Set
01
2011
0

Grande è bello

 

Gli appunti universitari di ecologia risvegliano antichi dilemmi. Sembra che un organismo più piccolo significhi avere un metabolismo più veloce, una vita più corta, una maggiore temperatura corporea, e una maggiore capacità di riprodursi e di lasciare progenie che non viene curata più di tanto (strategia “r”, la chiamano). Facendo un paragone “astronomico”, gli organismi piccoli sembrano condurre una esistenza lampo così come una stella più grande e calda esaurisce prima il proprio combustibile idrogenato e vive milioni invece di miliardi di anni prima di scomparire. A pensarci bene è così; almeno negli animali, gli organismi piccoli vivono di meno e danno l’impressione di essere veloci, scattanti, brulicanti, ricchi di vita, con l’unico fine di riprodursi (penso agli insetti, ai vari vermi, ma anche a topi, conigli, gatti, ecc.). Se penso ai microrganismi unicellulari, procarioti o eucarioti che siano, il senso di brulichio e moltiplicazione è ancora più impressionante, al punto che già li vedo scindersi, gemmarsi, sporulare, coniugare; insomma ogni modo è buono per scambiarsi materiale genetico, dividersi e aumentare il numero di cospecifici.

La spiegazione che viene fornita a queste differenze tra organismi piccoli e grandi è quasi sempre la stessa: nei più piccoli il rapporto superficie/volume è maggiore, e gli scambi con l’ambiente esterno più elevati. Mi spiego meglio. A parità di forma – paragoniamo due sfere – quella più piccola avrà sicuramente meno volume e superficie di quella più grande (e fin qua ci siamo) ma il loro rapporto cambierà perché, all’aumentare del volume, questo cresce al cubo mentre la superficie al quadrato. Facendo un po’ di calcoli, ci si convince facilmente. La superficie di una sfera è 4πr2, mentre il suo volume 4/3πr3. Se la sfera ha un raggio di 1 m, la sua superficie è 12,56 m2, il suo volume 4,19 m3, il rapporto superficie/volume 3. Se il raggio diventa di 2 m, gli stessi valori diventano rispettivamente 50,24 m2,  33,49 m3 e 1,50. Una bella differenza, causata solo da un metro di differenza di raggio. Ma gli esseri viventi, ad eccezione dei Barbapapà, non sono sfere, hanno le loro “infinite forme bellissime”, e miriadi di attributi oltre alla forma. Questo è vero, ma è altrettanto vero che se c’è una fonte di calore al centro della sfera di 2 m, questo si disperderà più lentamente e difficilmente rispetto a quanto avviene nella sfera piccola. La sfera piccola, per mantenere una temperatura simile a quella della sfera grande, dovrà bruciare più combustibile nella sua fornace o bruciarne più velocemente, altrimenti si raffredderà. Nel caso di un organismo piccolo, esso dovrà avere un metabolismo più elevato e, poiché il metabolismo è paradossalmente alla base della nostra vita ma anche della nostra morte (il discorso qui sarebbe lungo), vivrà di meno.

Il discorso è valido non solo a livello di intero organismo ma a tutti i livelli, per esempio basta pensare che, a parità stavolta di dimensioni,  i tessuti che devono scambiare, disperdere, assorbire gas, calore, sostanze con l’ ambiente esterno sono formati da strutture piccole e ramificate, in modo da avere una maggiore superficie di scambio (penso alle branchie, agli alveoli polmonari, ai capillari, ai villi intestinali, alle radici delle piante, ma probabilmente ci sono innumerevoli altri esempi).

Cosa succede nelle piante? Sulla più autorevole e accessibile fonte del sapere, Wikipedia, da cui hanno preso spunto quasi tutti i testi di ecologa vegetale, leggo che “nella strategia r, propria delle piante, dei microrganismi, dei funghi, della maggior parte degli animali (soprattutto fra gli Invertebrati), l’energia è investita nel produrre un elevato numero di gameti e zigoti; dall’impatto con l’ambiente si avrà un’elevata mortalità, ma il numero di discendenti che sopravvivono e giungono alla maturità sessuale è così alto, in termini assoluti, da permettere anche temporanee fasi di crescita esponenziale.”

Quindi le piante sono organismi a strategia r e come tali dovrebbero avere piccole dimensioni, elevata prolificità, cicli di sviluppo brevi, intenso ricambio generazionale, elevata mortalità; e assenza di cure parentali.

In parole povere, le piante dovrebbero essere assimilabili agli invertebrati, e difatti generalmente generano uno sterminato numero di embrioni (semi) che si disperdono in qualche modo nell’ambiente e dei quali sono un piccolissima percentuale germina e dà origine ad individui adulti. Ma una pianta grande ha un metabolismo più veloce di una pianta piccola? Misurare il metabolismo di una pianta, soprattutto quello delle radici, non è così facile come negli animali, ma possiamo tentare di rispondere.

Innanzitutto, è vero che le piante hanno generalmente una strategia r? Ricordo che nelle Gimsnosperme (Conifere) e nelle Angiosperme (piante a fiore), la pianta madre ospita sia il gametofito (una pianta microscopica ma comunque diversa dalla pianta madre) e il nuovo embrione dello spermatofito. Cioè, più che una pianta madre è una pianta “nonna” che ospita altre due generazioni prima che il seme si disperda. Nelle piante a fiore, poi, il seme è protetto dal frutto, derivante solitamente dall’ovaio della pianta madre, e lo stesso seme possiede tegumenti protettivi derivanti dalla pianta madre. Quindi ci andrei cauto a dire che le piante non hanno meccanismi di protezione in qualche modo assimilabili alle cure parentali degli animali.

Per quanto riguarda invece le dimensioni, dando per scontato che la forma delle piante sia simile in quasi tutte le specie (cosa non vera ma, almeno nelle le piante terrestri, si riscontrano di solito radici, fusto e foglie) è vero che le piante, forse al pari o più degli animali, hanno un’incredibile varietà di forme, passando dalle sequoie giganti californiane che arrivano fino a 120 m, fino alle alghe unicellulari del genere Chlamydomonas, gradi circa 25 micron (0,025 millimetri). Se le sequoie vivono di più rispetto alle alghe, e quindi vale la regola del minor rapporto superficie/volume degli organismi grandi, è anche perché sono più differenziate e resistenti grazie ai tessuti lignificati e suberificati. Un paragone più calzante potrebbe essere fatto tra piante annuali/biennali (molte piante erbacee) e perenni (alberi di solito), ed effettivamente questi ultimi sembrano vivere molto di più e avere un ciclo vitale più lento, nell’ordine mediamente delle decine di anni. Ma anche tra gli alberi le differenze sono marcate, più di quelle che ci possono essere tra un elefante e un topolino (che in fin dei conti appartengono alla stessa classe), e non sempre determinate dalle dimensioni. L’olivo è una pianta longeva, che può vivere mediamente centinaia di anni, ma alberi relativamente “piccoli” come il tasso possono raggiungere i millenni, pur avendo una forma e una dimensione non molto diversa da quella di abeti e pini. Gli esempi sono tantissimi e non intendo annoiarvi ancora, ma qual è la conclusione che posso trarre?

Ad esclusione delle alghe unicellulari, assimilabili ai protozoi animali, le piante pluricellulari hanno un’estrema variabilità non solo per forme e dimensioni, ma anche per tipo di metabolismo, ciclo vitali e presenza/assenza di metaboliti secondari (sostanze come terpeni, polifenoli, tannini, alcaloidi, ecc., prodotti in misura e modo diverso dalle diverse specie vegetali e che conferiscono resistenza a condizioni ambientali avverse e organismi patogeni). Per così dire, il metabolismo vegetale è più complesso e variabile tra specie e specie. Mi sembra quindi che le differenze metaboliche tra una spugna e un primate siano in qualche modo minori rispetto a quelle presenti tra un muschio e un faggio. Sebbene la vita media delle piante sia correlabile alle loro dimensioni, la loro variabilità inter-specifica è troppo alta e sarebbe interessante applicare test statistici per determinare se c’è una vera e propria correlazione tra dimensione e durata della vita, come hanno finora fatto gli ecologi per molte specie di animali. Per quanto riguarda la classificazione delle piante come specie a strategia r, che ho riscontrato in quasi tutti i libri di ecologia, anche qui farei delle opportune distinzioni tra pianta e pianta e lascerei questa classificazione solo per gli animali.

E con questo, ho concluso!

Written by Horty in: Senza categoria |
Apr
02
2024
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Funghi per disinquinare

L’articolo di questo mese, con un taglio di dossier, si pone l’obiettivo di analizzare, comprendere ed affrontare la delicata tematica relativa all’inquinamento del suolo, in modo particolare quello legato all’inquinamento derivante dall’abbandono dei rifiuti plastici, descrivendone le cause, gli effetti e le azioni da applicare per contrastare questo fenomeno sempre più frequente. Lo scopo è quello di contrastare gli effetti negativi sugli equilibri ambientali ed ecosistemici, applicando un metodo naturale e abbastanza efficace: il micorisanamento, ovvero l’impiego dei funghi “mangiatori di plastica”, che hanno dimostrato di essere in grado di ridurre al minimo la presenza di plastica all’interno del suolo e rendere così sani ed utilizzabili quei siti che prima versavano in condizioni di degrado. Verranno considerate anche altre tipologie di contaminanti che alterano le caratteristiche dei suoli e di come il micorisanamento possa essere utilizzato ai fini del ripristino delle condizioni ottimali dei suoli.

L’inquinamento del suolo costituisce una delle forme di inquinamento ambientale più grave e diffusa. Infatti, gli equilibri ambientali e la biodiversità sono strettamente connessi alla presenza di un suolo fertile e sano. Tra gli effetti più importanti, l’inquinamento del suolo può interessare la salubrità delle falde acquifere e le riserve d’acqua, influenzando così, inevitabilmente, anche la qualità degli alimenti. L’inquinamento del suolo consiste nella presenza di sostanze tossiche che ne alterano le caratteristiche. Esse possono essere di origine naturale o sintetica e, in molti casi, hanno effetti negativi sugli organismi viventi, con dirette conseguenze sulla catena alimentare, e la salute e il benessere umani. Questo tipo di inquinamento può essere anche meramente fisico. In questo caso è rappresentato dalle alterazioni del suolo che favoriscono smottamenti ed erosione e che, a loro volta, causano una diminuzione del suolo fertile.

Perdiamo circa 24 miliardi di tonnellate di suolo fertile all’anno. In Europa, la superficie agricola rappresenta il 25% di quella totale e circa l’80% contiene residui chimici di sintesi. Sempre in Europa, sono presenti circa 2,8 milioni di siti industriali di cui si sospetta la contaminazione. La scarsità di suolo fertile altera interi ecosistemi, innescando una grave tendenza alla desertificazione.

Tra le principali cause dell’inquinamento del suolo ci sono i rifiuti solidi, liquidi e gassosi, provenienti dalle attività antropiche. Oltre ai rifiuti domestici, ci sono quelli speciali derivanti dalle attività industriali, come per esempio idrocarburi e rifiuti contenenti diossine, metalli pesanti e solventi organici. Essi sono troppo spesso i protagonisti indiscussi di veri e propri disastri ambientali che alimentano il business degli ecoreati e il degrado ambientale, con gravi danni per la salute e l’ambiente. I prodotti fitosanitari utilizzati per combattere le principali avversità alle piante, in modo particolare nell’agricoltura intensiva, costituiscono uno dei principali responsabili dell’inquinamento del suolo. Essi causano anche inquinamento idrico e sono responsabili di danni alla salute umana a seguito alla loro ingestione. Causano, inoltre, malattie professionali agli agricoltori e a chiunque venga in contatto con queste sostanze.

L’estrazione dell’uranio, il riprocessamento e lo stoccaggio delle scorie radioattive generano anch’essi un inquinamento radioattivo. In aggiunta ci sono i disastri ambientali dovuti a malfunzionamenti e incidenti di impianti nucleari (Fukushima, Cernobyl, Three Mile Island, ecc.). A questi si aggiungono anche i residui inutilizzabili di scorie radioattive che vengono sepolti in fosse oceaniche profonde o, in alcuni casi, interrati in zone geologicamente sicure e stabili. 

 

Effetti della plastica sui suoli

Le plastiche sono contaminanti emergenti di relativamente nuova scoperta. Molto si è detto sull’inquinamento degli ambienti marini e fluviali, su cui sono già attivi e funzionanti molti progetti tesi al recupero delle plastiche. Tuttavia poco, anzi pochissimo, si conosce sull’inquinamento dei suoli. Perché? Se è relativamente semplice separare le particelle di plastica dall’acqua, non lo è nel suolo, e le tecnologie attualmente a disposizione non sono abbastanza accurate. Parallelamente, però, è sempre più evidente la presenza di plastiche nei suoli, la loro influenza sul funzionamento degli ecosistemi, il fatto che entrino nella catena alimentare sino ad attraversare addirittura la placenta degli animali.

Un terzo della plastica prodotta nel mondo finisce nel suolo, e si stima che la quantità di plastiche negli ecosistemi terrestri sia da 4 a 32 volte maggiore di quella presente negli oceani.

La crescita delle piante viene inibita dalle alte concentrazioni di plastica nel terreno. L’accumulo di residui plastici influenza anche l’idratazione del suolo, il trasporto dei nutrienti, l’attività dei microrganismi e la salinizzazione, contribuendo alla ritenzione di contaminanti, come i pesticidi. Le microplastiche diventano parte della struttura del suolo legandosi alle particelle organiche. Con l’erosione causata da acqua e vento, queste particelle possono addirittura essere trasportate in luoghi lontani, raggiungendo bacini idrici e oceani. Le microplastiche sono poi ingerite dalla micro e mesofauna del suolo, come vermi, parassiti, collemboli, enchitreidi, accumulandosi così nella catena alimentare, con un potenziale di biomagnificazione, fino ad arrivare agli uccelli che si nutrono di questi piccoli animali (FAO, Soil pollution: a hidden reality, 2018, www.fao.org/3/i9183en/ i9183en.pdf – N. R. Eugenio, 2018).

Effetti delle micro- e macroplastiche sulla catena alimentare

Nella figura in alto sono visualizzate le zone dove sono presenti microplastiche in alta concentrazione: zone industriali, atmosfera, impianti di depurazione delle acque, terreni agricoli, spiagge, porti e dighe, città e strade, discariche (Global Change Biology, 2017). I tre cerchi in alto rappresentano uno zoom sugli effetti delle microplastiche sulla composizione chimica nel suolo (Fuller & Gautam, 2016), sul microbioma del suolo (Mccormick et al., 2016) e sull’ambiente biofisico (Huerta Lwanga et al., 2017; Liebezeit & Liebezeit, 2015; Maass et al., 2017; Rillig, Ziersch, et al., 2017; Zhu et al., 2018).

Foraggio rivestito con pellicola plastica per riparo dalle intemperie

La plastica è onnipresente in agricoltura. Infatti, le macroplastiche sono utilizzate come involucri protettivi attorno a pacciame e foraggi, coprono le serre e proteggono le colture dagli elementi, vengono utilizzate nelle tubazioni per l’irrigazione, sacchi e contenitori. Le microplastiche, invece, vengono aggiunte intenzionalmente ed utilizzate come rivestimenti su fertilizzanti, pesticidi e semi.

C’è solo una quantità limitata di terreno agricolo disponibile” – ha affermato Elaine Baker, Professoressa di Scienze Marine presso l’Università di Sydney e Direttrice ufficio GRID-Arendal (partner dell’UNEP) presso la stessa Università. “Stiamo iniziando a capire che l’accumulo di plastica può avere impatti ad ampio raggio sulla salute del suolo, sulla biodiversità e sulla produttività, tutti elementi vitali per la sicurezza alimentare”.

Nel tempo, le macroplastiche si decompongono lentamente in microplastiche di frammenti lunghi meno di 5 mm e penetrano nel terreno. Queste microplastiche possono modificare la struttura fisica del suolo e limitarne la capacità di trattenere l’acqua. Ciò può influenzare le piante, riducendo la crescita delle radici e l’assorbimento dei nutrienti. Gli additivi chimici nella plastica che filtrano nel suolo possono anche avere un impatto sul valore degli alimenti e portare a implicazioni per la salute, entrando nella catena alimentare.

La principale fonte di inquinamento da microplastica nel suolo sono i fertilizzanti prodotti con materia organica, come il letame, conosciuti come biosolidi, che dovrebbero essere più salubri per l’ambiente rispetto ai fertilizzanti di sintesi. Purtroppo nel letame si mescolano le microsfere, le minuscole particelle sintetiche comunemente utilizzate nel sapone, shampoo, trucco e altri prodotti per la cura personale, il che è motivo di preoccupazione. Esempi di fonti e trasporto di plastica e co-contaminati dalla produzione agricola all’ambiente (Fonte: “Plastics in agriculture: sources and impacts”, 2021).

Secondo uno studio, pubblicato il 1° luglio 2022 su Environmental Pollution e condotto da ricercatori dell’Università di Cardiff, i terreni agricoli d’Europa sono potenzialmente il più grande serbatoio globale di microplastiche a causa delle alte concentrazioni presenti nei fertilizzanti derivati dai fanghi di depurazione. Ogni anno, sui suoli dei terreni agricoli europei, sarebbero sparse tra le 31.000 e le 42.000 tonnellate di microplastiche.

Alcuni Paesi hanno vietato le microsfere di plastica, ma molte altre continuano ad entrare nel sistema idrico (nell’UE il divieto è scattato dal 1° gennaio 2021, ma in Italia è stato anticipato di un anno, valido solo per gli esfolianti e i detergenti a risciacquo), tra cui quelle dei filtri delle sigarette, dei sistemi di abrasione degli pneumatici e quelle derivanti dalle fibre sintetiche dei vestiti. Gli esperti affermano che le dimensioni e le composizioni variabili delle microplastiche le rendono difficili da rimuovere una volta che sono nelle acque reflue.

Attualmente, si stanno compiendo progressi per migliorare la biodegradabilità dei polimeri utilizzati nei prodotti agricoli. Alcuni teli per pacciamatura, utilizzati per modificare la temperatura del suolo, limitare la crescita delle erbe infestanti e prevenire la perdita di umidità, vengono ora commercializzati come completamente biodegradabili e compostabili, ma ciò non è sempre vero. Inoltre, i ricercatori sottolineano che la produzione di polimeri a base biologica non dovrebbe generare concorrenza per il suolo con quella utilizzata per produrre cibo. Possono essere utilizzate anche le cosiddette colture di copertura, che proteggono il suolo e non sono destinate alla raccolta. Queste soluzioni basate sulla natura (nature-based solutions, NBS) possono sopprimere le malerbe, contrastare le malattie del suolo e migliorarne la fertilità, ma si teme che possano ridurre i raccolti e aumentare i costi.

Nessuna di queste soluzioni è una bacchetta magica – ha aggiunto Baker – La plastica è economica e facile da lavorare, il che rende difficile provare a introdurre alternative “.

Secondo la ricercatrice, i governi devono “disincentivare” l’uso della plastica in agricoltura, seguendo il percorso dell’UE che ha limitato l’uso di alcuni tipi di polimeri nei fertilizzanti. Baker ha anche affermato che sono necessarie ulteriori ricerche per sviluppare prodotti, come alcuni tessuti alternativi, che non perdano microplastiche, mentre i consumatori dovrebbero essere incoraggiati a riconsiderare il loro consumo di plastica e i produttori a ridurre la quantità di plastica che usano.

Sebbene ci siano molte ricerche limitate all’impatto della plastica nel suolo, ci sono già prove di effetti negativi sulla salute e sulla produttività del suolo – ha concluso la ricercatrice – Ora è il momento di adottare il principio di precauzione e sviluppare soluzioni mirate per fermare il flusso di plastica dalla fonte e nell’ambiente”.

 

Il micorisanamento

Le complesse dinamiche che caratterizzano l’habitat dei suoli, costituiscono un ostacolo non indifferente alla ricerca scientifica, determinando una discrepanza tra i dati disponibili utili a stabilire l’entità dei danni e il tipo di intervento più idoneo al risanamento dei siti contaminati dalle diverse forme di inquinamento de suolo.

Il biorisanamento è una NBS che si basa sul metabolismo microbico di microrganismi, ambientali o artificiali, capaci di biodegradare e detossificare le sostanze inquinanti. Le diverse tecniche di micorisanamento si possono applicare in situ o in ex situ.

Le materie plastiche prodotte dalle diverse attività antropiche sono molteplici, con altrettante caratteristiche fisico-meccaniche, e la loro presenza in ambienti terresti deriva principalmente da fanghi attivi smaltiti in campo, teli di pacciamatura, irrigazione con acque reflue, inondazioni, ricadute atmosferiche, abrasione degli pneumatici, scarico illegale di rifiuti, ecc. Arrivate nell’ambiente, le plastiche hanno un impatto su tutti gli organismi viventi, causandone danni fisici e fisiologici, sino a provocarne la morte.

Secondo un rapporto della Commissione Europea ogni anno inaliamo o ingeriamo dalle 39.000 alle 52.000 particelle plastiche l’anno, l’equivalente di una carta di credito. Su queste premesse, la pratica del micorisanamento costituisce una valida soluzione alla riduzione di tali inquinanti nel suolo.

Le mascherine chirurgiche impiegano fino a 450 anni per decomporsi totalmente

Per secoli, i funghi che sono stati impiegati come prodotto alimentare proveniente dal bosco o da funghicoltura, oltre ad essere caratterizzati da esclusive proprietà aromatiche, organolettiche e proteiche, si sono rivelati essere più che semplici prodotti alimentari. Infatti, è stato scoperto che i funghi hanno una propensione unica a scomporre gli inquinanti, inclusi petrolio e pesticidi, e a estrarre o legare metalli pesanti, fino a contrastare persino le radiazioni (Ali & Di, 2017). I funghi sono inoltre in grado di filtrare l’acqua, supportando innumerevoli cicli vitali rigenerativi per gli ecosistemi.

Il micorisanamento è un metodo che utilizza il micelio dei funghi (la parte vegetativa di un fungo) in siti di terreno contaminati come trattamento riparatore. Gli enzimi prodotti da un fungo sono efficaci nell’abbattere molti diversi inquinanti. In sostanza, questo metodo sfrutta le naturali capacità di decomposizione dei funghi per ripristinare e rigenerare il terreno.

L’accumulo di metalli pesanti e sostanze chimiche tossiche nel nostro ambiente è un problema grave e sempre persistente. Queste tossine finiscono nella nostra catena alimentare (come metalli pesanti, PCB e diossine) e vanno incontro a bioaccumulo, ovvero l’accumulo graduale di una determinata sostanza chimica nel tessuto vivente di un organismo dal suo ambiente che può derivare dall’assorbimento diretto dall’ambiente o dall’ingestione di particelle di cibo. I miceli fungini possono rimuovere queste tossine nel terreno prima che possano entrare nelle nostre riserve di cibo e, infine, nel nostro corpo.

Il micelio è la parte vegetativa dei funghi: si tratta di filamenti bianchi sotterranei, chiamati ife, con una struttura siile a quelle delle radici e delle ragnatele, i quali sono colonizzano i suoli e altri ambienti ricchi di umidità, come i tronchi di alberi in decomposizione. Le ife sono deputate all’assorbimento di acqua e nutrienti.

Il micelio può essere persino resistente al fuoco e si è rivelato uno strumento straordinario per gli sforzi di risanamento ambientale. Alcune specie di funghi vengono addirittura “addestrate” nei laboratori per digerire rifiuti plastici, come mascherine polipropilene e guanti di plastica (Alexander, 2019). La maggior parte della degradazione avviene prima che si formi il corpo fruttifero; le tossine e i rifiuti vengono completamente assorbiti dal fungo in genere entro poche settimane (Alexander, 2019), un dato molto incoraggiante, visto che il tempo di degradazione delle plastiche nel suolo si può protrarre per decenni o secoli.

Micelio fungino

Il processo con cui i funghi decompongono la plastica coinvolge una famiglia di enzimi chiamati laccasi, i quali scompongono i polimeri in molecole più piccole, che possono poi essere assorbite dal fungo. Questo processo richiede da due settimane a diversi mesi, a seconda del tipo di plastica utilizzata.

Struttura tridimensionale di una laccasi

I funghi utilizzano una combinazione di enzimi per scomporre le catene di polimeri che costituiscono la plastica. Gli enzimi lavorano insieme ad altri microrganismi, come i batteri, per accelerare il processo. Oltre a scomporre la plastica, questi funghi rilasciano anche sostanze nutritive nel terreno, favorendo la crescita delle piante. Le laccasi sono in grado di scomporre le molecole più grandi in molecole molto più piccole, le quali possono essere assorbite dal fungo stesso o da altri microrganismi che vivono nel suolo. Infatti, i funghi si sono evoluti nel corso di milioni di anni per scomporre molecole complesse in componenti più semplici e più facili da metabolizzare. Questo processo è noto come biodegradazione: gli enzimi prodotti dai funghi rompono i legami tra gli atomi dei polimeri per rimpicciolirli e assorbirli nelle loro cellule. Come avviene per gli enzimi digestivi dell’uomo, i funghi digeriscono i polimeri.

Tempi di degradazione di diverse tipologie di rifiuti

 

Il ruolo dei batteri nel micorisanamento

Oltre ai funghi, anche i batteri svolgono un ruolo importante nel micorisanamento. Le popolazioni batteriche si affiancano a quelle fungine e contribuiscono a facilitarne i processi di decomposizione, producendo enzimi aggiuntivi che abbattono ulteriormente i polimeri. Questa categoria di batteri in grado di scomporre gli agenti contaminanti presenti nel suolo, comprende anche i batteri idrocarburoclastici (da qui la sigla BIC), ovvero organismi che si “nutrono” di petrolio utilizzandolo per i loro processi metabolici. I batteri secernono anche acidi organici che aiutano a sciogliere alcuni tipi di plastica e agiscono come catalizzatori per la produzione di enzimi fungini. Questa relazione simbiotica tra batteri e funghi rende il micorisanamento uno strumento ancora più efficace.

 

Funghi che degradano la plastica

Attualmente sono state identificate diverse specie di funghi mangiatori di plastica. Ognuna di esse presenta capacità più o meno accentuate nello scomporre diversi tipi di plastica, ma tutte e tre condividono alcuni tratti comuni.

Pestalotiopsis microspora

Questa specie è stata scoperta per la prima volta nei terreni della foresta amazzonica ecuadoriana, dove è stata osservata mentre decomponeva campioni di poliuretano espanso nel giro di poche settimane. È in grado di digerire sia le pellicole di polietilene a bassa densità (LDPE) comunemente utilizzate per gli imballaggi alimentari, sia le pellicole di polietilene ad alta densità (HDPE) tipicamente utilizzate per la produzione di bottiglie.

Pleurotus ostreatus e Schizophyllum commune 

L’inquinamento da plastica è una crisi globale e la scoperta dei funghi “mangiaplastica” è stata accolta come una soluzione rivoluzionaria. Due specie di funghi che si sono dimostrate promettenti in questo campo sono il Pleurotus ostreatus (il comune cardoncello) e lo Schizophyllum commune. Sul cardoncello ci ho lavorato anche io qualche anno fa e abbiamo pubblicato questo lavoro in cui è stato dimostrato che questo fungo è in grado di degradare persino sostanze medicinali.

Pleurotus ostreatus

Entrambi sono in grado di digerire il poliuretano, uno dei principali componenti di alcune plastiche. Sebbene siano necessarie da due settimane a diversi mesi per scomporre la plastica, a seconda del tipo utilizzato, questi funghi potrebbero essere uno strumento efficace per la bonifica dei rifiuti plastici.

Schizophyllum commune

Aspergillus tubingensis 

Aspergillus tubingensis è un’altra specie che ha la capacità di degradare poliuretano. È stata scoperta nel 2018 dai ricercatori dell’Università di Kyoto e da allora è diventata uno strumento importante per la bonifica dei rifiuti plastici. Questa particolare specie di funghi impiega circa due settimane per scomporre e consumare la plastica, a seconda del tipo di plastica utilizzata. Questo lo rende un efficiente digestore per sbarazzarsi efficacemente dei rifiuti di plastica.

 

Ma i funghi “mangiaplastica” sono commestibili?

La risposta breve è no: Aspergillus tubingensis e altri funghi mangiatori di plastica non sono commestibili e non dovrebbero essere consumati. Tuttavia, alcuni di essi, come il comune cardoncello, possono essere consumati. Inoltre, la ricercatrice australiana Katharina Unger ha creato un prototipo chiamato Fungi Mutarium che può essere utilizzato per coltivare questi funghi commestibili in grado di degradare plastica. Fungi Mutarium, un progetto di Livin Studio in collaborazione con l’Università di Utrecht, è un prototipo per coltivare una biomassa fungina commestibile, principalmente miceli, come un nuovo prodotto alimentare.

 

I potenziali benefici del micorisanamento

Il micorisanamento è un processo che prevede l’utilizzo di funghi per scopi di bonifica, come la degradazione di sostanze inquinanti quali gli idrocarburi derivanti dal petrolio (vedete, se vi va, questo lavoro che ho pubblicato qualche anno fa) o i policlorobifenili (PCB). Lo stesso processo può essere applicato alla plastica utilizzando alcune specie di funghi che si sono evolute nel tempo con la capacità di scomporre le catene di polimeri in composti più piccoli. Utilizzando le tecniche di micorisanamento, i ricercatori possono coltivare ceppi specifici di funghi che si nutrono di materiali sintetici come la plastica. Creando un ambiente in cui questi funghi possano prosperare, gli scienziati sperano che i loro sforzi portino a metodi più efficaci per scomporre i materiali artificiali in modo più rapido che mai. Grazie al micorisanamento, potremmo aver trovato un potente strumento per ridurre la nostra dipendenza dalla plastica e salvare il nostro pianeta!

Tra i benefici si possono annoverare:

  • Riduzione della necessità di spazio in discarica, grazie alla diminuzione della quantità di materiali non biodegradabili che vengono
  • Fonti d’acqua più pulite, grazie alla riduzione della lisciviazione dalle discariche nei corpi idrici
  • Uso più efficiente delle risorse, grazie alla trasformazione di ciò che altrimenti sarebbe un rifiuto in materiale

Utilizzando il micorisanemento, potremmo potenzialmente creare un’economia sostenibile e circolare basata sulla coltivazione dei funghi.

Un tipo di economia che ci aiuterebbe a ridurre la nostra dipendenza da materiali non biodegradabili, fornendoci al contempo fonti di cibo. Questo potrebbe rivoluzionare il nostro approccio alla soluzione di problemi ambientali globali, come l’inquinamento da plastica, migliorando al contempo i risultati in termini di salute della collettività.

 

Micorisanamento applicato ad altre tipologie di contaminanti

“Già in passato, i funghi hanno dimostrato grande capacità di sopravvivere e anzi di prosperare di fronte a mutamenti ambientali di grande portata: i funghi che decompongono il legno ebbero un ruolo importante nella transizione da un’epoca chiamata Carbonifero, in cui a causa dell’assenza di decompositori di lignina, il grande accumulo dei resti di alberi nel sottosuolo era stato causa di un importante cambiamento climatico. Proprio grazie alla loro capacità “decostruttiva” questi organismi hanno dimostrato capacità di sopravvivere alle devastazioni ambientali. Non soltanto la lignina, ma numerosi altri inquinanti possono essere digeriti e usati come fonte di sostentamento dai funghi: dai mozziconi di sigaretta ai pesticidi, a vari tipi di rifiuti agricoli, i funghi sanno trasformare vari inquinanti pericolosi per la vita umana e ripristinare ecosistemi gravemente danneggiati. I limiti relativi a queste pratiche di micorisanamento dipendono in larga parte dalla complessità di questi organismi: i funghi proliferano in modo irriducibilmente imprevedibile, così come il loro comportamento rispetto agli inquinanti rimane complesso. Il micorisanamento si configura come una forma di “digestione esterna”, o un’esternalizzazione di processi digestivi: un’associazione in cui organismi diversi intonano insieme una canzone metabolica che da soli non saprebbero cantare. In questa relazione, i funghi si configurano sia come tecnologie, che come partner degli esseri umani.”

Agganciandosi a questo concetto proposto da Merlin Sheldrake, biologo e scrittore naturalista, ci si rende conto di quanto sia vasto e complesso il mondo dei funghi, di come sia fondamentale la loro presenza negli ambienti per il mantenimento degli equilibri ecosistemici e di quanto siano variegate le loro funzioni in natura.

Oltre ad essere una pratica efficace e risolutiva, il micorisanamento trova impiego nel trattamento dei siti che oltre ad essere soggetti ad inquinamento plastico sono alterati dalla presenza di altri contaminanti. Ripristinare il suolo contaminato decomponendo le sostanze tossiche e risolvendo, alla base, il problema dello smaltimento è la missione di un interessante progetto dell’University of Wisconsin-Stevens Point che vede per protagonisti proprio i funghi. Oggetto della sperimentazione è stato un blocco di terra carico di petrolio. A novembre i ricercatori hanno iniziato a coltivarci funghi di buona qualità, con risultati sorprendenti. La terra non trattata si presentava fortemente odorosa di petrolio, mentre dove i funghi sono stati coltivati e cresciuti, invece, il suolo ha iniziato ad avere un buon profumo, un indizio che potrebbe essere il preludio di risultati interessanti.

Sito inquinato da sversamento di petrolio

L’olfatto, ovviamente, non fornisce una prova definitiva. Ma gli studiosi ritengono che le analisi di laboratorio possano confermare l’ipotesi più ottimistica. La speranza, insomma, è che i funghi abbiano saputo portare a termine il loro compito “ripulendo” di fatto il terreno dalle sostanze nocive che avrebbero potuto renderlo inutilizzabile.

Anche nei casi più critici di inquinamento del suolo non mancano i vantaggi. Per esempio, nel suolo contaminato da metalli pesanti, i funghi assorbono le sostanze nocive diventando a loro volta tossici. Ad essere ripristinato però è il terreno che, di conseguenza, non deve più essere bonificato. A quel punto, quindi, lo smaltimento riguarda solo i funghi. Con conseguente risparmio di spazio in discarica. Grazie a questo processo è quindi possibile ridurre i costi di smaltimento. Nel corso degli anni, gli esperimenti non sono mancati. Il micorisanamento è stato utilizzato anche per decontaminare i terreni dai pesticidi. Si trovano, infatti, studi di come i funghi riescano a scomporre pesticidi e molti farmaci. Paul Stamets, nel suo libro “Mycelium Running”, descrive molto bene come i funghi Trametes spp. e Psilocybe azurescens riescano a scomporre addirittura una potente neurotossina, il dimetilfosfonato. Grazie a queste capacità, il micelio della coltivazione di funghi, si presenta anche come la soluzione per filtrare l’acqua da Escherichia coli, colera, Listeria e altri agenti patogeni; fosfati, fertilizzanti, interferenti endocrini, metalli pesanti e rifiuti tossici a base di petrolio. Nel 2017, inoltre, alcuni ricercatori cinesi hanno isolato un altro fungo in grado di digerire il poliuretano. Pare, infatti, che ci sia un fungo, il Pestalotiopsis microspora, che ha una caratteristica molto particolare: si nutre quasi esclusivamente di poliuretano. Questo materiale è un polimero plastico particolarmente resistente, utilizzato in molteplici contesti, che si decompone in modo spontaneo nel giro di centinaia di anni. Sedili, tubi, imbottiture, imballaggi: il poliuretano è praticamente ovunque, ma con questo fungo la sua permanenza nell’ambiente potrebbe essere ridotta, e di molto. Ciò che differenzia il Pestalotiopsis dagli altri funghi in grado di “aggredire” la plastica è che può farlo anche in ambienti anaerobici, dunque senza ossigeno. Questo vuol dire che, potenzialmente, potrebbe crescere e proliferare anche in luoghi come fondi di discariche, dando un aiuto fondamentale a degradare più velocemente le inquinanti materie plastiche. I benefici e i vantaggi di questo utile organismo naturale scoperta sono stati descritti dal team di scienziati di Yale in un articolo pubblicato sulla rivista Applied and Environmental Microbiology. I ricercatori hanno fatto sapere che sono riusciti a isolare l’enzima che il fungo usa per sciogliere il legame del poliuretano, la serina idrolasi.

L’efficacia di queste tecniche, tuttavia, appare ancora variabile e sembra essere condizionata da tanti fattori. Proprio per questo, saranno necessarie ulteriori ricerche negli anni a venire per esplorare le opportunità di una strategia che resta in ogni caso promettente. È stato osservato, infatti, che alcuni interventi con Pleurotus spp. hanno avuto pieno successo nel degradare gas sarin e alcuni gas nervini. I fattori fisici che influenzano tali processi sono la temperatura, la presenza di ossigeno ed il pH (i funghi preferiscono lavorare in condizioni di pH acido).

Gas nervino

Altri risultati soddisfacenti, utilizzando funghi dello stesso genere, sono stati ottenuti in un terreno contaminato da gasolio sottoposto a pratica di micorisanamento. Dopo quattro settimane più del 90% degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) è stato degradato a componenti non tossici, anche grazie alla sinergia che si era creata con la flora microbica naturale presente nel terreno.

 

Conclusioni

Il potenziale dei funghi come risorsa sostenibile nella lotta contro l’inquinamento da plastica ha preso sempre più piede negli ultimi anni. Con la scoperta di nuove specie di funghi in grado di scomporre diverse sostanze inquinanti o di digerire il poliuretano, scienziati e imprenditori stanno esplorando modi per sviluppare un’economia basata su questi funghi “mangiaplastica”. Da questo ne scaturisce che la coltivazione dei funghi non è solo un’opzione valida per ridurre i rifiuti di plastica ma potrebbe anche creare posti di lavoro e offrire opportunità economiche alle comunità colpite dall’inquinamento da plastica.

L’excursus dei funghi mangiaplastica è stato finora un’incredibile storia di successo. Dai loro umili inizi come semplici funghi che crescevano in natura a fenomeno globale. Non solo questi funghi stanno aiutando a ridurre la quantità di inquinamento da plastica nell’ambiente ma potrebbero costituire in futuro una fonte di nutrimento sostenibile e rinnovabile per le diverse popolazioni del mondo o per le generazioni future. Con ulteriori ricerche e sviluppi, questa tecnologia rivoluzionaria potrebbe un giorno fornirci un modo davvero sostenibile per ridurre la nostra dipendenza dalla plastica e i suoi effetti negativi sull’ambiente.

Written by Horty in: Senza categoria |
Nov
19
2023
0

Azoto altrove

 

Benvenuti nel curioso mondo delle piante carnivore, dove la natura dimostra che anche le creature più tranquille e apparentemente inermi possono nascondere un lato decisamente “mordace”. Le piante carnivore, una categoria affascinante di vegetali, hanno evoluto strategie uniche per afferrare, catturare e digerire le loro prede, sfidando l’idea tradizionale che le piante siano pacifiche consumatori di luce solare. Questa flora vorace si trova principalmente in habitat umidi e poveri di nutrienti, dove il terreno è spesso carente di sostanze vitali come azoto e fosforo. Le regioni paludose, le torbiere e le zone con suoli acidi sono i luoghi prediletti delle piante carnivore, che si adattano a uno stile di vita che si potrebbe definire “fast-food naturale”. Le piante carnivore hanno sviluppato una vasta gamma di adattamenti per mangiare. Alcune utilizzano trappole appiccicose, come le foglie di Drosera, che sono punteggiate di piccoli tentacoli in grado di intrappolare insetti. Altre, come le celebri trappole di Venere (Dionaea muscipula), sfoggiano trappole a scatto, chiudendosi con precisione millimetrica quando un malcapitato insetto tocca i peli sensoriali delle sue fauci vegetali. Ma perché diventare carnivore? Queste piante si sono adattate a un ambiente in cui le risorse nutritive sono limitate. La loro dieta carnivora compensa la scarsità di nutrienti nel terreno, consentendo loro di attingere azoto e altri composti essenziali dalla decomposizione delle loro vittime. Una sorta di meccanismo di sopravvivenza che le rende astute cacciatrici. Le piante carnivore ci mostrano che la natura può inventare strategie uniche per la sopravvivenza. Esplorare il mondo delle piante carnivore ci offre un’affascinante finestra sulla biodiversità vegetale.

Le piante carnivore consumano insetti, ragni, rane e persino piccoli roditori! Attirano le loro prede con odori, colori e nettare, intrappolandole in foglie modificate. Solo lo 0,2% di tutte le specie vegetali è carnivoro e la carnivoria si è evoluta più volte all’interno di gruppi di piante non correlati tra loro. Come ho detto prima, molte piante carnivore crescono in ambienti poveri di nutrienti, per cui la loro capacità di assorbire le sostanze nutritive dalle prede digerite offre loro un vantaggio di sopravvivenza in questi habitat. Alcune piante carnivore digeriscono le prede con enzimi prodotti dalle piante stesse mentre altre specie dipendono da altri organismi, di solito microbi, per digerire le prede. Consigli per gli appassionati di giardinaggio: coltivate le piante carnivore in un luogo soleggiato, in un terreno sabbioso con aggiunta di muschio di torba; mantenete il terreno umido utilizzando acqua piovana o distillata, in quanto i minerali presenti nell’acqua del rubinetto possono danneggiare le radici delle piante carnivore.

Ma vediamo le piante carnivore più comuni (le foto sono mie, scattate al giardino botanico dell’UC Berkeley e al Conservatorio Botanico dell’UC Davis).

 

Trappola di Venere

Esiste una sola specie di trappola di Venere (famiglia Droseraceae) ed è originaria di una piccola zona costiera della Carolina del Nord e del Sud. Le foglie a doppio lobo fungono da trappola, con 2-5 peli di attivazione sulla superficie interna di ciascun lobo. Le ghiandole sulle foglie producono nettare per attirare gli insetti. Quando una mosca tocca consecutivamente due peli di innesco, una corrente elettrica provoca l’espansione delle cellule sulle pareti esterne della foglia, così la foglia si chiude in meno di un secondo. Gli enzimi digestivi secreti dissolvono poi l’insetto intrappolato.

(fonte: http://www.compoundchem.com/)

 

Drosera

Le drosere (famiglia delle Droseraceae) presentano un’incredibile diversità nella forma delle foglie, nel tipo di fiore e nelle dimensioni. Alcune specie sono piccole come un centesimo di euro, altre grandi come un cespuglio. Si conoscono almeno 170 specie, di cui più di 120 vivono in Australia. Le foglie hanno steli simili a peli con ghiandole rossastre che producono gocce di colla per catturare gli insetti. Un segnale elettrico fa sì che le cellule lungo un lato della foglia si allunghino, spostando la preda verso il centro della foglia, dove viene digerita e assorbita.

 

Utricularie

Le utricularie (famiglia Lentibulariaceae) crescono in tutti i continenti tranne l’Antartide. Delle oltre 200 specie, molte sono acquatiche, altre terrestri e altre ancora crescono sugli alberi. Lungo gli steli, si trovano minuscole trappole simili a vesciche (1-8 mm di lunghezza). Quando viene toccato un pelo del grilletto, la porta della trappola si apre. Le piccole prede vengono risucchiate in una trappola a vuoto, che viene poi richiusa entro 5 millisecondi. Animali come le pulci d’acqua vengono digeriti e assorbiti in poche ore.

 

 

Pinguicole

Le pinguicole (famiglia Lentibulariaceae) sono così adattabili che crescono vicino ai ghiacciai nell’Artico così come anche con i cactus e le succulente nei deserti del Messico. Circa 90 specie crescono in tutto l’emisfero settentrionale. Hanno rosette di foglie con i bordi rovesciati, che brillano alla luce. Le ghiandole sulla punta dei peli trasparenti producono gocce di colla e i piccoli insetti rimangono irrimediabilmente bloccati. In seguito, acidi ed enzimi dissolvono le parti molli della preda e le sostanze nutritive liquefatte vengono quindi assorbite.

 

Piante brocca americane

Molte piante brocca (famiglia Sarraceniaceae) prosperano in zone umide erbose tenute libere da cespugli e alberi grazie agli incendi provocati dai fulmini. La loro maggiore varietà si trova negli Stati Uniti sudorientali. Le foglie a forma di brocca/tromba presentano scie di nettare e motivi cromatici che attirano gli insetti sul bordo scivoloso della foglia. Le prede cadono nella foglia cava, dove i peli rivolti verso il basso ne impediscono la fuga. I batteri e gli enzimi digestivi dissolvono le parti molli del corpo e le sostanze nutritive vengono così assorbite.

 

Piante brocca tropicali

La più grande diversità di piante brocca tropicali (famiglia Nepenthaceae) si trova nei tropici del Sud-Est asiatico. Radicate nel suolo della foresta, queste piante producono due tipi di foglie cave. Quelle corte e tozze si trovano vicino al suolo, mentre quelle più lunghe e sottili penzolano a mezz’aria. Queste foglie modificate catturano una grande varietà di prede, tra cui formiche e insetti volanti, che vengono attirati dal nettare prodotto sulla parte inferiore del coperchio e sul labbro della foglia. I malcapitati vengono digeriti in una zuppa sciropposa di enzimi prodotta dal rivestimento della foglia a forma di brocca.

 

 

Le piante carnivore hanno sviluppato diversi meccanismi adattativi per catturare, digerire e assorbire sostanze nutritive dalle loro prede, spesso insetti. Ecco alcuni dei meccanismi di azione più comuni:

  1. Trappole ad azione rapida
    • Dionaea muscipula (trappola di Venere). Le foglie della Dionaea hanno lobi con ciglia sensibili. Quando un insetto tocca due ciglia in successione o si muove all’interno della trappola, le foglie si richiudono rapidamente, intrappolando la preda. Questo movimento è alimentato da cambiamenti osmotici nelle cellule delle foglie.
  2. Trappole ad azione lenta
    • Nepenthes (pianta brocca). Queste piante hanno foglie a forma di brocca riempite d’acqua e dotate di una struttura a coperchio. Gli insetti sono attratti dal nettare prodotto dalla pianta e possono scivolare nella parte liquida della foglia, dove vengono successivamente digeriti.
  3. Adesione e secrezione di enzimi
    • Drosera (rocchetto). Le foglie di Drosera sono ricoperte di tentacoli appiccicosi contenenti gocce di liquido appiccicoso. Quando un insetto atterra sulla foglia, rimane intrappolato e il tentacolo si avvolge attorno ad esso. La pianta poi secerni enzimi digestivi per decomporre la preda.
  4. Sarmenti catturanti
    • Byblis. Questa pianta presenta lunghe foglie filiformi con ghiandole appiccicose lungo la loro superficie. Gli insetti che atterrano sulla foglia vengono intrappolati dal muco appiccicoso, e la pianta successivamente assorbe i nutrienti dalla preda.
  5. Fossette catturanti
    • Utricularia. Queste piante acquatiche hanno piccole cavità chiamate utricoli, dotate di una valvola sensibile. Quando un piccolo organismo o un insetto attiva la valvola, l’utricolo si apre rapidamente aspirando acqua e catturando la preda. La pianta successivamente digerisce la preda nei suoi utricoli.
  6. Simbiosi con insetti
    • Sarracenia (pianta tromba). Questa pianta presenta foglie a forma di tromba che attraggono insetti con un liquido dolce. Gli insetti cadono nella foglia e possono annegare nella soluzione liquida, fornendo alla pianta nutrienti attraverso il processo di decomposizione.

Questi meccanismi dimostrano l’adattabilità delle piante carnivore a condizioni ambientali sfavorevoli, dove la disponibilità di nutrienti è limitata. Ogni specie ha sviluppato una strategia unica per catturare e sfruttare le prede per ottenere i nutrienti necessari alla sopravvivenza.

Qui sotto trovate un simpatico video con un mio dito catturato dalla trappola di Venere.

 

Written by Horty in: Senza categoria |
Lug
27
2023
0

Terreno traballante

Traduzione di “Shaky ground”
di Gabriel Popkin
Science, 381 (6656)
doi: 10.1126/science.adj9318

 

Lance Unger ha fatto le cose in modo un po’ diverso ultimamente nella sua azienda agricola vicino al fiume Wabash, nell’Indiana sud-occidentale. Dopo il raccolto dello scorso autunno, invece di lasciare i suoi campi incolti, ne ha seminati alcuni con colture di copertura di avena e sorgo che sono cresciute fino a quando il freddo invernale non le ha uccise. E prima di piantare mais e soia questa primavera, Unger ha usato una macchina per spingere via gli steli ingialliti – la “spazzatura” della scorsa stagione, come la chiama lui – invece di lavorare il terreno e ararlo. Per questi sforzi, un’azienda di Boston chiamata Indigo ha pagato a Unger 26.232 dollari alla fine del 2021 e una somma ancora maggiore alla fine dell’anno scorso. È quanto un mercato emergente valuta le centinaia di tonnellate di carbonio che, almeno in teoria, Unger ha sottratto all’atmosfera con le sue colture di copertura o che ha lasciato nel terreno non arando. Rallentare il cambiamento climatico non è una priorità per lui, dice, e non è stato facile cambiare le sue pratiche agricole di lunga data. Ma dice che il denaro ricevuto ne ha fatto valere la pena. “Ho bisogno di vedere dei benefici economici”. Anche Indigo ha guadagnato nell’affare. Ha preso una parte del 25% del pacchetto di crediti che ha poi venduto a circa 40 dollari per tonnellata di carbonio catturato. Gli acquirenti erano aziende come IBM, JPMorgan Chase e Shopify, che volevano compensare le emissioni di gas serra delle loro attività e rafforzare la loro reputazione ecologica.

Per i sostenitori, lo scambio rappresenta un bel connubio tra idealismo e capitalismo al servizio di una soluzione climatica urgentemente necessaria. “Vogliamo aspettare che il pianeta prenda fuoco?”, si chiede Chris Harbourt, responsabile della strategia di Indigo. Se applicata a tutti i terreni agricoli del mondo, la cattura del carbonio dal suolo potrebbe compensare tra il 5% e il 15% delle emissioni di gas serra ogni anno, secondo un influente studio del 2004 di Rattan Lal, scienziato del suolo dell’Ohio State University. “Io e molti altri scienziati abbiamo molta fiducia nel fatto che si possa creare carbonio nel suolo”, afferma Deborah Bossio, scienziata del suolo capo della Nature Conservancy. Milioni di dollari di crediti per il suolo sono già stati venduti e aziende come Indigo stanno aumentando in modo esponenziale per rivendicare una parte di un settore che potrebbe valere complessivamente 50 miliardi di dollari entro il 2030, secondo la società di consulenza McKinsey & Company. Poiché altri mercati del carbonio basati sulla piantumazione o sulla conservazione degli alberi sono stati accusati di vendere crediti discutibili o addirittura fraudolenti, alcuni acquirenti potrebbero considerare il suolo come un’opzione più sicura. Ma con il l’aumento di questa pratica, aumenta anche lo scetticismo. Alcuni ricercatori sostengono che la conoscenza di come i terreni immagazzinano e rilasciano il carbonio è troppo incerta per sostenere un’industria che sostiene di raffreddare il pianeta. E accusano aziende come Indigo di esagerare i benefici dei loro programmi. “Penso che la foga abbia distorto la visione di ciò che è realmente possibile”, afferma Ernie Marx, uno scienziato del suolo che si è ritirato dalla Colorado State University (CSU) nel 2021 e che ha lavorato per più di un decennio al modello informatico che Indigo e altre aziende utilizzano per calcolare i crediti. Anche Emily Oldfield, scienziata del suolo dell’Environmental Defense Fund, che ha esaminato i mercati del carbonio basati sul suolo, ha dei dubbi. “È davvero difficile valutare l’effettivo beneficio in termini di gas serra di questi programmi”.

Una cosa non è in discussione: l’agricoltura moderna non è mai stata gentile con i suoli, né con il clima. Nel corso dei millenni, i microbi hanno convertito parte del carbonio contenuto negli alberi e nelle piante morte in sostanze chimiche durature, creando terreni fertili in tutto il mondo. Ma da quando l’uomo ha iniziato ad arare e a disturbare il suolo, circa 12.000 anni fa, circa 116 miliardi di tonnellate di carbonio sono andate perse, erose dal vento e dall’acqua o digerite dai microbi e reimmesse nell’atmosfera sotto forma di anidride carbonica, hanno stimato gli scienziati in uno studio del 2017. Le cosiddette pratiche rigenerative dovrebbero costruire e proteggere il carbonio del suolo piuttosto che rilasciarlo. Alcuni dei più grandi colossi alimentari del mondo, tra cui General Mills, Land O’Lakes e Cargill, hanno abbracciato il movimento e sostengono di ridurre l’impatto climatico delle loro catene di approvvigionamento pagando gli agricoltori per adottare tattiche rigenerative. Anche il governo degli Stati Uniti sta investendo miliardi di dollari in quella che definisce “agricoltura intelligente dal punto di vista climatico”. Una meta-analisi di dati provenienti da appezzamenti sperimentali pubblicata a maggio ha dato un ulteriore incoraggiamento. Ha riscontrato che l’assenza di lavorazione del terreno e la presenza delle colture di copertura aumentano il carbonio del suolo superiore in media di oltre l’11%, anche se queste pratiche devono essere applicate per almeno 6 anni per generare guadagni significativi.


Suoli sani, pianeta sano. L’agricoltura moderna non è stata gentile con i terreni: Miliardi di tonnellate di carbonio sono stati dispersi nell’atmosfera o erosi. Le pratiche rigenerative possono aumentare la salute del suolo e immagazzinare carbonio, rallentando il cambiamento climatico e generando crediti di carbonio che possono essere venduti. Ma calcolare i benefici è difficile.

Altre recenti scoperte hanno però smorzato molti degli entusiasmi. Molti studi dimostrano che quando si riduce la lavorazione del terreno, il carbonio si accumula negli strati più alti del suolo. Ma gli scienziati che hanno scavato più in profondità hanno spesso trovato perdite compensate, in parte perché i residui colturali che la lavorazione avrebbe spinto nei terreni più profondi si decompongono in superficie e rilasciano carbonio nell’atmosfera. Inoltre, gli agricoltori sono soliti dissodare ogni paio d’anni per contrastare le erbacce e rompere il terreno compattato, liberando gran parte del carbonio immagazzinato negli strati superiori del suolo. Per quanto riguarda il carbonio, “non ho mai riscontrato un beneficio eccessivo nel no-till”, afferma Jon Sanderman, scienziato del suolo presso il Woodwell Climate Research Center. Molti ricercatori nutrono maggiori speranze per le colture di copertura fuori stagione, come la segale o i ravanelli, le cui radici ricche di carbonio sequestrano il carbonio nel terreno. Ma le colture di copertura hanno anche degli svantaggi. Possono ritardare o complicare la semina delle colture da reddito, quindi gli agricoltori spesso le eliminano in anticipo, sacrificando alcuni dei loro benefici. Inoltre, nelle regioni più fredde, tra cui gran parte della Corn Belt statunitense, il periodo che intercorre tra il raccolto autunnale e l’inverno è spesso troppo breve e freddo perché le colture di copertura possano germogliare e crescere. Ma forse il più grande ostacolo all’adozione diffusa di un’agricoltura rispettosa del clima è la mancanza di un modo pratico per quantificare il carbonio del suolo guadagnato attraverso una tattica rigenerativa. Ancora più difficili da misurare sono le emissioni di protossido di azoto, un potente gas serra rilasciato dai microbi del suolo che digeriscono i fertilizzanti azotati, responsabile di circa il 6% del riscaldamento climatico totale. Misurazioni precise richiederebbero strumenti costosi e campagne di carotaggio del suolo. “Non abbiamo un termometro per il carbonio del suolo da infilare nel terreno”, dice Keith Paustian, scienziato del suolo della CSU e consulente di Indigo. “Un agricoltore non può controllare il suo misuratore di protossido di azoto una volta al giorno”.

Questi problemi hanno ostacolato le aziende che cercano di commercializzare il carbonio del suolo. Nel 2019, la startup Nori, con sede a Seattle, ha annunciato di aver venduto i primi crediti di carbonio del suolo, generati da un coltivatore del Maryland. Ma i suoi metodi sono stati oggetto di critiche. Non solo Nori non ha raccolto alcun campione di suolo, ma non ha nemmeno fatto convalidare i suoi crediti da un registro, un’entità terza destinata ad aggiungere trasparenza e rigore ai mercati del carbonio. Gli scienziati di Indigo hanno pensato di poter fare di meglio. La società privata, che ha raccolto più di 1 miliardo di dollari, aveva un programma diverso quando è stata lanciata nel 2013. All’epoca si concentrava sui microbi benefici che, applicati ai semi delle colture, avrebbero dovuto aiutare le piante a crescere più velocemente e a resistere meglio. In seguito, l’azienda ha creato un mercato di materie prime per cercare di aiutare gli agricoltori a guadagnare premi per il grano coltivato in modo sostenibile, impresa che non è andata come previsto. Nel 2019, l’azienda ha annunciato di voler entrare nel settore dei crediti di carbonio per il suolo. A differenza di Nori, Indigo ha scelto di lavorare con un registro di terze parti chiamato Climate Action Reserve, noto per il suo lavoro nel m1111ercato normativo del carbonio della California. L’azienda richiederà carotaggi del suolo profondi 30 centimetri, prelevati ogni 5 anni, dal 10% al 30% dei campi agricoli partecipanti: una quantità sufficiente, secondo i calcoli degli scienziati dell’azienda, per valutare con ragionevole precisione il carbonio totale sequestrato. L’azienda si affiderà anche a un modello informatico accademico, sviluppato dalla CSU e finanziato dal Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA), per stimare i benefici climatici delle pratiche agricole.

 

Un agricoltore del Maryland pianta una coltura di copertura dopo il raccolto di mais, una pratica che può sottrarre carbonio dall’aria e immagazzinarlo nel terreno.

Il modello, lanciato negli anni ’80, era originariamente chiamato Century perché simulava le dinamiche del carbonio nel suolo su scale temporali di un secolo o più. Con l’aumentare delle preoccupazioni per il cambiamento climatico, il team della CSU ha cercato di espandere il modello per catturare il modo in cui i tre principali gas serra – anidride carbonica, metano e protossido di azoto – passano tra l’aria e il terreno durante una stagione di crescita. Ma Century modellava i cambiamenti a intervalli di tempo mensili, troppo grossolani per catturare i flussi di gas serra del mondo reale. Alla fine degli anni ’90, i ricercatori sono passati a un passo temporale giornaliero ed è nato DayCent. Da allora è diventato uno dei modelli del suolo più importanti al mondo. Molti dei principali modelli di previsione dei cambiamenti climatici includono il codice DayCent e l’Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti si basa sui suoi risultati per i rapporti annuali sulle emissioni alle Nazioni Unite. Nonostante la sua importanza, DayCent ha molti difetti. Non rappresenta esplicitamente il funzionamento reale del suolo, con miliardi di microbi che si nutrono del carbonio delle piante e ne restituiscono gran parte all’atmosfera, mentre ne convertono una parte in forme mineralizzate che possono rimanere per secoli. Invece, il modello stima i guadagni e le perdite di carbonio nel suolo sulla base di parametri regolati in base a risultati sperimentali pubblicati.

Un’altra sfida è quella di tenere conto del protossido di azoto, che i microbi del suolo possono emettere improvvisamente in grandi quantità. Senza una rappresentazione esplicita dell’attività microbica, DayCent ha faticato a prevedere quando il suolo emette il gas e in che quantità. “Il protossido di azoto è ancora più incerto del carbonio organico del suolo”, afferma Ram Gurung, uno statistico della CSU che lavora al modello. Un terzo punto debole: Per mettere a punto e verificare DayCent, i ricercatori si affidano ai dati di un numero modesto di prove sul campo universitarie e governative, che non sempre imitano accuratamente le condizioni reali delle aziende agricole. Si tratta di un insieme di dati troppo esiguo per rappresentare i vasti e variegati paesaggi e sistemi agricoli degli Stati Uniti, per non parlare del mondo intero, afferma Stephen Ogle, scienziato del suolo della CSU e uno dei principali sviluppatori di DayCent. “Direi che siamo affamati di dati”. Le limitazioni impongono ai risultati del modello incertezze che possono essere particolarmente grandi per le piccole aree. Uno studio del 2010 guidato da Ogle ha rilevato che queste incertezze potevano superare il 100% per una particolare azienda agricola o addirittura per una regione delle dimensioni di uno Stato, il che significa che il modello non era in grado di dire se il carbonio nel suolo si fosse accumulato o ridotto nel tempo.

 

Le carote cilindriche prelevate dai campi sono lo standard per la misurazione del carbonio nel suolo.

Tuttavia, alcuni ricercatori della CSU, insieme ai loro sponsor dell’USDA, volevano rendere la modellazione DayCent più accessibile al pubblico. All’inizio del 2010 hanno rilasciato COMET-Farm, uno strumento web basato in gran parte su DayCent. Gli agricoltori potevano inserire informazioni sui loro campi e sulle modifiche proposte alle pratiche, come la riduzione della lavorazione del terreno o l’introduzione di colture di copertura, e ottenere una stima del carbonio che avrebbero sequestrato. Le aziende hanno iniziato a mostrare interesse nell’utilizzo di DayCent e COMET-Farm per i mercati del carbonio. Marx afferma che le preoccupazioni per le gigantesche incertezze sono state sempre più ignorate, lasciando il posto a quella che definisce una “mentalità da corsa all’oro”. Nel 2019 Paustian, leader del team di modellazione della CSU, ha fondato una società chiamata Soil Metrics per fornire accesso commerciale a DayCent. Sia Nori che Indigo sono diventate clienti e nel 2021 Indigo ha acquisito Soil Metrics a titolo definitivo, mentre Paustian è diventato consulente. “Non ho mai voluto lavorare nel mondo degli affari”, dice Paustian, ma il suo gruppo di ricerca non riusciva a stare al passo con le richieste di aiuto che riceveva. In quel periodo, Paustian e altri ricercatori della CSU hanno lanciato un nuovo progetto per quantificare meglio le incertezze del modello. Secondo Marx, il team di ricerca ha scoperto che le incertezze erano ancora troppo grandi per dire se un particolare cambiamento nelle pratiche agricole avesse un impatto positivo o negativo sul clima. I risultati non sono mai stati pubblicati e l’interfaccia pubblica di COMET-Farm continua a dichiarare che i metodi per stimare l’incertezza sono “attualmente in fase di sviluppo”.

Adam Chambers, funzionario del programma USDA che finanzia e supervisiona lo sviluppo di DayCent e COMET-Farm, afferma che l’analisi dell’incertezza si è rivelata più difficile del previsto. “Ci siamo scontrati con i limiti della scienza”, afferma. “Siamo perplessi”. Chambers ha anche condiviso con Science un documento Word contrassegnato come “bozza confidenziale” che descrive parte del progetto inedito condotto dalla CSU. Mostra che i risultati di DayCent non solo sono incerti, ma anche distorti in modo da esagerare le stime di stoccaggio del carbonio per i terreni che contengono più di una certa quantità di carbonio. Chambers dice che potrebbero volerci anni per capire e correggere le distorsioni. Nel frattempo, Ogle afferma che la distorsione significa che i benefici climatici delle pratiche rigenerative, sebbene probabilmente maggiori di zero, “potrebbero non essere così grandi come stiamo stimando”. Riconosce che il team non è riuscito a comunicare le incertezze agli agricoltori, ai politici e ad altre parti interessate. “Dobbiamo fare meglio”. Marx ha infine concluso che il team della CSU stava deliberatamente oscurando le carenze del modello. “Non ci vuole tanto tempo per calcolare l’incertezza”, dice. All’inizio del 2021 ha presentato un reclamo sostenendo che i risultati dell’incertezza erano stati soppressi, violando le politiche di integrità della ricerca dell’università e dell’USDA. Lui e Paustian sono stati interrogati da una commissione d’inchiesta. Nella sua testimonianza, Paustian ha definito le accuse di Marx “assolutamente false”, secondo una copia del rapporto della commissione ottenuta da Science. Ha sostenuto che il progetto si è rivelato più impegnativo del previsto e ha affermato che, poiché i progetti di stoccaggio del carbonio creati da aziende come Indigo sono in genere distribuiti su molte fattorie, la quantificazione delle incertezze per un singolo campo non è così rilevante. “L’incertezza sui 40 acri di Farmer Jones, per me, non è molto significativa”, afferma.

 

Il mais giovane si fa strada tra le stoppie degli anni precedenti. Si ritiene che la semina senza lavorazione del terreno migliori la salute del suolo e immagazzini carbonio.

Anche Chambers difende il team. “Non c’è nessun altro modello che abbia divulgato in modo così trasparente i propri punti di forza e di debolezza”, afferma. Le stime di incertezza saranno incluse in una versione aggiornata di COMET-Farm che sarà rilasciata nel corso dell’anno, ha dichiarato Paustian. Nell’ottobre 2021, l’università ha respinto la denuncia di Marx. Tuttavia, nel suo rapporto, la commissione d’inchiesta ha rimproverato il team di modellazione per aver affermato nell’interfaccia di COMET-Farm che i risultati erano “accurati” – una parola che da allora è stata rimossa dal sito web. Chi lavora nei mercati dei crediti di carbonio per il suolo è consapevole dei limiti di DayCent e COMET-Farm. Radhika Moolgavkar, responsabile dell’offerta e della metodologia di Nori, che si basa molto su DayCent, definisce “preoccupante” la mancanza di stime di incertezza. Cristine Morgan, responsabile scientifico del Soil Health Institute, che sta sviluppando metodi per campionare e misurare il carbonio nei campi agricoli, afferma di non aver visto un modello abbastanza valido per sostenere un programma di compensazione del carbonio nel suolo. “In un mondo transazionale, si vuole la certezza, e i modelli sono attualmente molto incerti”. L’incertezza dei modelli non è l’unico problema che i ricercatori stanno riscontrando nel settore del carbonio nel suolo. Indigo promette che il carbonio accreditato rimarrà bloccato nel suolo per 100 anni, compensando le emissioni di combustibili fossili che rimarranno nell’atmosfera per secoli. Ciò significa che l’azienda presume che gli agricoltori manterranno le pratiche rigenerative per quella durata, molto tempo dopo la fine dei pagamenti annuali. Jane Zelikova, direttore del Soil Carbon Solutions Center della CSU, non è convinta. “La permanenza di 100 anni non è reale”.

Indigo afferma che sta facendo del suo meglio per ridurre le incertezze del modello. Sta affrontando il problema con un nuovo metodo “bayesiano”, con il quale i ricercatori identificano i parametri più importanti del modello e li mettono a punto in base al confronto tra i risultati del modello e i dati sperimentali. “Ciò che Indigo sta facendo è molto più sofisticato di ciò che il prodotto dell’USDA sta facendo in questo momento”, afferma Michael Dietze, ecologo dell’Università di Boston che ha esaminato i protocolli di Indigo. Sebbene l’approccio complessivo non sia “perfetto”, secondo Dietze, la strategia di Indigo di unire misurazioni e modelli per fornire stime ragionevolmente accurate “ha molto senso”. L’azienda tiene anche conto delle incertezze mettendo il 14,5% dei crediti creati dagli agricoltori in un “pool di riserva” piuttosto che venderli, nel caso in cui i disastri naturali cancellino i guadagni in termini di carbonio, afferma A. J. Kumar, vicepresidente di Indigo per la sostenibilità. “Se abbiamo fatto tutto bene”, dice Kumar, “l’impatto che abbiamo avuto è molto più di quello per cui stiamo effettivamente creando crediti”.

 

Le pratiche rigenerative, come le colture di copertura e il no-till, mantengono il suolo coperto tutto l’anno.

E l’azienda sta anche conducendo la ricerca che gli scienziati ritengono necessaria per dare a questi programmi una base più solida. Un paio d’ore a nord di casa Unger, in un’azienda agricola vicino ad Arcadia, nell’Indiana, un campo coltivato in copertura si è affiancato a un suolo nudo in aprile. Poco dopo, una squadra finanziata da Indigo si è recata sul posto per estrarre una serie di carote di terreno lunghe 30 centimetri e un metro, che l’azienda spera possano rivelare quanto più velocemente si sta accumulando il carbonio nel campo coltivato in copertura. Nel frattempo, una torre di flusso alimentata a energia solare misura l’anidride carbonica che entra ed esce dal suolo ogni 100 millisecondi. Tutto questo fa parte di un ambizioso esperimento sul carbonio nel suolo che Indigo ha lanciato nel 2019, insieme al suo programma di compensazione. E presto avrà un nuovo alleato: a luglio, l’USDA ha annunciato che avrebbe investito 300 milioni di dollari in una rete di siti di monitoraggio del suolo nei terreni agricoli statunitensi, cosa che ricercatori come Ogle e Paustian chiedono da tempo.

I leader di Indigo affermano che questi studi aumenteranno la fiducia, ma aspettare anni per avere i risultati prima di lanciare il loro mercato avrebbe significato un ritardo disastroso. “Abbiamo bisogno di soluzioni immediate per invertire il cambiamento climatico”, afferma Harbourt. Nel dicembre 2022, Indigo ha dichiarato di aver pagato a più di 400 agricoltori statunitensi 3,7 milioni di dollari per pratiche rigenerative attuate su oltre 170.000 ettari. L’anno prossimo spera di arrivare a 2,2 milioni di ettari sotto contratto. Il gigante dei prodotti chimici e delle sementi Corteva ha iscritto al programma Indigo più di 400.000 ettari coltivati dai suoi clienti. Per avere successo, Indigo e altri programmi di cattura del carbonio nel suolo non avranno bisogno solo della benestare dei ricercatori. Avranno anche bisogno di migliaia di agricoltori disposti a ripensare pratiche che in molti casi risalgono a generazioni fa. I primi adottatori, come Unger, forniscono note sia di ottimismo che di cautela. Sebbene l’invio di anni di dati aziendali a Indigo sia stato un problema, Unger dice di essere stato contento di lavorare con l’azienda fino ad ora. I pagamenti lo hanno aiutato a smettere di lavorare il terreno e a piantare colture di copertura su alcuni dei suoi campi di qualità inferiore, cambiamenti che voleva fare comunque. Ma Indigo non paga abbastanza da indurlo a modificare i suoi campi migliori. “Se è in linea con quello che sto già cercando di fare e vogliono pagarmi per questo, ben venga”, dice Unger. “Ma non ho intenzione di rischiare il mio futuro e quello dei miei figli”. E come alcuni ricercatori, mette in guardia dall’enfatizzare troppo l’agricoltura rigenerativa. Le idee che funzionano bene sulla carta possono essere stravolte dai capricci del tempo, dei mercati e di altri fattori imprevedibili che gli agricoltori devono affrontare. “Dire alle persone cosa fare in un’azienda agricola quando si è seduti in un ufficio a 1000 miglia di distanza da loro è piuttosto facile. Ma se sei tu a prendere le decisioni ogni giorno… non è questo il mondo in cui viviamo”, dice Unger. “Dire che ogni anno un agricoltore pianta una coltura di copertura è redditizio per voi e affermare che funzionerà, è una chimera”.

Written by Horty in: Senza categoria |
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