Lug
28
2019
0

Naturale? Artificiale? Coltivato?

 

Fin dall’antichità, l’uomo ha allevato le piante. Le ha coltivate, incrociate, selezionate e migliorate per i propri fini, cioè per avere raccolti di quantità e qualità elevate. Anche l’olivo (Olea europaea L.) non è stato sempre come lo vediamo oggi, con sesti di impianto regolari e forme di allevamento definite, ma deriva da un antenato chiamato olivastro (Olea oleaster L.), la sua forma selvatica, arbustiva e spinosa, originaria dell’Asia Minore e della Siria. Il percorso di questa pianta fu quello di arrivare in Grecia e da qui a Roma, da dove l’olivo si diffuse in tutto il Mediterraneo occidentale. Personalmente, sono molto legato a questa pianta perché, provenendo da un gruppo che si occupa di frutticoltura, ne ho indagato vari aspetti, di cui ho parlato spesso in questo blog. In questo articolo, mi limito ad alcune curiosità che ho trovato fotografando qua e là.

 

Quando i terreni erano meno sfruttati di oggi, in uno stesso campo si metteva spesso in pratica la consociazione, cioè la presenza nello stesso appezzamento di più specie. Qui nella foto un bell’esempio ad Egnazia (Brindisi) dove gli olivi centenari sono in consociazione con i cavoli. Un campo di questo genere è molto più ricco di biodiversità rispetto alla coltura singola. L’albero è rifugio per numerosi predatori dei patogeni e degli insetti erbivori che attaccano il cavolo; d’altro canto, il cavolo, che produce glucosinolati contenenti zolfo, allontana in parte insetti, batteri e funghi che hanno come bersaglio l’olivo. La competizione è limitata perché le radici dell’olivo sono profonde e in grado di estrarre acqua con più forza rispetto ai cavoli. A vedere la potatura drastica dell’olivo, mi chiedo però se non l’avessero lasciato solo per qualche vincolo ambientale.

 

 

Nel territorio di Campello sul Clitunno – non lontano da Spoleto – come in gran parte dell’Umbria, oltre che dal punto di vista agricolo, l’olivo ha una notevole importanza dal punto di vista idrogeologico, paesaggistico e culturale. Nel passato (XIII secolo), la coltivazione con dislivelli e pendenze estreme, ha necessariamente comportato la realizzazione di muretti a secco per la creazione di terrazzamenti e “lunette” di contenimento della terra intorno alle piante, rendendo il paesaggio ancora più suggestivo e particolare. Quando le campagne del centro Italia erano abitate e non semi-desolate come oggi, sistemi sostenibili come questo garantivano cibo ma allo stesso tempo preservavano il terreno dall’erosione, mantenendone la fertilità nel tempo.

 

 

L’olivo ha anche una forte connotazione paesaggistica. A Matera, la coltivazione di olivo faceva parte di un sistema di agricoltura marginale: terreni poveri, scoscesi e aridi la facevano da padroni. Oggi è possibile vedere poco dell’olivicoltura che si praticava anche tra i famosi Sassi. Questi ultimi sono oramai una meta turistica, ben lontana dall’estrema povertà di un tempo. Gli olivi si sono quindi “adeguati” ai nuovi bisogni degli umani. Coltivati in grandi vasi o in vecchie cisterne, l’argento delle loro chiome si staglia sul tufo circostante dei vicinati – gli spiazzi e i cortili all’esterno delle abitazioni, dove si viveva in comunità – con un effetto visivo molto bello. I più facinorosi ed esterofili li hanno fatti diventare alberi di Natale perenni, disponendo delle lucine sulle chiome.

 

 

Cambiando regione, camminando per campagne in Puglia (Trani), ecco l’olivo modello “barboncino”, frutto di accurata potatura estrema. Anche questo può piacere o no, ma le piante sono anche questo. A lato nella foto vedete gli stessi olivi dall’altra parte della strada. Quale forma vi piace di più? Quella snob radical-chic, o quella coltivata? La scelta sembrerebbe essere dicotomica ma aspettate la prossima foto prima di rispondere.

 

 

In realtà, qual è l’habitus reale dell’olivo coltivato, il suo stadio finale, il climax ecologico? Si tende a pensare agli olivi millenari del Salento o della Grecia, imponenti e severi. Tempo fa ho collaborato con ricercatori del CNR che, sotto loro richiesta, ho accompagnato in un oliveto caldissimo e desolato nelle campagne di Lucera (Foggia). Quella che vedete sotto è la differenza tra la metà del campo coltivata (a sinistra) e l’altra completamente abbandonata da 25 anni (a destra) per diverbi tra proprietari, come ci accennò veementemente uno dei due. La vista era sorprendente: un bosco fitto di rami impenetrabili, polloni che erano diventati tronchi, piante dove era ormai difficile capire quale fosse il fusto principale, sottobosco con pochissima vegetazione e coperto di centimetri di foglie secche. Ho subito capito che sarebbe stato difficile trovare un campo abbandonato da tanto tempo, oltretutto accanto all’omologo coltivato (nella foto si vedono anche gli alberi coltivati della prima fila che soffrono della competizione per nutrienti, acqua e luce con la foresta di olivo accanto). Prima che tagliassero tutto, abbiamo fatto dei prelievi e dopo un po’ pubblicato un lavoro, che potete trovare qui. Nonostante l’apparenza, i suoli del campo abbandonato avevano più carbonio e azoto, e una maggiore attività enzimatica. L’assenza di pratiche agronomiche aveva reso il terreno più ricco e fertile, sebbene poco gradevole alla vista.

 

 

Quelli che ci sembrano paesaggi naturali in realtà spesso, anzi quasi sempre, non lo sono. Anche in passato, l’agricoltura ha da sempre modificato il paesaggio, quasi sempre però rispettandolo. Cento anni fa non c’esisteva il traffico di prodotti agricoli – basato sui combustibili fossili – come ai nostri giorni; non ci si poteva permettere di degradare il suolo intorno la propria casa perché da esso si dipendeva quasi completamente per mangiare. Oggi possiamo permetterci di sfruttare e depauperare terreni lontani, e magari anche degradare e inquinare quelli vicini, per riempire le nostre pance, senza pensare che continuando così, la desolazione non tarderà molto ad arrivare anche sotto casa.

Written by Horty in: Senza categoria |
Feb
28
2016
0

Il digiuno delle piante

01 - Allelopatia

 

Oltre alle molecole principali che le piante normalmente producono durante il loro ciclo vitale, prevalentemente legate ai processi chimici fondamentali (come la fotosintesi, la respirazione, la fotorespirazione, la sintesi degli aminoacidi e di altri composti azotati, ecc.), ci sono composti, chiamati metaboliti secondari, la cui sintesi è regolata da fattori ambientali. Il fatto che siano “secondari”, non significa che siano meno utili rispetto agli altri, ma soltanto che seguono vie biosintetiche diverse da quelle principali. Le piante sono dei veri e propri laboratori viventi e producono migliaia di metaboliti secondari, principalmente fenoli, terpeni, composti azotati e molecole di difesa contro i patogeni (es., alcaloidi, glucosinolati, glicosidi cianogenici, ecc.).

 

Tra questi, i fenoli (circa 10.000 quelli identificati) sono i più conosciuti. Sono molecole aromatiche (presentano una struttura ad anello con doppi legami alternati) e dei gruppi -OH (idrossile), che conferiscono loro proprietà antiossidanti. Quelli che presentano più gruppi idrossile sono chiamati polifenoli. Molti fenoli hanno una funzione di difesa contro erbivori e patogeni, altri hanno una funzione di sostegno (il legno è un polimero fenolico), attraggono gli insetti impollinatori, assorbono le radiazioni UV e inibiscono la crescita di piante vicine della stessa specie o di specie diverse. Le piante, si sa, sono organismi sessili e sono quindi sottoposte continuamente a cambiamenti ambientali, molti dei quali sfavorevoli, per cui si servono dei fenoli per contrastare patogeni ed erbivori oppure per sopravvivere ad avversità climatiche e carenza di risorse. Dal momento che sono sintetizzati soprattutto in “situazioni difficili”, ci si aspetta che il livello di fenoli aumenti quando le piante sono sottoposte a “stress”, che siano di tipo abiotico (eccesso di luce, carenza di acqua o di nutrienti, eccessi termici, salinità, danno fisico, ecc.) o biotico (patogeni fungini, batterici, virus, ed erbivori).

02 - Polifenoli

Alcuni esempi di fenoli e polifenoli

 

Sarebbe lungo descrivere l’effetto di tutti questi stress sulla sintesi e l’accumulo di fenoli. La curiosità mi è venuta però dopo aver analizzato dei dai su lattuga, in cui osservavo che il livello dei fenoli totali (ma anche di molti fenoli specifici) aumentava in suoli trattati con pratiche agronomiche intensive (abbastanza poveri di azoto) rispetto a suoli gestiti biologicamente (ricchi di azoto). A parità di condizioni climatiche, dal momento che i due campi erano vicini e le caratteristiche fisiche e chimiche del suolo molto simili, le lattughe “biologiche” erano più grosse e ricche di elementi minerali, ma più povere di fenoli.

 

Anche se il discorso filava (più nutrienti = meno fenoli e minore capacità antiossidante), molti revisori del lavoro non sono stati d’accordo sui risultati, insistendo sul primato dell’agricoltura convenzionale, almeno sul piano delle rese (quindi, dicevano, convenzionale = più resa e meno fenoli; biologico = meno resa e più fenoli). Ora, il fatto che l’agricoltura convenzionale renda di più è spesso dovuto al fatto che la concimazione minerale (soprattutto azotata) è a buon mercato e quindi l’agricoltore spesso abbonda nelle dosi. Non parliamo delle ricadute della cattiva gestione di questo eccesso di concime aoztato sull’ambiente e sulla nostra salute, ma vediamo il tutto da una prospettiva vegetale. Avere più azoto, l’elemento minerale fondamentale per sintetizzare proteine, significa di solito crescere meglio e di più. E’ chiaro che il confronto con l’agricoltura biologica in questo caso non regge, dato che in regime biologico l’azoto è fornito sotto forma di materiale organico (letame, compost, residui colturali e di potatura), a lento rilascio e spesso in quantità calcolate in base al fabbisogno reale delle piante (raramente in eccesso).

 

03 - Gestione suolo

I risultati sui campi di lattuga gestiti con pratiche agronomiche differenti

 

Ma cosa succede se i due campi sono gestiti in modo differente da decenni (50 anni nel mio caso) e i tenori di azoto sono più o meno comparabili? Cioè, come si comporta la lattuga in due campi che differiscono solo nella gestione? In un campo biologico mi aspetto una struttura fisica (aerazione, ritenzione idrica, aggregati del suolo, ecc.) ottimali rispetto ad uno convenzionale; e difatti è quello che ho osservato. Le radici delle lattughine biologiche crescerebbero molto meglio in un suolo soffice, ben strutturato e ricco di sostanza organica, il tutto si ripercuoterebbe sulla pianta intera e sulla sua capacità di resistere agli stress ambientali. Mi aspetterei (come è avvenuto), meno fenoli, dal momento che ne servirebbero meno, e una pianta mediamente più grande. Dall’altra parte, le lattughe convenzionali sarebbero più stressate, in tutti i sensi, e produrrebbero più fenoli per contrastare le avversità naturali. Dal momento che tutte le altre condizioni erano uguali per entrambi i campi, l’effetto poteva essere solo quello della gestione. Il suolo biologico conteneva più azoto organico, questo era qualcosa che mi aspettavo, ma non c’erano grandi differenze in azoto minerale (nitrati e ammonio), quello che assorbono le piante, tra i due campi. La vera differenza, nelle piante biologiche, era però l’azoto nelle foglie, circa il doppio di quello delle piante non biologiche, e il minore contenuto di fenoli.

 

04 - Azoto fenoli

Le correlazioni inverse tra contenuto di alcuni microelementi nutritivi (ferro, rame e zinco) e del principale macronutriente (azoto) e il contenuto di fenoli totali, nel mio studio su lattuga

 

La carenza di nutrienti si può definire come un vero e proprio stress abiotico. Cercando in letteratura, ho visto che la correlazione tra il contenuto minerale delle piante e la biosintesi e l’accumulo di fenoli non è stata poi molto studiata, rispetto ad altri stress, e soprattutto non sono mai stati indagati i vantaggi per le piante. Si sa che l’attività e la trascrizione di tre enzimi chiave nella sintesi dei fenoli (fenilalanina ammonio liasi [PAL], polifenolo ossidasi e perossidasi) di solito aumentano se i nutrienti del suolo, e in particolare l’azoto, sono scarsi. Aumenti dell’attività della PAL e aumenti di fenoli nelle piante (e talvolta negli essudati radicali, le sostanze secrete dalle radici) sono stati osservati in piante fatte crescere a basse concentrazioni dei macronutrienti principali – azoto e, in minor misura, fosforo – ma anche la carenza di microelementi (es. Zn, Fe, Cu, Mn, Cd, Cr, and Pb) sembra aumentare la sintesi di sostanze fenoliche e un conseguente aumento di lignificazione, anch’essa una risposta dall’evidente funzione protettiva.

 

Modificando le proprietà fisiche e biochimiche della rizosfera (lo strato di suolo intorno alle radici), le piante aumentano la disponibilità di nutrienti e tamponano l’effetto di condizioni ostili, contribuendo alla crescita e sviluppo delle piante stesse. Ad esempio, quando il ferro è limitante, le radici secernono fenoli nel terreno e così alterano e stimolano i microorganismi del suolo, che a loro volta favoriscono l’ingresso nelle radici del poco ferro disponibile mediante la produzione microbica di sostanze in grado di intrappolarlo (siderofori e fenoli) e solubilizzarlo (fenoli e auxine). Inoltre, quando le piante non hanno sufficienti nutrienti, la produzione di metaboliti secondari aumenta perché la crescita è spesso più inibita della fotosintesi e il carbonio fissato è usato soprattutto per la sintesi di metaboliti secondari. La ridotta disponibilità di azoto sembra influire sulla sintesi delle proteine, per cui il precursore dei fenoli (l’amminoacido fenilalanina) aumenterebbe, favorendo quindi la sintesi di fenoli.

 

Per concludere, quali sono i vantaggi della produzione di fenoli in piante senza azoto? Su questo si sa ancora molto poco ma qualche ipotesi può essere fatta.

 

  • Molti fenoli sono inibitori della crescita, e una crescita ridotta è un vantaggio in condizioni in cui i nutrienti sono scarsi.
  • Molti fenoli sono agenti allelopatici, cioè inibiscono la crescita di piante vicine. Anche questo è un vantaggio quando il cibo è scarso per tutti.
  • I fenoli hanno un effetto deterrente contro gli erbivori. In suoli poveri di azoto, questo evita alle piante di riformare le foglie e i germogli mangiate dagli animali.
  • Come ho detto prima, senza azoto la crescita si riduce di più della fotosintesi, e questo causa un eccesso temporaneo di zuccheri. I fenoli sintetizzati costituiscono quindi una riserva di carbonio non appetibile per gli erbivori, ma sono pur sempre una riserva e, come tale, utile, soprattutto in condizioni in cui si prospetta carestia.

 

Insomma, come spesso succede, anche nelle piante la fame e la necessità aguzzano l’ingegno!

 

 

Grazie a loro, ho scritto:

 

Adesso, S., Pepe, G., Sommella, E., Manfra, M., Scopa, A., Sofo, A., Tenore, G.C., Russo, M., Di Gaudio, F., Autore, G., Campiglia, P., Marzocco, S. 2016. Anti-inflammatory and anti-oxidant activity of polyphenolic extracts from Lactuca sativa (var. Maravilla de Verano) under different farming methods. J. Sci. Food Agric. Accepted article. doi: 10.1002/jsfa.7622

Gershenzon, J. 1984. Changes in the levels of plant secondary metabolites under water and nutrient stress, in: Timmermann, B.N., Steelink, C., Loewus, F.A. (Eds.), Phytochemical Adaptations to Stress. Springer, New York, pp. 273–320.

Jin CW, You GY, Zheng SJ (2008) The iron deficiency-induced phenolics secretion plays multiple important roles in plant iron acquisition underground. Plant Signaling & Behavior 3(1): 60-61.

Juszczuk IM, Wiktorowska A, Malusà E, Rychter AM (2004) Changes in the concentration of phenolic compounds and exudation induced by phosphate deficiency in bean plants (Phaseolus vulgaris L.). Plant and Soil 267: 41–49.

Pepe, G., Sommella, E., Manfra, M., De Nisco, M., Tenore, G.C., Scopa, A., Sofo, A., Marzocco, S., Adesso, S., Novellino, T., Campiglia, P. 2015. Evaluation of anti-inflammatory activity and fast UHPLC-DAD-IT-TOF profiling of polyphenolic compounds extracted from green lettuce (Lactuca sativa L.; var. Maravilla de Verano). Food Chem. 167, 153–161.

Ramakrishna A, Ravishankar GA (2011) Influence of abiotic stress signals on secondary metabolites in plants. Plant Signaling & Behavior 6 (11): 1720-1731.

Ruiz, J.M., Rivero, R.M., Lopez-Cantarero, I., Romero L. 2003. Role of Ca2+ in metabolism of phenolic compounds in tabacco leaves (Nicotiana tabacum L.). Plant Growth Regul. 41, 173-177.

Velicković, J.M., Dimitrijević, D.S., Mitić, S.S., Mitić, M.N, Kostić, D.A. 2014. The determination of the phenolic composition, antioxidative activity and heavy metals in the extracts of Calendula officinalis L. Adv. Technol. 3, 46–51.

Wada, K.C., Mizuuchi, K., Koshio, A., Kaneko, K., Mitsui, T., Takeno, K. 2014. Stress enhances the gene expression and enzyme activity of phenylalanine ammonia-lyase and the endogenous content of salicylic acid to induce flowering in pharbitis. J. Plant Physiol. 171, 895–902.

Wright DM, Jordan GJ, Lee WG, Duncan RP, Forsyth DM, Coomes DA (2010) Do leaves of plants on phosphorus-impoverished soils contain high concentrations of phenolic defence compounds? Functional Ecology 24: 52–61.

Written by Horty in: Senza categoria |
Link FB

Link FB

Link FB

Tweets by Horty72


La Belle Verte



 
 
Link Plants