelto un’agricoltura meno sostenibile ed in grado di sostenere una popolazione in crescita, disboscando e rendendo completamente improduttivi suoli già di per sé poveri. E’ per questo che oggi si tende a recuperare queste tradizioni per garantire loro una dieta più sana, facilitare il recupero delle tradizioni e migliorare il benessere psico-fisico grazie al lavoro manuale e alla soddisfazione di produrre ortaggi in proprio.

 

 

Grazie a loro, ho scritto:

 

Araya H, Pak N, Vera G, Alviña M (2003) Digestion rate of legume carbohydrates and glycemic index of legume-based meals. International Journal of Food Sciences and Nutrition 54: 119-126

Coltrain JB, Janetski JC, Carlyle SW (2007) The stable- and radio-isitopo chemistry of western basketmaker burials: implications for early Puebloan diets and origins. American Antiquity 72(2): 301–321

Flight I, Clifton P (2006) Cereal grains and legumes in the prevention of coronary heart disease and stroke: a review of the literature. European Journal of Clinical Nutrition 60: 1145–1159

Lightfoot D (1993) The cultural ecology of Puebloan pebble-mulch gardens. Human Ecology, VoL 21(2): 115-143

Lombard KA, Beresford SA, Ornelas IJ, Topaha C, Becenti T, Thomas D, Vela JG (2014) Healthy gardens/healthy lives: Navajo perceptions of growing food locally to prevent diabetes and cancer. Health Promot Pract. 15(2): 223-231

Lombard KA, Forster-Cox S, Smeal D, O’Neill MK (2006) Diabetes of the Navajo nation: what role can gardening and agriculture extension play to reduce it? Rural Remote Health 6(4): 640. Epub 2006 Oct 16.

Moerman DE (1996) An analysis of the food plants and drug plants of native North America. Journal of Ethnopharmacology 52: 1-22

Wikipedia. https://it.wikipedia.org

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