Gen
02
2013
0

Piante in festa

 

Seppur con un po’ di ritardo, oggi parlo di alcune piante-simbolo di questi giorni di feste.

 

 

Il primo è l’agrifoglio (vedi foto sopra). Il suo nome scientifico è Ilex aquifolium e appartiene alla famiglia delle Aquifoliaceae. Nei paesi anglosassoni è comunemente chiamato holly, che è anche un bel nome femminile.
L’agrifoglio è un arbusto sempreverde che può raggiungere le dimensioni di un albero alto anche 10 m. Le foglie sono lucenti e coriacee e hanno aculei pungenti nel margine ondulato che possono però essere assenti negli individui vecchi. Gli aculei servono principalmente come difesa nei confronti di erbivori e proprio per questo sono di solito assenti nelle foglie più alte. Le sue foglie sono usate in erboristeria come rimedio contro le febbri e i reumatismi.
I fiori sono di un grigio perlaceo, profumati; crescono nel periodo aprile-maggio. Il suo frutto è la classica drupa carnosa di colore rosso marcato, molto appetita dagli uccelli ma velenosa per l’uomo. Con i semi, torrefatti e polverizzati, si preparava durante la guerra una bevanda simile al caffé. Il legno è usato per lavori delicati e fini di artigianato. Il terreno adatto per la sua coltivazione necessita di un buon drenaggio; deve essere argilloso, non calcareo. Oggi, questa pianta è annoverata fra quelle delle specie protette ed è quindi proibito raccogliere i suoi rami.
Attorno a questa pianta sempreverde sono nate molte favole e leggende, specialmente nei paesi nordici. Una delle più belle è questa:

C’era una volta un bambino che abitava in una casetta sperduta nel bosco. Tutti i giorni andava in cerca di legna per riscaldare il fuoco al focolare. Un giorno inciampò in una pianticina con le foglie irte di aghi. Cadde a terra e si punse in diverse parti della mano. Il sangue gli usciva copiosamente. Invocò il dio del bosco perché lo soccorresse in questa grande caduta. Ripetè più volte la sua preghiera al dio protettore, ma invano. Gli apparve invece un elfo che subito lo medicò, lo fasciò accuratamente e lo accompagnò alla sua casetta. Passò qualche giorno, il bambino tornò sul luogo dove era caduto. Con gran sorpresa, vide che sull’albero spinoso erano cresciute delle bacche rosse. Si fermò a pensare. All’improvviso gli si parò davanti il re del bosco che gli rivolse le seguenti parole: “Tu hai avuto fiducia in me, mi hai invocato; io non t’ho abbandonato, ho mandato un elfo che ti curasse. Per premiarti di questa grande fiducia in me, ho trasformato le gocce del tuo sangue in bacche rosseggianti. Questa pianta tu la potrai usare per guarirti dai tuoi malanni, ma per gli altri sarà molto dannosa”. Ancora oggi in quel bosco tutti vanno a ricordare quell’avvenimento.

 

Un’altra bella favola è questa, di origine trentina:

 

C’era una volta, in un paese tra i monti, un vecchio mercante. L’uomo viveva solo, non si era mai sposato e non aveva piu’ nessun amico. Per tutta la vita era stato avido e avaro, aveva sempre anteposto il guadagno all’amicizia e ai rapporti umani. L’andamento dei suoi affari era l’unica cosa che gli importava. Di notte dormiva pochissimo, spesso si alzava e andava a contare il denaro che teneva in casa, nascosto in una cassapanca.
Per avere sempre piu’ soldi, a volte si comportava in modo disonesto e approfittava della ingenuità di alcune persone. Ma tanto a lui non importava, perche’ non andava mai oltre le apparenze. Non voleva conoscere quelli con i quali faceva affari. Non gli interessavano le loro storie e i loro problemi. E per questo motivo nessuno gli voleva bene.
Una notte di dicembre, ormai vicino a Natale, il vecchio mercante non riusciva a dormire e dopo aver fatto i conti dei guadagni, decise di uscire a fare una passeggiata. Cominciò a sentire delle voci e delle risate, urla gioiose di bambini e canti. Pensò che di notte era strano sentire tanto chiasso in paese. Si incuriosì perché non aveva ancora incontrato nessuno, nonostante voci e rumori sembrassero molto vicini.
A un certo punto cominciò a sentire qualcuno che pronunciava il suo nome, chiedeva aiuto e lo chiamava “fratello”. L’uomo non aveva fratelli o sorelle e si stupì. Per tutta la notte, ascoltò le voci che raccontavano storie tristi e allegre, vicende familiari e d’amore. Venne a sapere che alcuni vicini erano molto poveri e che sfamavano a fatica i figli; che altre persone soffrivano la solitudine oppure che non avevano mai dimenticato un amore di gioventù.
Pentito per non aver mai capito che cosa si nascondeva dietro alle persone che vedeva tutti i giorni, l’uomo cominciò a piangere.
Pianse cosi’ tanto che le sue lacrime si sparsero sul cespuglio al quale si era appoggiato. E le lacrime non sparirono al mattino, ma continuarono a splendere come perle.
Era nato il vischio (vedi foto sotto).

 

 

Il vischio è un sempreverde che cresce come semiparassita, generalmente sugli alberi a foglia caduca (meli, peri, etc.) ma talvolta anche sulle conifere. È caratterizzato da radici (dette austori) che penetrano nel legno della pianta parassitata da cui derivano nutrimento e ancoraggio (quindi tutt’altro che benaugurante per le altre piante!). Crescendo con un ritmo lentissimo, il vischio giunge a creare masse vegetative di diametro fino a un metro. Le foglie sono spesse, piccole ed opposte a forma di ali aperte di uccello; i fiori giallo-verdi ascellari sono poco appariscenti, mentre molto note e caratteristiche sono le bacche, di color bianco madreperlaceo, che contengono il seme circondato da una sostanza appiccicosa. Tutte le parti della pianta sono tossiche; particolarmente pericolose le bacche, per la loro capacità di attrarre i bambini. La tossicità dipende dall’alto contenuto in viscumina, una sostanza che provoca l’agglutinazione dei globuli rossi e da altre tossine peptidiche.Il vischio è sempre stato una pianta sacra. Una specie di miracolo della natura che d’inverno spicca nei boschi quando alberi e arbusti mostrano solo rami spogli. Già Plinio il Vecchio descrive i rituali delle popolazioni galliche che accompagnavano la raccolta del vischio: “Nel sesto giorno dopo il solstizio d’inverno i druidi si avvicinavano alla quercia indossando vesti candide e conducendo alla cavezza due tori bianchi. Il capo dei sacerdoti saliva sull’albero e usando un falcetto d’oro tagliava i rami del vischio che venivano raccolti in una pezza di lino immacolata, prima che cadessero a terra. Poi, immolati i due animali, pregavano per la prosperità di quanti avrebbero ricevuto il dono”.
L’uomo è sempre stato incuriosito dai misteriosi mazzi verdeggianti, quasi sospesi sulle piante, ricchissimi di bacche perlacee in un periodo nel quale la natura non produce frutto alcuno. La pianta “che cresce senza toccare mai terra”, un po’ come il Barone Rampante di Calvino, è benaugurante ancora oggi: come da tradizione, nella notte di San Silvestro ci si scambia saluti, baci, auguri sotto il ramo di vischio (che non deve mai toccare per terra per non perdere i suoi magici poteri) in genere appeso sulla porta di casa, appunto là, come spiegava Plinio, tra cielo e terra.

 

Altre due piante simbolo del Natale e dell’inizio di anno sono l’elleboro (o “rosa di Natale“) e il più conosciuto pungitopo.

 

 

L’elleboro (Helleborus niger) (vedi foto sopra) , della famiglia delle Ranuncolacee, è anche chiamata rosa delle nevi o rosa d’inverno. In Inghilterra è considerata il fiore natalizio per eccellenza.
La leggenda narra che durante l’offerta di doni al Bambino Gesù, una pastorella vagasse in cerca di un dono da offrire, ma l’inverno era stato freddo e la povera pastorella non riuscì a trovare neanche un fiore da offrire. Mentre si disperava, vide passare un angelo che intenerito dalle sue lacrime si fermò, spolverò un po’ di neve davanti a lei e apparvero delle candide rose, che la ragazza raccolse e portò in dono al Bambinello.
L’elleboro è una pianta erbacea perenne rizomatosa, alta circa 30 cm; presente allo stato spontaneo nei boschi ombrosi calcarei, è diffusa come pianta da giardino a fioritura invernale. È costituita da foglie picciolate basali che permangono fino a dicembre. In questo periodo e fino a marzo circa, compaiono i fiori, grandi (diametro di 6-8 cm), di colore variabile dal bianco al rosa o al rosso vinoso. A fine marzo, alla scomparsa dei fiori e delle foglie vecchie, appaiono le nuove foglie che danno origine nel periodo estivo-autunnale a piccoli cespugli. Per il contenuto in composti cardioattivi (elleborina ed elleborigenina) la cui azione danneggia il cuore, questa pianta è ritenuta molto tossica sia per gli uomini che per gli animali.

 

 

Il pungitopo (vedi foto sopra), al pari dell’agrifoglio, è considerato foriero di fortuna. Il suo nome scientifico è Ruscus aculeatus e appartiene alla famiglia delle Liliacee. Si caratterizza per le sue foglie dure e con le spine, simbolo di forza e prevenzione contro tutti i mali.
Le bacche rosse sono il simbolo del Natale, il simbolo della luce e del buon auspicio, una promessa di abbondanza e fecondità per il nuovo anno che comincia. Secondo la leggenda, le foglie spinose rievocano le spine della corona di Cristo e le bacche il rosso del suo sangue. Il nome “pungitopo” deriva dall’usanza contadina di proteggere dai topi con mazzetti di questa pianta, i salumi e i formaggi messi a stagionare.
Diffuso in tutta Italia, è un cespuglio molto ramificato con fusti finemente solcati, può formare il sottobosco di foreste mediterranee. Ha delle strutture, che pur simili a foglie, sono fusti appiattiti (cladodi) che hanno sviluppato funzioni simili a quelli delle foglie, essendo anch’essi fotosintetici. I fiori maschili e femminili si trovano su rami diversi portati al centro dei cladodi. Il frutto è una bacca globosa, rosso brillante, contenente uno o due semi. I giovani germogli possono essere mangiati, avendo sapore simile a quello dell’asparago.
Le radici del pungitopo vengono raccolte tra settembre e novembre, il rizoma viene pulito ed essiccato al sole. La radice e il rizoma del pungitopo contengono saponine steroidi, dall’azione vasocostrittrice e antinfiammatoria, e rutina, che ha azione protettiva dei capillari. Il rizoma è proteico e diuretico. Il pungitopo è commestibile e con esso si possono preparare ottime frittate (vedi qui).

La leggenda narra che la croce di Gesù fosse fatta di ginepro (Juniperus communis). Una credenza popolare vuole che Maria trovasse rifugio proprio tra i rami di questa pianta. Il ginepro era considerato magica, perché si pensava tenesse lontano i serpenti e curasse dal loro morso. Nella tradizione cristiana, questa sua qualità venne interpretata come purificazione dai peccati.
Fino ai primi anni del Novecento nelle campagne dell’Italia centrale vigeva l’abitudine di bruciare un ramo di ginepro la sera di Natale, di S. Silvestro e dell’Epifania. Il suo carbone veniva poi impiegato durante l’anno in tanti rimedi magici. Sempre nella notte di Natale, rami di ginepro venivano appesi sulla porta delle stalle per proteggere gli animali dai malefici. Mentre fino al secolo scorso molti norvegesi la vigilia di Natale ornavano la casa con rami di ginepro, spargendone anche sul pavimento.
Il ginepro è una conifera con habitus di arbusto legnoso o basso alberello (5 m), con fusto contorto dal portamento talvolta strisciante e corteccia ruvida e rossastra. Le foglie aghiformi, appuntite, verticillate a 3 sono solcate da una linea chiara nella pagina superiore. I fiori, dioici, giallastri quelli maschili e verdastri quelli femminili, sono disposti in prossimità della’ascella fogliare e compaiono in primavera. I frutti, detti coccole, sono piccole bacche sferiche di colore verde, nero-bluastre a maturazione.
La più importante proprietà del ginepro è quella di aumentare la diuresi; questa attività, utile ai reumatici, agli artritici e ai gottosi, è stata studiata e confermata da autori moderni e dipende principalmente dalla presenza, nella droga, di un olio essenziale. Questo è inoltre un disinfettante delle vie urinarie e respiratorie, è un valido stimolante della digestione, un antifermentativo intestinale, un espettorante e un sedativo della tosse. Le foglie e il legno di ginepro hanno, per uso esterno, le stesse proprietà delle bacche. Dal ginepro, infine, si produce anche il gin.

Simbolo della terra, la melagrana è un frutto rappresenta la rigenerazione della natura. Gesù viene spesso dipinto con una melagrana in mano, che in questo caso acquista il significato simbolico di rinascita, resurrezione.
Il melograno (Punica granatum) appartiene alla Famiglia delle Punicaceae. E’ una pianta antichissima che proviene dalle regioni del sud-ovest asiatico, è diffusa e coltivata sia in Italia che in Spagna, nelle zone dove il clima è più caldo. È di crescita piuttosto lenta e modesta, infatti, non raggiunge altezze superiori ai 5-7 metri. Il frutto è una bacca carnosa, denominata balausta, con buccia spessa, e all’interno contiene molti semi carnosi, di forma prismatica, con testa polposa e tegumento legnoso, molto succosi e ricchissimi di polifenoli complessi e tannini a potente azione antiossidante.
E’ tradizione delle festività natalizie addobbare la tavola con cesti colmi di arance. L’arancia, il frutto dell’inverno per antonomasia, porta con sé il calore del sole e rappresenta il Natale a tavola per la speranza e lo splendore.
L’arancio (Citrus aurantium) è un alberello alto 5 m dal portamento talvolta arbustivo; ha foglie persistenti di colore verde intenso, coriacee, ovali, con margine intero o finemente dentato. I fiori di colore bianco, piacevolmente profumati (zagare), sono grandi. Il frutto è un esperidio di grandi dimensioni di forma sferica o ovoidale con scorza verde da giovane e di un bel colore aranciato a piena maturità.

 

Non mi resta che augurare a tutti voi un buon 2013!
Written by Horty in: Senza categoria |
Feb
12
2011
1

La rivincita del rettile vegetale

 

Questo che pubblico oggi è il post che ho scritto per il Carnevale della Biodiversità 2011. Spero vi piaccia. Il tema di quest’anno era “Biodiversità e adattamenti; la lotta costante per il cibo e per lo spazio“. Grazie a Lisa per l’invito e a Marco per la pazienza!


 

 

 

 

 

Sono stato a lungo indeciso sull’argomento di questo post (grazie Lisa!). Ho vagato con la mente dalle “exaptations” di gouldiana concezione applicate all’assorbimento di metalli pesanti al “barcoding” delle specie vegetali, ma mi sembravano idee astratte e artificiali nate da campus del nuovo mondo e da laboratori metropolitani, e invece a me serviva un’idea “terra terra”, nel senso etimologico e buono del termine, e non filosofica o “troppo molecolare”. Alla fine, l’ “illuminazione” è arrivata, come sempre, dall’esperienza vissuta. Ho ripescato le foto delle mie camminate e l’idea, latente, era là (Foto 1-3). La lotta costante per il cibo e lo spazio era sotto i miei occhi ma, temporaneamente distratto dal panino con la frittata nello zaino, non me n’ero accorto. Qualche mese fa, a Serra di Crispo sul Massiccio del Pollino, alzando lo sguardo, avevo detto al mio amico di viaggio che la scena mi sembrava quella di un assedio di faggi alle ultime roccaforti di pino. In realtà, non era un pino qualunque, ma il simbolo del Parco Nazionale del Pollino: il pino loricato. Gli alberi ergevano come fantasmi pallidi e corazzati, corazzati come coccodrilli (loricati entrambi!), dai lenti movimenti (anche le foreste si muovono!) come le tartarughe, testimoni di un passato remoto. Ma basta con la pseudo-poesia e torniamo alla xerofila scienza.

Il pino loricato (Pinus leucodermis Antoine) è un albero raro nonché uno dei più antichi dal punto di vista filogenetico. E’ presente soprattutto all’interno del Parco del Pollino, dov’è presente dalla fascia montana a quella alto-montana ma scende nel settore sud-ovest anche a quote più basse fino a raggiungere i 535 s.l.m. Nel 1863, il botanico tedesco Hermann Christ identificò un nuovo pino da campioni provenienti da ristrette zone montuose della Serbia, del Montenegro e della Grecia settentrionale, e lo chiamò “Pinus heldreichii Christ.”, in onore del suo scopritore, nonché grande botanico, Thoedor Von Heldreich. Nello stesso periodo, un albero simile venne descritto dal botanico Antoine che, evidenziando il colore chiaro della corteccia, gli assegnò il nome di Pinus leucodermis. Nel 1906, il botanico napoletano Biagio Longo studiò i campioni da lui raccolti sul Pollino attribuendoli alla specie “Pinus Leucodermis Antoine”, e coniò il nome di “pino loricato”. Notò infatti che la corteccia della pianta adulta si fessurava in caratteristiche placche poligonali che ricordavano la corazza dei soldati romani, chiamata appunto “lorica” (“thõreka”, “torace”, in greco antico, e “lorica” in latino) (Foto 4). Insomma, un pino la cui corazza è indispensabile per riuscire a resistere alle intemperie che flagellano i crinali del Pollino.

Foto 1. Pini loricati “sotto assedio” (Serra di Crispo, Parco Nazionale del Pollino; foto mie).


Foto 2. Pini loricati a Serra di Crispo (foto M. Campochiaro).


Foto 3. “Sentinelle” isolate di pino loricato “scrutano” l’esercito di faggi sottostante (Serra di Crispo; foto mia e A. Castelmezzano).


 

 

Foto 4. Lorica e pigne di pini loricati a Pietra Castello (a sinistra in alto;  foto A. Castelmezzano) e a Serra di Crispo (le restanti, foto mie).


Ma, alla fine, si tratta di una specie con due varietà o di due specie distinte? Sono due ma la loro origine è la stessa. Due, proprio in base alla classica e scolastica enunciazione di specie di Dobzhansky e Mayr: oramai non si incrociano più reciprocamente. L’areale della specie ancestrale sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo perché fossili e prove certe non ce ne sono) sia stato quello balcanico. I semi alati e leggeri, lunghi fino a circa 6-7 mm, sarebbero giunti nell’Italia meridionale nel Pliocene (da 5,3 a 2,6 milioni di anni fa, quando era un vero e proprio pantano), probabilmente per saltazione, cioè un po’ svolazzando, un po’ impantanandosi e germinando nei vari isolotti che incontravano, fino ad arrivare agli adolescenti Appennini (Foto 5). In seguito si sarebbe verificata una speciazione allopatrica: secessione e ciascuna specie per conto suo. Anche visivamente, si nota subito che in Pinus leucodermis la corteccia dei rami giovani si mantiene per molti anni liscia, lucente, di color cenere chiaro con areole squamiformi che ricordano la pelle di un rettile, e gli strobili (che a me è sempre piaciuto chiamare pigne) hanno la parte esterna della squama (apofisi) di forma piramidale; invece in Pinus heldreichii la corteccia dei rami giovani si scurisce precocemente e gli strobili presentano un’apofisi appiattita.

Foto 5. L’Italia Nel Pliocene (fonte:http://www.naturamediterraneo.com/forum/topic.asp?TOPIC_ID=47403).

Il Pollino è un massiccio molto particolare e ricco di biodiversità perché tra le sue montagne convivono allegramente elementi di tipo artico-alpino, elementi medio-europei, mediterranei, balcanici oltre ad un consistente numero di endemismi e di specie sopravvissute alla flora del Terziario (da 40 a 2,5 milioni di anni fa, di cui il Pliocene è l’epoca finale). Il pino loricato è stato ed è ancora definito “un paleo-endemismo terziario con areale anfi-adriatico”, “un elemento balcanico ad areale disgiunto”, “un relitto delle foreste a conifere mediterranee della penisola Balcanica e dell’Appennino meridionale”. Ma continuiamo pure a denigrarlo, e chiamiamolo anche “fossile vivente”, “relitto delle ere glaciali”, “scherzo della natura”, “stranezza del Creato”, ecc. ecc., tanto queste definizioni-clichès sono difficilmente dimostrabili e spesso scientificamente inesatte, e quindi non lo tangono più di tanto.

In Italia, la specie, ampiamente diffusa sui rilievi carbonatici sub-montani e montani dell’Appennino meridionale nei periodi secchi del Pliocene, ha subito un rapido declino nelle fasi glaciali del Quaternario che si manifestarono nell’Appennino meridionale, con modificazioni climatiche in senso fresco e umido (una mazzata per le conifere, amanti dei climi freddi ma secchi). Oggi, a fare buona compagnia al pino loricato ci sono altre specie che prosperavano nel Terziario, come l’agrifoglio, l’alloro e il tasso, guarda caso tutte specie arboree ricchissime di significati simbolici fino al Medioevo, come se la loro antica origine li abbia resi venerabili (imprinting degli alberi pliocenici sugli ominidi? Questa la suggeriamo a Roberto Giacobbo). Queste specie hanno trovato rifugio nella vegetazione post-glaciale e si rinvengono prevalentemente nella fascia di transizione tra i boschi di querce mesofile (vegetazione sannitica) e la faggeta (vegetazione subatlantica). Attualmente, l’areale di Pinus leucodermis gravita nel settore di influenza tirrenica (più freddo del suo compagno adriatico, con cui sul Pollino va a braccetto) dove prevalgono substrati carbonatici (calcari e dolomie del Mesozoico) ad elevata xericità, associati ad una morfologia rupestre. La specie è quindi esigente: preferisce il freddo, ma secco, e i substrati calcarei.

Ora rivolgo l’attenzione ai suoi avversari per il cibo e lo spazio, se no, tra incidentali e divagazioni varie, esco fuori tema e vengo bacchettato. Dopo l’ultima glaciazione del Quaternario (conclusasi 13500 anni fa), quando il ghiaccio copriva ancora molte zone montane, le foreste appenniniche erano limitate alle zone centro-meridionali. La facevano da padrone due specie oggi a distribuzione più marginale: guarda caso, proprio il pino loricato e il pino silano (Pinus nigra subsp. laricio; da calabrese, propendo campanilisticamente verso il secondo), con presenza sporadica di abete rosso (Picea abies L.). Successivamente, a causa del progressivo riscaldamento, comparvero i primi consorzi misti ad abete bianco (Abies alba Mill.) e faggio (Fagus sylvatica L.), l’abete rosso (quasi) scomparve gradualmente dagli Appennini, e le pinete si spostarono sempre più verso sud. Ma il caldo avanzava, e tra 10300 e 8800 anni fa (inizio dell’Olocene) era l’abete bianco che spopolava sugli Appennini, diventando così predominante. I pini si ritirarono verso la sommità dei rilievi. Nel frattempo, il subdolo faggio, di provenienza atlantica e desideroso di climi oceanici, all’arrivo delle glaciazioni si ritirò sulle montagne del Sud, ma era pronto a ripartire e ad espandersi con l’arrivo della bella stagione postglaciale, a danno delle querce e dei pini. E infatti, con l’instaurarsi di climi sempre più caldi e umidi (tra 7500 e 4500 anni fa), la diffusione del faggio sugli Appennini meridionali subì una forte accelerazione, raggiungendo l’optimum climatico circa 2.500 anni fa.

Foto 6. Pendii xerotermici a Serra di Crispo (foto in alto Mirella Campochiaro, le restanti mie).


Oggi, la fascia montana del Parco del Pollino, è anche detta subatlantica in quanto, al di sopra dei 1000 m, c’è un clima che si avvicina a quello diffuso nel Nord-Ovest dell’Europa, in prossimità dell’Oceano Atlantico, dove infatti le pianure, poste a livello del mare, ospitano estese faggete, analogamente alle montagne appenniniche. Tale clima è caratterizzato da discreta piovosità estiva e frequenza di nebbie, unitamente a temperature non eccessivamente alte. Qui, i boschi a faggio rappresentano le formazioni predominanti fra i 1100 e i 1800-1900 m; sul versante tirrenico, più fresco, non sono rare formazioni anche miste al di sotto di tale fascia, fino agli 800 m, e in ambienti di forra, anche a 500 m. Sul versante nord del Parco (Monte Sparviere, Piano di Iannace), le faggete vedono anche una cospicua partecipazione di abete bianco, il quale, presso il Bosco Vaccarizzo, scende a quote eccezionalmente basse. L’abete bianco, nel Parco, non si spinge quasi mai sui crinali più alti, eccetto che su Serra di Crispo, e quindi difficilmente compete con il pino loricato, anche perché predilige substrati argillosi. Le faggete dei massicci carbonatici del Pollino, invece, ampie e rigogliose, sfiorano i 2000 m e sono a diretto contatto con il loricato.

Questo, al contrario del faggio, non forma mai dei popolamenti chiusi, ma piuttosto delle pinete aperte in stazioni sfavorevoli al faggio, come ad esempio sui pendii xerotermici rivestiti da praterie (Monte La Caccia, Montea, Serra di Crispo, ecc.) (Foto 6-7). Frequenti sono gli esemplari isolati, anche di notevoli dimensioni, su costoni rocciosi, cenge rupestri (Pollinello, Colle Dragone). Grazie alle notevoli capacità di adattamento all’aridità del suolo, il loricato riesce a vivere al di sopra del limite del faggio; infatti, sulle rupi del versante meridionale della Catena del Pollino, diversi sono gli alberi vetusti attorno ai 2100 m. La bellezza unica dei boschi del Pollino è proprio questa: è l’unico esempio appenninico di una certa consistenza in cui una formazione di conifere arboree (il loricato) si colloca al di sopra della faggeta. C’è poco fare: le due specie sono in guerra per lo spazio ma anche per il “cibo”: entrambi preferiscono i substrati calcarei e scappano a radici levate davanti ai terreni argillosi. Dopo quella dai Balcani, quindi, la seconda migrazione, forzata, del loricato è stata quella in senso “verticale”, a causa della pressione del faggio, più forte e invadente.

Foto 7. Anfiteatri naturali di pino loricato a Serra di Crispo (foto mie).


Da biologo rompiscatole, mi chiedo però se tutte queste migrazioni del loricato siano dovute solo a cambiamenti climatici/microclimatici o anche ad altro. Cerco in bibliografia e trovo che il loricato si riproduce in modo estremamente faticoso e lento: la germinazione del seme richiede di due anni, a fronte dei 10-15 giorni occorrenti ai semi delle altre conifere, e l’accrescimento risulta 6-7 volte più lento che in altre specie di conifere (caso unico)! D’altro canto, è un albero molto longevo, potendo arrivare anche a 900-1000 anni (esemplari sul versante calabrese del Pollino) e quindi ha parecchio tempo per lasciare discendenti. Il suo legno è estremamente resinoso e ricchissimo di sostanze fenoliche ad effetto antimicrobico, antiparassitario e allelopatico. Non a caso, questa caratteristica porta a processi di marcescenza molto lenti dopo la morte della pianta, con l’ulteriore e suggestivo effetto di piante non più in vita ma che non crollano al suolo e restano erette per anni, trasformandosi in veri e propri monumenti arborei, “generatori” di nicchie ecologiche per insetti, nematodi e uccelli (Foto 8). Anche da vivo, però, la corteccia del loricato ospita una fauna varia e preziosa, come Buprestis splendens, un buprestide, unico in Italia, legato ai climi freschi mediterranei, ma anche altri coleotteri (buprestidi, curculionidi, scotilidi e ostomidi), o farfalle, tra cui il satiride Erebia gorge; e ancora, vertebrati come lo scoiattolo meridionale melanico (snello ed elegantissimo, con la sua pettorina bianca), la lucertola muraiola che si crogiola al sole sulle radici sporgenti, e uccelli come la cinciallegra, la cincia mora, il codirosso, il merlo del collare, il picchio nero e il picchio muratore (Foto 9).

Foto 8. Anche da morto, il pino loricato ha una funzione importantissima per il bosco, sia dal punto di vista ecologico che paesaggistico (foto mie).

Foto 9. Buprestis splendes (http://www.biolib.cz/en/image/id67420/), scoiattolo melanico (Sciurus vulgaris var. meridionalis)  (fonte: http://www.provediemozioni.it/index.php?pag=Scoiattoli) e maschio di crociere comune (Loxia curvirostra L.; foto mia).


Quale specie delle due “vincerà” la competizione per lo spazio? Il tutto dipende dalla scala di tempo considerata. Nell’immediato sembra che il loricato abbia la meglio sul faggio in quanto a difese dovute al suo metabolismo secondario (es. sostanze allelochimiche o repellenti per gli erbivori, escrezione di essudati radicali acidi che solubilizzino nutrienti difficilmente disponibili, ecc.). La sua resina, acida e ricca di composti fenolici semplici e complessi, è un forte antimicrobico che lo preserva da marciumi e batteriosi. Un’altra barriera efficace contro i patogeni e contro gli agenti atmosferici (fulmini compresi) è costituita dalla sua corteccia fortemente lignificata e suberificata. La struttura aghiforme e la disposizione compatta delle foglie ed il colore chiaro della corteccia, poi, permettono al pino loricato di riflettere la maggior parte della forte luce incidente (a 2000 m non si scherza), conservando solo quella che serve per la fotosintesi ed evitando così fenomeni di foto-inibizione. E’ stato altresì trovato che la traspirazione fogliare e la conduttanza stomatica in questa specie sono finemente regolate, per evitare di perdere troppa acqua a causa della bassa umidità dell’aria delle zone in cui cresce. Infine, le radici, robuste e plastiche allo stesso tempo, permettono alle piante di crescere e ancorarsi su rocce calcaree inaccessibili ad altre specie arboree, spesso su pendii fortemente scoscesi e su crinali che circondano precipizi. In un’ottica più ampia però, il faggio mostra una maggiore plasticità fenotipica (efficienza fotosintetica, struttura dei vasi xilematici, tasso di crescita) che gli permette un maggiore successo competitivo nelle condizioni attuali. E la mazzata finale al pino (e all’abete bianco) è costituita dal fatto che si riproduce non solo da seme ma per polloni (Foto 10), e che il suo legno non è poi così pregiato (gli abeti bianchi appenninici, ma anche i pini, hanno conosciuto molto bene le scuri umane! Recenti studi dendrometrici e dendrocronologici hanno dimostrato che anche l’uomo ed il pascolo hanno fatto la loro parte, insediando ancora di più la sopravvivenza del pino loricato (con qualche eccezione, come l’enorme incendio del 1948 sul monte della sulla Spina che lo ha favorito).

Foto 10. Faggi sui Piani di Acquafredda, Parco del Pollino. Si notano i numerosi polloni, diventati quasi tutti fusti principali (foto mia).

Il rettile vegetale ha perso? 4, 5… E’ quasi ko, messo al tappeto nell’angolino calcareo e secco del ring. 6, 7… E’ alle corde, ovunque attorniato da faggi. 8, 9… ma ecco che si rialza e pensa: “Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare” (Belushi J. et al., 1978).

Le condizioni climatiche e geopolitiche sono mutevoli, così come le specie che più o meno le seguono, e la situazione sta cambiando. Il clima del meridione, sta diventando sempre più caldo, ma anche più secco, e andando avanti così il faggio si ritirerà ed il loricato scenderà di nuovo in basso. Sembra quindi che ci sia un lento ma inesorabile ritorno al clima pliocenico e che il faggio avrà la peggio perché richiede un regime pluviometrico con precipitazioni uniformi durante tutto il periodo vegetativo. Osservazioni recenti testimoniano che, soprattutto al Sud, il faggio si sta ritirando, anche se lentamente. Un’altra prova a favore di questa ipotesi è che in Calabria (Pollino meridionale, Verbicaro, Orsomarso), dove il clima è più secco a causa della barriere costituita dal Pollino stesso, il pino loricato non si limita a permanere nella fascia subalpina, ma scende ampiamente nella zona del faggio, tanto da entrare quasi a contatto con la lecceta. E il faggio sta cedendo anche su altri fronti. Ad esempio, sul Monte Sparviere, nulla catena orientale del Massiccio del Pollino, una volta c’era la faggeta, poi soppiantata dal bosco misto a prevalenza di ontani ed aceri. Non per altro qui sono rimasti anche gli abeti bianchi, xerofili, favoriti  dalla presenza di rocce marnoso-arenacee, non adatte al loricato.

Il pino loricato, in declino fino ad una ventina di anni fa, appare ora in recupero grazie alla forte riduzione del pascolo e alla maggiore protezione (anche se a volte rimane sulla carta) e, specialmente nei suoi habitat di elezione, non è infrequente un attivo rinnovamento. Continuando così, potrebbe di nuovo espandere il suo areale, ripartendo proprio dalle montagne dell’Appennino meridionale. Anche per questo il pino loricato mi ricorda i coccodrilli, che restano nascosti sott’acqua e appena adocchiano la preda hanno dei rapidi scatti. Chi vivrà, magari 900 anni come i grandi Patriarchi del Pollino, vedrà.

Foto 11. A sinistra (foto A. Castelmezzano), pini loricati immersi nella faggeta (Timpa del ladro, Parco del Pollino). A destra (foto mia), splendido esemplare di pino loricato a Serra di Crispo.


Grazie a loro, ho scritto:

  1. Avolio S (1992) L’acquisizione forestale del pino loricato (Pinus leucoderma Antoine). Estratto da L’Italia Forestale e Montana Anno XLVII – Fase. n. 4: 211-227, Luglio-Agosto 1992. Firenze, Tipografia Coppini.
  2. Bernardo L (2010). Pino loricato: non chiamiamolo “fossile vivente”! Apollinea, nov-dic 2010: 16-17.
  3. Bernardo L (2001). Fiori e Piante del Parco del Pollino, 3a edizione. Edizioni Prometeo.
  4. Castelmezzano, A. (2011) Escursioni, chat e  chiacchierate  con il grande esperto A. Castelmezzano (anche se non lui non lo sa!)
  5. I boschi montani di conifere (2007) Quaderni Habitat. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare – Museo Friulano di Storia Naturale.
  6. Il pino loricato. Reperibile su http://www.terranostrabasilicata.it/default.aspx?pagina=pino
  7. Lambers H, Stuart Chapin III F, Pons TL (2008) Plant Physiological Ecology – Second Edition. Springer-Verlag.
  8. Lange W, Janezic TS, Spanoudaki M. (1994) Cembratrienols and other components of white bark pine (Pinus heldreichii) oleoresin. Phytochemistry 35: 1277-1279.
  9. Le faggete appenniniche (2006) Quaderni Habitat. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare – Museo Friulano di Storia Naturale.
  10. Omasa K, Nouchi I, De Kok LJ (2005) Plant Responses to Air Pollution and Global Change. Springer-Verlag.
  11. Schulze E-D, Beck E, Müller-Hohenstein K (2002) Plant Ecology. Springer-Verlag.
  12. Tassi F (1998) Studi sulla fauna del Pollino. Studi per la conservazione della natura, vol. 26; Ente Autonomo Parco Nazionale D’Abruzzo. Ed. Almadue srl, Roma.
  13. Thompson JD (2005) Plant Evolution in the Mediterranean. Oxford University Press.
  14. TodaroL, Andreu L, D’Alessandro CM, Gutiérrez E, Cherubini P, Saracino A (2007) Response of Pinus leucodermis to climate and anthropogenic activity in the National Park of Pollino (Basilicata, Southern Italy). Biological Conservation 137: 507-519.
  15. Willis KJ, McElwain JC (2002) The Evolution of Plants. Oxford University Press.
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