Gen
15
2016
0

La gioia di contenere cloroplasti

 

01 - Clorofilla

 

“Bene, Caporale Westerburg,” – disse di nuovo il Dottor Harris – “Perché pensa di essere una pianta?”

Il Caporale guardò in alto timidamente. Si schiarì la voce: “Signore, io sono una pianta, non solo lo penso. E’ da parecchi giorni ormai che sono una pianta”.

“Lo vedo.” –annuì il Dottore – “Vuole dire che non è sempre stato una pianta?”

“No, signore. Sono diventato una pianta solo recentemente.”

“E cos’era prima che diventasse una pianta?”

“Bene, signore, ero come voi tutti.”

 

(da “I pifferai”; Philip K. Dick)

 

 

Con le sue tipiche ambientazioni post apocalittiche e tinte fosche, Dick fa raccontare al Caporale Westerburg di essere una pianta. E difatti si comporta da pianta, smettendo di lavorare. Non solo; anche i suoi colleghi, di scorta su un asteroide al confine del Sistema Solare, sono affetti dalla stessa psicosi: sono convinti di essere diventati piante e passano tutta la loro giornata seduti al sole, attribuendo il motivo del loro cambiamento a misteriosi “pifferai”, una tribù indigena che vivrebbe sull’asteroide. Il Dottor Harris, che li ha in cura, si reca sull’asteroide e capisce che la psicosi deriva solamente dall’inconscio desiderio di non avere più alcuna responsabilità e abbracciare uno stile di vita semplice come quello degli alieni che vivono sull’asteroide.

 

Gli omini verdi sono una caratteristica tipica dei film di fantascienza e dei supereroi (buoni o cattivi che siano (ricordate Hulk, Lizard, i capelli Joker?). Già in “Sotto le lune di Marte” (1912), Edgar Rice Burroughs descrisse varie specie di marziani, tra cui una con la pelle verde. Tra il 1920 e il 1950 gli omini verdi diventarono popolari grazie alle riviste di fantascienza con le storie di Flash Gordon e Buck Rogers. A me vengono invece in mente gli elfi del bosco e le crature verdi a tre occhi di Toy Story, ma sono un caso a parte.


 

Pelle e capelli verdi sono sempre stati associati a individui minacciosi, proprio perché è un colore tipico delle piante e inusuale negli animali con cui l’uomo ha confidenza. Molti rettili hanno livree che colorate piò o meno di verde e spesso sono considerati animali malvagi o infidi, perlomeno pericolosi.

 

Ma perché gli esseri umani non sono verdi? E perché non fanno fotosintesi come le piante? In fin dei conti, ci risparmieremmo un bel po’ di fastidio e sarebbe comodo essere autotrofi.

 

Le piante sono verdi perché molte delle loro cellule contengono cloroplasti, organelli intracellulari in cui avviene la fotosintesi. I cloroplasti contengono clorofilla, il principale pigmento dal tipico colore verde che cattura l’energia della luce solare (in particolare quella rossa e blu) e dà avvio alla fotosintesi, vitale per la pianta. La sua atruttura chimica è curiosamente affine a quella dell’emoglobina, con una differenza principale: il magnesio, che nella clorofilla sostituisce il ferro dell’emoglobina (ne avevamo parlato in un post di qualche tempo fa).

 

I cloroplasti hanno una storia evolutiva piuttosto interessante, perché originariamente erano cianobatteri a vita libera, indipendenti dalle piante. I cianobatteri sono famosi perché sono batteri – ma non gli unici – che hanno “inventato” la fotosintesi, un processo che sfrutta l’energia solare per fissare il carbonio atmosferico gassoso (CO2) in carbono solido (zuccheri), utilizzando acqua come donatore di elettroni. L’invenzione ebbe, per così dire, molto successo e di conseguenza si diffuse velocemente. Anche altri gruppi batterici, più o meno indipendentemente e per vie leggermente diverse, arrivarono alla fotosintesi.

 

In un momento di grande ispirazione scientifica, Lynn Margulis si rese conto che i cloroplasti all’interno delle cellule vegetali erano cianobatteri “addomesticati” e catturati centinaia di milioni di anni fa da cellule eucariote (fornite di nucleo) ed eterotrofe (dovevano assimilare carbonio organicato), che quindi non facevano fotosintesi: nacque così la cellula vegetale e le prime alghe unicellulari.

Posso immaginare – e ci sarà sicuramente stato – il momento preciso in cui un antenato unicellulare della piante inghiottì un cianobatterio e, invece di digerirlo, si rese conto che si trattava di un utile parente acquisito. Grazie a quel momento, noi animali siamo qui oggi. Ancora più fondamentale per il funzionamento di tutti gli organismi superiori è un secondo organello, chiamato mitocondrio. Margulis comprese che anche questo era stato una volta un batterio vivente libero che sfruttava l’energia chimica rinchiusa in substrati zuccherini, come il glucosio. Quindi le cellule di piante sono praticamente chimere, contenenti DNA dell’ospite originale più quello dei due batteri catturati. Questa teoria è nota come teoria endosimbiontica.

Contenere cloroplasti porta un vantaggio enorme e immediato. Le cellule animali hanno solo i mitocondri, che permettono loro di ossidare il glucosio e sfruttare l’energia chimica risultante per il loro metabolismo, ma devono trovare una fonte di carbonio esterna nel glucosio (sono appunto eterotrofi). Questo significa dedicare una parte consistente del loro tempo per localizzare, appropriarsi e consumare del cibo. Le piante, d’altra parte, non devono preoccuparsi (sono autotrofe: la loro fonte di carbonio è inorganica). Esse possono utilizzare i cloroplasti per produrre il proprio glucosio, che possono poi passare ai mitocondri per liberare l’energia chimica, quando è necessario.

Se le piante non si curano di trovare glucosio, gli animali purtroppo non possono fare la stessa cosa. In realtà, alcuni animali hanno adottato un’altra strategia e si sono spinti oltre. Il cloroplasto era semplicemente un’invenzione troppo geniale e molti altri organismi cercarono quindi di mendicare, prendere in prestito o rubare cloroplasti altrui, principalmente da alghe unicellulari a vita libera. Questo processo è noto come endosimbiosi secondaria, per distinguerlo dall’endosimbiosi primaria, come quella prima descritta a riguardo dell’antenato delle piante che aveva inghiottito un cianobatterio a vita libera.

 

Non è del tutto chiaro il motivo per cui l’endosimbiosi secondaria sembra essersi verificata molte volte, mentre quella primaria si sia verificata una sola volta (anche se recentemente gli scienziati hanno scoperto un secondo esempio di un’endosimbiosi primaria in una specie di ameba (Paulinella), la quale sembra aver “addomesticato” un cianobatterio, riproponendo così l’evento che diede origine alle piante terrestri). Il trasferimento del cloroplasto mediante endosimbiosi secondaria ha dato vita a tutta una serie di organismi ecologicamente importanti, la maggior parte dei quali unicellulari. Questi organismi, tra i quali ricordiamo diatomee, dinoflagellati e euglenoidee (i primi due gruppi alghe e le ultime protisti fotosintetici) derivano da acquisizioni indipendenti di cloroplasti appartenenti precedentemente ad alghe. Euglena viridis, forse il più famoso rappresentante delle euglenoidee, è una specie fotosintetica come un’alga unicellulare ma può anche cambiare il suo metabolismo in eterotrofo quando la luce non c’è. E’ quindi un organismo mixotrofo e per questo non è considerato un’alga ma un protozoo, sebbene fotosintetico (nella foto qui in basso, una raffigurazione di Euglena viridis in computer grafica).

 

02 - Euglena

 

 

Gli organismi unicellulari fotosintetici sono a loro volta stati catturati da animali pluricellulari. Queste simbiosi si sono evolute in maniera indipendente molte volte e il rapporto tra l’ospite e il fotosimbionte ha assunto varie forme. Ad esempio, ci sono lumache marine verdi (Elysia), che rubano cloroplasti dalle alghe su cui pascolano (foto in basso). Queste non possono mantenere cloroplasti per lungo tempo e quindi hanno bisogno di un approvvigionamento costante. C’è ancora un dibattito molto acceso sul fatto che i cloroplasti siano davvero indispensabili per la lumaca.

 

03- Elysia

 

D’altra parte, molti organismi marini, come coralli, molluschi giganti e ascidie, sono totalmente dipendenti dai loro simbionti e non posono vivere senza di loro. La fotosintesi è ospitata anche nella salamandra “solare” Ambystoma maculatum (video qui in basso).


 

C’è poi il caso della Vespa orientalis, che possiede dei veri e propri pannelli fotovoltaici nell’addome e che, grazie alla xantopterina (il principale pigmento responsabile del colore giallo delle bande addominali, che si alternano alle bande nere, contenenti invece melanina) non solo assorbe energia solare e la dissipa come calore, ma addirittura è in grado di trasformarla in potenziale elettrochimico, con produzione di ATP (la principale molecola che accumula energia). In parole povere, il processo ricorda molto la fotosintesi, in cui la clorofilla converte radiazione solare prima in potenziale elettronico e poi in potenziale chimico sotto forma di ATP e NADPH.

 

Quindi, se lumache e ascidie possono trarre vantaggio dalla fotosintesi, perché noi non possiamo? Il tutto sta nel considerare il bilancio energetico di un grande animale multicellulare e molto attivo, quale un essere umano. Ogni giorno un adulto umano richiede l’equivalente del proprio peso corporeo in ATP, una molecola che immagazzina l’energia chimica rilasciata dall’ossidazione del glucosio. Per produrre circa 60 kg di ATP, un uomo adulto di media stazza richiede circa 700 g di glucosio al giorno. Considerando i tassi massimi noti per la fotosintesi nelle piante superiori, e che la superficie della pelle di un adulto è di circa 1,6 m2, un uomo con la pelle verde sarebbe capace di produrre soltanto un deludente 1% della sua domanda giornaliera di glucosio mediante fotosintesi. Quindi, per soddisfare le sue richieste di energia, l’ipotetico uomo fotosintetico dovrebbe avere una superficie di pelle equivalente a quella di un campo da tennis. Eppure, esempi di fotosintesi artificiale non mancano e recentemente è stato trasformato un batterio (Moorella thermoacetica) non fotosintetico al fine di indurlo a fotosintetizzare e a trasformare energia solare e anidride carbonica in acido acetico. Si tratta “solo” di batteri e non di esseri umani, ma è un notevole passo in avanti.

Le piante risolvono questo problema perché, a parità di volume, hanno una maggiore superficie esterna fotosintetica (epidermide delle foglie e degli altri organi verdi). Inoltre, l’epidermide delle foglie è più trasparente alla luce e le foglie si fanno attraversare facilmente dalla radiazione solare, considerando il loro piccolo spessore. In più, a livello cellulare, i cloroplasti contengono sacculi impilati e contorti, che nell’insieme hanno un’ampia superficie totale, chiamati tilacoidi, nelle cui pareti le molecole di clorofilla si infilzano come chiodi. E, per finire, i cloroplasti si possono muovere all’interno delle cellule, disponendosi secondo posizioni ottimali, al fine di catturare più luce possibile.

 

Dobbiamo quindi concludere, a malincuore, o che gli alieni verdi dovrebbero essere sostanzialmente più strani di quanto essi non siano attualmente ritratti nei film e nei fumetti, oppure che la fotosintesi che si è evoluta su altri pianeti, colonizzati da piccoli omini verdi, sia seriamente più efficiente di quella terrestre.

Qui, sulla triste Terra, non ci resta che rimanere eterotrofi, completamente dipendenti dalle piante per i carboidrati di cui abbiamo bisogno, e consumatori diretti di clorofilla solo per le sue preziose virtù extranutrizionali.

 

Written by Horty in: Senza categoria |
Set
10
2011
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I pionieri della vita

Le mie fissazioni al tempo dell’università erano tante (mai come quelle di ora) ma, tra queste, ricordo con piacere i Cianobatteri. Spero ancora di poterli studiare bene un giorno, o almeno osservarli con calma al microscopio perché ricordo ancora la bellezza di quando li vidi per la prima volta. A quel tempo, tra gli argomenti preferiti c’erano loro, al confine tra i batteri e le alghe. Mi piacevano già per il loro nome alternativo, molto equivoco: “alghe azzurre”, anche se sono batteri veri e propri e per niente alghe.

La stranezza di questi organismi sta infatti già nel loro nome. Sono chiamati infatti Cianobatteri, Cianofite, Alghe azzurre, Cianobatteriofite, ecc. ecc. Ma qual è il nome più appropriato? Ebbene, non sono alghe, ne’ protisti (dal momento che le alghe unicellulari sono profondamente diverse in quanto hanno un organizzazione cellulare con nucleo e parete, tipica della cellula eucariotica). Essi sono veri e propri batteri, quindi procarioti, privi di un nucleo, con un’organizzazione (uni)cellulare “semplice” (il loro DNA è lungo mediamente 5-10 milioni di basi) e un metabolismo molto plastico e adattabile. Sembrerebbe giusto quindi chiamarli “Cianobatteri”. “Ciano” perché il loro colore va dal verde all’azzurro pallido e tingono di questi colori le acque costiere in cui vivono.

Sono conosciute circa 7000 specie di Cianobatteri. Sono considerati veri e propri organismi “pionieri” perché arrivano per primi negli ambienti più inospitali, piantano la bandiera nelle nicchie ecologiche completamente libere, come quelle che si creano dopo un’eruzione vulcanica, e spianano la strada per le specie che si insediano dopo di loro. Dove vivono? In acque salate, salmastre e dolci, su rocce umide, in cortecce di alberi, in terreni saturi di acqua, nelle risaie, in simbiosi con funghi, nel terreno, nelle foglie di alcune piante tropicali e in tubercoli radicali associati alle radici. Praticamente dappertutto. Le loro forme, bellissime e svariate, vanno dalla quella a fusillo di Spirulina, a quella di fagiolino vibrante di Oscillatoria, a quella a spermatozoo di Gloeotrichia, e infine a quella a cloroplasto serpeggiante di Spirogyra, il cui nome è facilmente deducibile dal video qui in basso!


Dal momento che sono batteri, quindi organismi molto “plastici” e adattabili, si moltiplicano rapidamente se posti in condizioni adatte e alcune specie sono anche coloniali e mostrano un primo accenno di differenziazione cellulare (cioè non tutte le cellule hanno lo stesso compito). Riescono a sopravvivere nelle condizioni più estreme trasformandosi in spore attraverso un processo chiamato sporulazione.

La cosa stupefacente di questi organismi è che sono completamente autosufficienti: riescono a produrre autonomamente tutto ciò che a loro serve. Alcune specie di Cianobatteri sono completamente autotrofe e non hanno bisogno di nulla fuorché di luce solare.

Prima di tutto sono fotosintetici (foto-autotrofi) come le piante, e quindi in grado di sintetizzare carboidrati partendo da luce, acqua e sali minerali. Di acqua ne hanno in abbondanza, dal momento che sono organismi acquatici. Per quanto riguarda la luce, tendono a disporsi nei primi strati di acqua (zona fotica, dove c’è luce, insomma), in modo tale da averne a sufficienza ma contemporaneamente proteggendosi dall’eccesso di radiazione ultravioletta (che quasi si azzera già a basse profondità). La loro fotosintesi è molto efficiente perché riescono a sfruttare tanti tipi di radiazioni grazie alla presenza di altri pigmenti oltre alla clorofilla. Hanno infatti organelli chiamati ficobilisomi, contenenti ficobiline – che sono pigmenti proteici – e clorofilla di tipo “a”, due efficaci pigmenti per catturare luce di diverse lunghezze d’onda, oltre ad una serie di altri pigmenti appartenenti ai carotenoidi e alle xantofille. I carboidrati che producono vengono poi respirati per produrre energia per campare. Sono stati loro che per primi hanno inventato il tipo di fotosintesi che oggi si trova in tutte le piante; anzi, curiosamente sono stati loro che l’hanno trasferita alle piante (se siete curiosi, cercate su Google se vi va “teoria endosimbiontica dei cloroplasti” oppure, più semplicemente, guadate il video qui sotto).


Alcuni generi di Cianobatteri sono in grado di fissare l’azoto (es. i due generi coloniali Nostoc e Anabaena) e solo pochi di vivere in simbiosi. Per quanto riguarda l’azoto, non devono penare come tutte le piante che lo assorbono a spese di energia dal terreno, ma sono in grado di fissarlo dall’aria, trasformandolo in azoto organico! Nell’aria, di azoto ce n’è tanto e quindi non hanno problemi. Nelle specie azotofissatrici filamentose (l’organizzazione è sempre unicellulare ma nei Cianobatteri più evoluti più cellule si uniscono in catenelle e alcune di esse si specializzano) ci sono cellule speciali, chiamate eterocisti, con una parete cellulare più spessa che non lascia passare ossigeno e idrogeno gassosi, i quali inibirebbero la nitrogenasi e quindi la fissazione dell’azoto.

I sali minerali (di fosforo, potassio, zolfo soprattuto) sono disciolti nelle acque basse in cui vivono, oppure sono fornite dai funghi, con i quali alcune specie di Cianobatteri vivono in simbiosi obbligata con dei funghi, formando così il 50% di un lichene.

Se la luce non c’è, il cianobatterio medio non rimane fermo ma si muove grazie gonfiando e sgonfiando i suoi gas vacuoli (sacchettini ripieni di gas), che gli permettono di spostarsi su e giù lungo la colonna d’acqua. Se le condizioni ambientali diventano sfavorevoli, ecco che la creatura produce delle cisti durature (acineti o nannociti) che poi “germinano” quando la situazione ritorna buona. Nelle specie filamentose le colonnine di cellule si “spezzano” a livello di cellule che fungono da punto di rottura chiamate necridi.
E’ davvero troppo per un organismo vivente e fa pensare a tutte le cose di cui invece noi abbiamo bisogno per vivere!
Grazie e tutte questo arsenale di sopravvivenza, i Cianobatteri prosperano sulla Terra da 3,6 miliardi di anni (come dimostrano gli Stromatoliti (foto all’inizio di questo posto), antichissime rocce calcaree sedimentarie organogene:; alcuni esobiologici affermano di aver trovato tracce di ciano batteri fossili anche in meteoriti e ipotizzano così un’origine esogena della vita sulla Terra). Anzi, grazie all’inquinamento delle nostre coste, proliferano dando luogo a “fioriture” spettacolari perché hanno fonti inesauribili di potassio e azoto derivanti prevalentemente da scarichi fognari e domestici. L’importante per loro è che le acqua non siano torbide, se no addio luce, addio fotosintesi e addio mondo.

Partiamo allora tutti insieme con la preghiera al dio Cianobatterio.

1. Grazie Cianobatterio e all’ossigeno da Te prodotto. Da 2,7 miliardi a 200 milioni di anni fa, infatti, l’atmosfera si è arricchita di ozono, schermo efficace contro i raggi ultravioletti più dannosi, permettendo così l’instaurarsi della vita sulla terraferma. I Protozoi ancora non c’erano (600 milioni di anni fa sono comparsi i primi) e delle piante terrestri non c’era nemmeno l’ombra (dal momento che non c’erano le chiome degli alberi… battuta squallida, lo so), perché queste ultime sono comparse nel Siluriano, circa 400 milioni di anni fa. Insomma: senza di loro non ci saremmo stati neanche noi, e questo la dice lunga.

2. Grazie a Te, Cianobatterio, l’Asia mangia e le risaie sono gli ecosistemi antropici più duraturi nel tempo (sono produttive da migliaia di anni senza mai perdere di fertilità). L’azoto atmosferico viene infatti continuamente fissato da specie di Cianobatteri libere nell’acqua (es. Nostoc e Anabaena) e trasferito poi al terreno e quindi alle piantine di riso, che sono così naturalmente fertilizzate.

3. Grazie, o Cianobatterio, perché probabilmente da Te in futuro sarà possibile produrre etanolo a buon mercato da utilizzare come biocombustibile per le auto. Sembra infatti che alcuni Cianobatteri siano una fonte potenzialmente poco costosa per produrre zuccheri, da cui poi ricavare etanolo combustibile per fermentazione. Inoltre, coltivandoli in terreni non agricoli, molti Cianobatteri sarebbero in grado di crescere anche in acqua salata, quindi inadatta al consumo umano e all’irrigazione delle colture.

4. Infine, grazie Cianobatterio perché così anche gli studiosi di Cianobatteri possono campare di ricerca.

A volte i Cianobatteri sono estremamente dannosi, in quanto causano temibili fenomeni di eutrofizzazione e “fioritura algale” (con conseguente moria di organismi acquatici per asfissia e fenomeni putrefattivi) oppure producono tossine mortali, altri sono un flagello per gli appassionati di acquari perché formano dei fastidiosi filamenti che soffocano i pesciolini sia fisicamente che per mancanza di ossigeno (vedete qui in basso)


Non vi annoio più con tutte queste nozioni e lascio parlare alcune immagini.

Alla prossima!

Grazie a loro, ho scritto:

 

Cyanophyta. In: http://www.dipbot.unict.it/sistematica/Cyanoind.html

Filippo M. Gerola (1995) Biologia Vegetale – sistematica filogenetica (II ed.), UTET

I nuovi Cianobatteri e la prossima generazione di Biocarburanti. I nuovi microbi utilizzati per produrre etanolo, così l’interessante “invenzione” apre verso nuovi orizzonti sostenibili. In: http://www.genitronsviluppo.com/2008/04/29/i-nuovi-cianobatteri-e-la-prossima-generazione-di-biocarburanti-i-nuovi-microbi-utilizzati-per-produrre-etanolo-cosi-linteressante-%E2%80%9Cinvenzione%E2%80%9D-apre-verso-nuovi-orizzonti-sostenibi/

New Study Adds to Finding of Ancient Life Signs in Mars Meteorite. In: http://www.nasa.gov/centers/johnson/news/releases/2009/J09-030.html

Ray F. Evert (2006) Esau’s Plant Anatomy. Meristems, Cells, and Tissues of the Plant Body: Their Structure, Function, and Development. Third Editio. John Wiley & Sons, Inc.

Appunti, ricordi, riflessioni e considerazioni varie

Written by Horty in: Senza categoria |
Apr
12
2011
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Grande Rubisco!

Questo post partecipa alla terza edizione del Carnevale della Biodiversità (di cui potete vedere il nuovo e bellissimo logo in alto). L’ospite di turno del carnevale questa volta è il padre dell’idea di questa iniziativa, Livio Leoni sul suo blog Mahenghechromis, e l’argomento su cui graviteranno i post di questa edizione é “Le dimensioni contano”. Bella sfida, perché l’argomento è stimolante ma difficile per il mio campo, sempre un po’ troppo riduzionista. Allora, cominciamo.

La più abbondante proteina nelle piante (mediamente 30-40% delle proteine solubili dei cloroplasti, ma con punte del 50%) e della Terra è un enzima dal nome esotico di “Rubisco”, acronimo di D-ribulosio-1,5-difosfato (o bisfosfato) carbossilasi, che costituisce la principale entrata del carbonio nel mondo organico, fissando “miracolosamente” la CO2 atmosferica negli organismi fotosintetici. La Rubisco è anche uno dei più grandi enzimi presenti in natura, con un peso ragguardevole di 560.000 Daltons. Essa si trova nelle piante, ma anche nei batteri purpurei (dove ossida lo zolfo per fornire elettroni), nei cianobatteri, nei batteri chemolitotrofi e anche in alcuni archeobatteri, seppure in forme più semplici. Enzimi simili alla Rubisco sono stati perfino trovati in alcuni batteri eterotrofi (che quindi non fanno fotosintesi e quindi non si capisce cosa ne facciano!). La sua origine, così antica, e le sue tante funzioni suggeriscono che il suo ruolo iniziale non è stato quello di fissare la CO2. La comparsa e l’evoluzione di questo enzima è un evento molto particolare perché è probabilmente avvenuta quando la concentrazione di ossigeno nell’atmosfera (O2) era alquanto bassa (circa 1%) – e quella di CO2 molto più elevata di quella odierna. Nei batteri, la Rubisco aveva la funzione di detossificare le cellule di microrganismi anaerobi da O2. Quest’ultimo è infatti un forte ossidante e non offriva alcun vantaggio in un mondo microbico che andava avanti a fermentazioni e non respirava se non anaerobicamente.


 

Oggi, nelle piante, la Rubisco fissa la CO2, trasformandola da gassosa ad organica, ma allo stesso tempo fissa O2 in un processo chiamato “fotorespirazione”, una serie di reazioni sorprendente per un altro verso (ma questa è un’altra storia) e apparentemente inutile, in cui fino al 50% del carbonio fissato con la fotosintesi viene ri-ossidato a CO2 (da cui il nome). La Rubisco quindi funziona sia da carbossilasi che da ossigenasi; catalizza cioè due reazioni che sembrano essere l’una l’inversa dell’altra. Il mistero è perché la Rubisco sprechi metà del ben di Apollo (dio, appunto,del sole) faticosamente prodotto con la fotosintesi con la fotorespirazione. Che sia un caso mi sembra difficile, considerando la complessità della reazione ossigenasica, quindi quasi sicuramente la prima attività della Rubisco fu proprio quella di far fuori il poco ossigeno che era presente. Oggi, la concentrazione di O2 è maggiore (21%) e l’attività ossigenasica è diventata talmente alta da competere con quella che è l’attività “primaria” dell’enzima (la fissazione di CO2). Questo “esattamento”, casuale e inaspettato, ha consentito la comparsa dei primi organismi fotosintetici; un cambiamento che in questo momento permette a noi, nemmeno i vegetariani esclusi, di leggere queste righe.

La Rubisco è un enzima enorme, multimerico, formato da subunità piccole e grandi. La sua grandezza è probabilmente dovuta ai continui rimaneggiamenti che ha subito nel corso del’evoluzione, con l’acquisizione di nuove funzioni e il mantenimento di altre più vecchie. Molto probabilmente è comparso miliardi di anni fa nei Cianobatteri. Questi sono finiti in cellule eucariotiche, rendendole autotrofe, e trasformandosi in cloroplasti. La Rubisco presente nelle piante superiori è costituita da 8 subunità grandi (quelle catalitiche), identiche tra loro, unite in 4 paia, e 8 identiche subunità piccole disposte in due anelli di quattro subunità ciascuno (vedete la sua struttura molecolare nel video in alto). Per la loro maggiore importanza, le quattro subunità grandi sono molto conservate tra le specie (∼90% di identità) mentre le piccole, dove le mutazioni si possono scatenare di più, molto meno (∼70% di identità). Nelle piante, i geni per le subunità piccole della Rubisco (attivati dal fitocromo, e quindi dalla presenza di luce solare) sono state trasferite dal genoma del cloroplasto a quello nucleari. C’è stato quindi un trasferimento genico dal cloroplasto al nucleo che ha sancito così la loro indiscindibilità. Il cloroplasto è diventato da organello indipendente a semi-autonomo, e attualmente dipende dal genoma del nucleo per la maggior parte delle sue proteine. L’origine endosimbiontica del cloroplasto è anche confermata dal fatto che il suo genoma è circolare (Figura 1), come quello dei batteri. Coordinare tutte queste subunità, per giunta sintetizzate in posti diversi della cellula, è estremamente complicato. Così com’è anche difficile il coordinamento di tutte le 16 subunità, che avviene ad opera di simpatiche proteine “accompagnatrici” chiamate chaperonine.

Figura 1. Il genoma plastidiale di pomodoro e patata (fonte: Verpoorte, Alfermann e Johnson, 2007).

Che l’enzima sia grande e sia tanto abbondante, si nota dai gel 2D di proteine totali estratte dalle foglie: una buona parte delle zone nere che vedete, e che indicano la presenza di proteine, sono dovute alla Rubisco! (Figura 2).

Figura 2. Gel di elettoforesi 2D in cui sono mostrate le subunità grandi (LSU) e piccole (SSU) della Rubisco (fonte:Kumar Agrawal e Rakwal, 2008).

 

Nello stroma dei cloroplasti, poi, la proteina è talmente abbondante che si può vedere al microscopio elettronico (macchie bianche su fondo scuro) (Figura 3). Se notate bene nella foto, le macchie sono regolari, proprio perché riflettono la struttura tridimensionale dell’enzima (a destra, nella stessa foto).

 

Figura 3. (A sinistra) Rubisco nello stroma plastidiale; (a destra) struttura 3D della Rubisco). (Fonte: Gunning, 1996).

 

La Rubisco (che alla luce di quanto detto sarebbe il caso di chiamare ora D-ribulosio-1,5-difosfato carbossilasi e anche ossigenasi), catalizza l’addizione di CO2 al D-ribulosio-1,5-difosfato a formare due molecole di 3-fosfo-D-glicerato, la prima reazione del ciclo di Calvin nella fotosintesi (Figura 4).

 

 

Figura 4. Reazione di fissazione della CO2 catalizzata dalla Rubisco (fonte: Taiz e Zeiger, 2002).

 

 

L’enzima è molto lento e catalizza relativamente poche reazioni di carbossilazione per unità di tempo, ma ha due grandi vantaggi: il processo di fissazione della CO2 termodinamicamente favorito, e la grande affinità per la CO2 stessa, la quale permette all’enzima di funzionare anche a basse concentrazioni di CO2 (quali quelle atmosferiche). Altra cosa notevole è che la concentrazione dei siti attivi Rubisco, laddove cioè avviene la reazione, è 500 volte maggiore della concentrazione del substrato (CO2). Come a dire che se entrate a fare una bella cenetta con la fidanzata, vi trovate nella sala 1000 camerieri (preferibilmente non interessati alla vostra ragazza).

La Rubisco ha da sempre attirato le grinfie dei genetisti, in quanto un suo “miglioramento”, qualora fosse possibile, aumenterebbe le rese agricole. Questo potrebbe consistere in una maggiore affinità per CO2 rispetto al suo competitore diretto (O2). Addirittura, aumentare la sua affinità per la CO2 del 20% abbatterebbe le perdite per foto respirazione. Purtroppo si fanno sempre i conti senza l’oste perché la fotorespirazione, per quanto sia una perdita, è utilissima alla pianta per smaltire energia in eccesso, dal momento che le piante sono organismi sessili e sono quindi sottoposte ad ogni tipo di stress ambientale. A prova di cioò, l’evoluzione di una Rubisco soltanto carbossilativa non è mai avvenuta. Sebbene la composizione delle subunità e il rapporto delle due attività siano cambiati con il tempo (si notano forti differenze tra piante e batteri, anche se piante transgeniche con per la Rubisco batterica funzionano – anche se a fatica – lo stesso; Whitney e Andrews, 2001), l’enzima è rimasto pressappoco lo stesso. Questo perché, come dimostrato da una ricerca svolta su specie e ambienti diversi, la complessa ed enorme Rubisco, è oramai perfetta dal punto di vista evolutivo (Savir et al., 2009).

Più grande di così!

P.S. Scusate per i caratteri delle formule chimiche ma non sono ancora riuscito a trovare il comando “pedice” per questo benedetto blog!

 

Grazie a loro, ho scritto:

 

Brian E. S. Gunning (1996) Plant Cell Biology – Structure and Function. Jones and Bartlett Publishers, Sudbury, MA, USA.

Ganesh Kumar Agrawal and Randeep Rakwal (2008) Plant proteomics – Technologies, Strategies, and Applications. John Wiley & Sons, Inc., Hoboken, New Jersey.

Lincoln Taiz and Eduardo Zeiger (2002) Plant Physiology, 3rd ed. Sinauer Associates, Sunderland, MA, USA.

Martin Ingrouille e Bill Eddie (2006) Plants: Evolution and Diversity. Cambridge University Press, Cambridge, UK.

Robert Verpoorte, A. W. Alfermann e T. S. Johnson (2007) Applications of Plant Metabolic Engineering. Springer, Dordrecht, The Netherlands.

Rubisco: A Model Enzyme for Studying Structure and Function. Disponibile su: http://4e.plantphys.net/article.php?ch=t&id=78

Spencer M. Whitney e T. John Andrews (2001) Plastome-encoded bacterial ribulose-1,5-bisphosphate Carboxylase/oxygenase (RubisCO) supports photosynthesis and growth in tobacco. PNAS 98 (25): 14738-14743.

Yonatan Savir, Elad Noor, Ron Milo e Tsvi Tlusty (2010) Cross-species analysis traces adaptation of Rubisco toward optimality in a low-dimensional landscape. PNAS 107 (8): 3475–3480.

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