Feb
04
2023
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La sostanza organica del suolo (terza parte)

Influenza della sostanza organica sulle proprietà chimiche del suolo

La sostanza organica è la parte di suolo più reattiva dal punto di vista chimico e da sola rappresenta fino al 46% della superficie specifica in un suolo che ne contiene mediamente il 3% in peso. Nel suolo, infatti, la maggior parte delle reazioni chimiche avvengono all’interfaccia tra la fase solida e la fase liquida, dove i numerosi gruppi funzionali reattivi delle molecole umiche e degli altri costituenti della sostanza organica interagiscono con i soluti presenti nella soluzione del suolo. La capacità di scambio cationico della sostanza organica può contribuire fino al 50% di quella presente in un suolo. Inoltre, la sostanza organica causa spesso una certa acidificazione del suolo perché associata alla biomassa e quindi al rilascio di CO2, che è un agente acidificante. La sostanza organica quindi svolge un ruolo non trascurabile nella pedogenesi di molti suoli ma svolge altri anche altri ruoli, qui di seguito descritti.

Complessazione dei metalli

Soprattutto di Fe, Zn, Cu, Ni, Co, Mn, con formazione di idrossidi insolubili (soprattutto a pH alcalini). Avviene mediante la condivisione di doppietti liberi di elettroni con lo ione metallico acido, che ne è invece carente. I legami dell’humus con i metalli (alcalini, alcalino-terrosi e anche pesanti, quali Pb, Cu, Ni, Co, Zn, Cd, Fe e Mn) sono legami di coordinazione tra gruppi funzionali leganti (o chelanti) e metallo ligando (o chelato). La sostanza organica è infatti in grado di trattenere i metalli in soluzione sotto forma di specie anioniche o prive di carica. Si possono formare non solo composti chelati, quando due o più dei gruppi funzionali legati al metallo appartengono alla stessa molecola organica (chelante) ma anche strutture a catena in cui il metallo è contemporaneamente chelato da due diverse molecole di acidi fulvici. I gruppi responsabili di tali legami sono, in ordine inverso di importanza, enolato, ammino, azoto con doppio legame, azoto eterociclico, carbossilato, etere e carbonile.

L’elevata stabilità dei chelati è dovuta a motivi entropici. Infatti, anche se l’energia di legame liberata a pressione costante è la stessa (stessa dH, variazione di entapia), la formazione del chelato comporta una minore diminuzione di entropia, dato che il numero di molecole passa da 2 a 1 invece che da 3 a 1, come nel caso di un composto non chelato. Dal momento che dG = dH − TdS e quindi la diminuzione di energia libera (dG) sarà maggiore se dS sarà più piccolo (cioè quanto minore è la riduzione di entropia).

I catecoli sono tra gli acidi più chelanti, ma ci sono anche polisaccaridi acidi, acidi uronici, amminozuccheri, siderofori che chelano Fe3+ (soprattutto nelle graminacee) e fitochelatine (in molte altre specie). Le sostanze umiche possono formare complessi più o meno stabili con i metalli: è ovvio che i composti più stabili tenderanno a formarsi per primi e prevarranno a basse concentrazioni del metallo. I siderofori microbici o delle piante superiori possono essere assorbiti come tali oppure lo ione ferroso può essere assorbito dopo la riduzione del complesso da parte degli H+ escreti dalle radici.

Potenziale di ossido-riduzione

Si misura introducendo in una pasta satura o in una sospensione di suolo in esame un elettrodo di misura costituito da un filo di platino, e rilevando con un potenziometro la differenza di potenziale esistente tra quest’ultimo e un elettrodo di rifermento a calomelano. In un suolo ben areato si riscontrano solitamente valori di +0.4 V, mentre in anaerobiosi spinta di –0.4 V. La sostanza organica influenza indirettamente il potenziale di ossidoriduzione perché contribuisce a mantenere una buona struttura con adeguata porosità e permette quindi l’esistenza di condizioni ottimali di aerazione e drenaggio del suolo, che contribuiscono ad impedire l’instaurarsi di condizioni asfittiche. L’accettore di elettroni energeticamente più vantaggioso dopo l’O2 è il nitrato, che viene ridotto da batteri denitrificanti In nitrito, NO, N2O e N2. L’attività dei batteri denitrificanti dipende anche però dalla disponibilità di carbonio organico e, inoltre, eccessi di sostanza organica favoriscono la denitrificazione perché inducono un maggior consumo di ossigeno. Dopo il nitrato si passa all’ossidazione di Mn(IV)/Mn(II) e Fe(III)/Fe(II), abbondantemente disponibili nel suolo per la presenza di ossidi e idrossidi di questi elementi, segue il solfato a solfuro e la CO2 a metano. In tutte queste riduzioni si consumano H+ e quindi il pH tende alla neutralità.

 

Proprietà biochimiche e fisiologiche della sostanza organica

Gli enzimi rilasciati all’esterno della cellula sono inglobati nei complessi organo-minerali senza perdere la loro attività e sono protetti dalla degradazione microbica, acquistano una marcata resistenza alla denaturazione termica e svolgono la loro funzione anche in condizioni sfavorevoli per l’attività microbica. Nel suolo gli enzimi possono rimanere attivi in questi siti: intracellulari, periplasmatici, superficie esterna cellulare; associati a cellule non proliferanti quali spore batteriche e cisti; presenti in cellule morte o in residui cellulari; extracellulari preseti nella fase acquosa del suolo; immobilizzati dai fillosilicati e/o da molecole umiche presenti nel suolo.

Complessi argillo-enzimatici. La molecola enzimatica proteica può protonare i suoi gruppi basici accettando protoni dalla superficie dei fillosilicati, con un’interazione diretta tra proteina e fillosilicato (non comune), perché questi sono di solito già coperti da ossidi e idrossidi. Avvengono però anche interazioni elettrostatiche proteina-fillosilicato, legami ad idrogeno, legami di coordinazione, ponti salini e interazioni idrofobiche.

Complessi umo-enzimatici. Questa immobilizzazione porta ad una stabilizzazione della struttura terziaria della proteina, rendendo così l’enzima più resistente alla denaturazione termica (come nel caso di fosfatasi, ureasi e proteasi). Gli enzimi si troverebbero avvolti da una maglia di molecole umiche con pori di dimensioni tali da permettere il passaggio di substrati e dei prodotti ma non delle proteasi.

La presenza di complessi argillo- ed umo-enzimatici, resistenti alla degradazione proteolitica, assicura lo svolgimento delle reazioni extracellulari e riduce la necessità di secernere continuamente enzimi da parte dei microrganismi. Nel caso che la reazione catalizzata dai complessi sia completata ed i prodotti della reazione raggiungano il microorganismo si può avere la sintesi dei relativi enzimi extracellulari necessari alla catalisi stessa. I prodotti della reazione catalizzata dai complessi possono stimolare un responso chemiotattico da parte della cellula microbica. Le molecole umiche possono avere effetti positivi anche sulle attività metaboliche delle piante: a) maggiore trasporto di nutrienti nelle cellule radicali, b) attivazione dei processi del ciclo di Krebs e maggiore produzione di ATP, c) aumento di clorofilla e di carbonio organicato e quindi maggiore ATP, d) aumento della velocità di sintesi acidi nucleici e della sintesi proteica. Le molecole umiche, una volta superata la parete e venute in contatto con il plasmalemma, possono: a) influenzare l’assorbimento degli ioni nutritivi attraverso un’influenza diretta positiva o negativa sull’attività dei carrier e delle H+-ATPasi presenti nella membrana cellulare e responsabili del trasporto attivo dei nutrienti, b) indurre un aumento di permeabilità dei fosfolipidi di membrana e quindi dei flussi degli elettroliti e non elettroliti, c) esercitare effetto positivo sull’attività metabolica in genere e conseguentemente maggiori livelli di ATP e maggiore trasporto attivo. Infine, alcuni prodotti di idrolisi degli acidi fulvici (di peso inferiore 5000 dalton) sono liberati da polcondensati umici. Essi sono l’“effettore umico” (3500 dalton), contraddistinto con la sigla HEf con attività fito-ormonali di tipo auxinico, gibberellinico e citochininico, ed il “supporto umico” (3500-5000 dalton) con la sigla HSp, biologicamente inattivo. È proprio nelle condizioni ambientali più difficili che le sostanze umiche rivelano la massima efficacia sulla crescita dei vegetali. Le secrezioni radicali e le attività del plasmalemma sono concertate quindi con l’intervento delle sostanze umiche sul metabolismo vegetale attraverso meccanismi di autoregolazione.

 

Mineralizzazione della sostanza organica e assorbimento dei nutrienti da parte delle piante

Gli elementi nutritivi (in particolare N, P, S) presenti nella sostanza organica costituiscono una riserva potenzialmente assimilabile, la cui quantità nel suolo è tale da soddisfare le esigenze colturali per numerosi anni. L’azoto nel suolo varia dallo 0,06 al 3,00% in peso ed è presente in gran parte in forma organica (95-99%). Le forme organiche devono essere convertite nella forma ammoniacale attraverso la mineralizzazione. Le piante possono assorbire sia nitrati che ammonio, anche se i primi sono maggiormente disponibili perché non trattenuti dalle superfici colloidali del suolo.

Nitrati e solfati, a causa della loro carica netta negativa, sono scarsamente interessati dai fenomeni di adsorbimento specifico e aspecifico sulle fasi solide del suolo e sono presenti a concentrazioni elevate nel suolo (0,5-3,0 M), muovendosi facilmente verso la radice sia con l’acqua, sia per flusso di massa che per movimenti diffusivi. Il fosforo è invece soggetto a rilevanti fenomeni di immobilizzazione nel suolo sia per precipitazione di sali poco solubili sia per adsorbimento specifico ed aspecifico sui colloidi del suolo. La concentrazione di ortofosfato nella soluzione del suolo è quindi molto bassa (1-2 µM) e si sposta molto lentamente per diffusione. Data la scarsissima mobilità del fosfato, solamente quello liberato dai processi di mineralizzazione nelle immediate vicinanze delle radici potrà essere utilizzato per la nutrizione mentre il restante andrà soggetto ai fenomeni di adsorbimento e precipitazione (fosforo immobilizzato).

Attraverso l’acidificazione del pH rizosferico e l’emissione di agenti chelanti e riducenti la radice riesce a migliorare le disponibilità dei nutrienti nelle più immediate vicinanze della parete delle cellule radicali. Per molti nutrienti (nitrati, fosfati, solfati, cloruri) ci vuole un trasporto attivo con proteine di membrana saturabili (carriers) e strutture proteiche non saturabili (canali ionici), come i canali idrofilici regolabili da specifici segnali. Per altri cationi invece il trasporto è passivo (Ca, Mg, Fe e Mn). Ancora, la H+-ATPasi di membrana porta H+ nell’apoplasto, creando differenze di potenziale elettrochimico e quindi un più facile assorbimento cellulare di cationi per antiporto (H+ all’esterno/K+ all’interno), uniporto (cationi che entrano per il potenziale elettrico favorevole) o simporto (due anioni escono perché all’esterno ci sono più H+).

 

Ruolo della pedofauna nell’evoluzione della sostanza organica

La pedofauna, cioè l’insieme degli animali che vivono nel suolo, comprende organismi edafobi (vivono costantemente nel suolo), edafofili (prediligono il suolo anche se ne possono uscire), edafoxeni (presenti nel suolo occasionalmente), epiedafici (vivono sulla superficie suolo), ed emiedafici e euedafici (vivono negli strati profondi). Questi organismi presentano adattamenti strutturali assai diversi, quali le dimensioni corporee, la presenza o meno di ali, strutture atte allo scavo e al salto, occhi, pigmentazione (convergenza adattativa). Si differenziano anche in base al modo in cui assorbono ossigeno: atmobios (preso direttamente dall’atmosfera) e hydrobios (preso dall’acqua). Al primo gruppo appartengono: sinfili, pauropodi, insetti apterigoti quali proturi, collemboli e dipluri, araneidi, pseudoscorpioni, opilioni, acari, crostacei isopodi, diplopodi (millepiedi), chilpodi (centopiedi), insetti pterigoti come ditteri e coleotteri, molluschi polmonati, insettivori e roditori. Dell’ hydrobios fanno invece parte: turbellari, irudinei, crostacei copepodi, oligocheti quali enchitreidi e lumbricidi, protozoi che formano cisti in condizioni sfavorevoli o si disidratano se il contenuto dell’acqua diminuisce (entrando in criptobiosi/anidrobiosi), nematodi, rotiferi, tardigradi.

È altresì importante conoscere le preferenze alimentari di questi organismi e le reti trofiche di cui fanno parte. I fungivori si nutrono di ife o spore e possono stimolare la crescita fungina asportando le ife senescenti e disseminando i propaguli. I detritivori si nutrono di sostanza organica morta, generalmente dopo che è stata colonizzata dai batteri. I protozoi possono condurre vita libera e si nutrono di microfauna, alcuni sono saprofiti e altri parassiti, commensali o predatori. Molti nematodi sono parassiti degli apparati radicali delle piante, ma una parte assai più numerosa conduce vita libera e si nutre di piccoli detriti oppure di succhi cellulari, anche predando altri organismi. I microartropodi più rappresentati sono gli Acari e i Collemboli. Le diverse componenti della pedofauna cambiano notevolmente, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Nei campi coltivati, gli animali sono distribuiti in modo più uniforme soprattutto nei primi 15 cm di suolo, mentre a profondità maggiori si ha una riduzione qualitativa e quantitativa della fauna edafica e una semplificazione delle reti trofiche.

Una pratica agronomica che incide profondamente sulle caratteristiche della pedofauna è l’aratura, la cui azione meccanica solitamente provoca un decremento quantitativo e qualitativo delle popolazioni animali (ad es. colpiti dall’aratro, intrappolati, strato superficiale essiccato e rimozione lettiera che funge da cibo). Nei campi coltivati, inoltre, il raccolto priva il suolo dei nutrienti e i fertilizzanti di sintesi spesso non ripristinano gli equilibri naturali sconvolti. Lo stesso vale per la presenza di fitofarmaci (insetticidi, nematocidi, fungicidi, erbicidi). Altri fattori che influenzano il processo sono la copertura vegetale, il tipo di coltivazione, la quantità di acqua e il drenaggio. Gli animali del suolo contribuiscono alla demolizione della sostanza organica disgregando e lisando i tessuti animali e vegetali, rendendoli più facilmente aggredibili dai microrganismi, decomponendo selettivamente e modificando chimicamente parte dei residui organici, trasformando i residui vegetali in sostanze umiche, aumentando la superficie attaccabile, formando aggregati complessi di sostanza organica e parte minerale, rimescolando totalmente la sostanza organica negli strati superficiali del suolo (a umificazione avvenuta), ingerendo sostanza organica che viene arricchita di microorganismi e attaccata più facilmente, stabilizzando le reti trofiche (soprattutto da parte degli artropodi).

Le endomicorrize arbuscolo-vescicolari (VAM) contribuiscono al trasporto N e P dal suolo alle radici delle piante, stabilizzano i macroaggregati e interagiscono con i microartropodi. Nella zona dell’apice radicale c’è una maggiore quantità di essudati radicali prodotti dalla pianta, cioè sostanza organica ricca in carbonio che stimola la crescita del microbioma del suolo. Tuttavia, affinché possano crescere, i microrganismi devono utilizzare anche gli altri macronutrienti (N,P, S) e ciò avviene mineralizzando la sostanza organica vicino alle radici. La fauna, nutrendosi di batteri, favorisce il rilascio di elementi inorganici che diventano quindi disponibili per radici e micorrize. I Protozoi, infine, come molti altri microorganismi, producono anche sostanze ormono-simili in grado di favorire la crescita delle piante.

In un suolo ben gestito, in cui avviene la decomposizione del materiale organico e il riciclaggio dei nutrienti minerali, la presenza di microartropodi, che occupano tutti i livelli trofici dei detritivori della catena alimentare, può offrire il vantaggio di un rilascio di minerali continuo e regolato. Ciò non si verifica in suoli degradati, in cui i microartropodi sono spesso assenti. Questo lento rilascio è dovuto al fatto che le varie sostanze vengono trattenute per un certo tempo nei tessuti degli animali. A seguito del processo respiratorio, il carbonio ritorna come CO2 all’atmosfera. Attraverso il processo di umificazione, al contrario, il ritorno del carbonio in CO2 atmosferico richiede tempi estremamente più lunghi (anche decine di anni). I principali fattori che regolano la decomposizione delle molecole umiche sono il contenuto di sostanza organica, il tipo di lavorazione (aratura, sarchiatura, ecc.), la temperatura, l’umidità, il pH, la profondità e l’aerazione. I substrati freschi hanno la facoltà di accelerare o di ridurre il tasso di decomposizione delle molecole umiche (priming effect o azione d’innesco), ma hanno un peso anche l’età delle piante, il contenuto in lignina, il grado di disgregazione del substrato, la concentrazione di ossigeno, e il rapporto C/N del materiale vegetale. Il contenuto in lignina è spesso più limitante del rapporto C/N per la degradazione. Nel corso della mineralizzazione di materiale contenente modeste quantità di azoto, il rapporto C/N tende a decrescere nel tempo e ciò è dovuto alle perdite di carbonio come CO2, mentre l’azoto permane in combinazione organica. Nel corso della decomposizione, la percentuale di N nelle sostanze umiche aumenta di continuo e la curva si avvicina asintoticamente a 10, il rapporto C/N ideale. D’altro canto, I microrganismi provocano variazioni del potenziale redox tramite il consumo di O2 e la liberazione di prodotti ridotti. La quantità, la natura e la disponibilità di sostanza organica determina quindi la consistenza e la composizione delle popolazioni eterotrofiche che il suolo ospiterà.

 

Aspetti agronomici del ciclo della sostanza organica

Negli attuali sistemi agrari, il ciclo della sostanza organica nel suolo risulta nettamente sbilanciato verso le fasi cataboliche o di mineralizzazione, mentre penalizzate risultano quelle anaboliche, di accumulo dei residui organici e di umificazione. L’agricoltura è così divenuta una attività eminentemente economica con sistemi di gestione tipici delle imprese industriali. A livello di ecosistema, la sostanza organica del suolo è l’elemento chiave per capire il funzionamento degli agro ecosistemi, rappresentando contemporaneamente un punto di arrivo e di partenza del ciclico evolversi dei processi di organizzazione della materia. La fertilità del suolo, ossia la sua attitudine a mantenere nel tempo colture produttive, dipende dal rifornimento in sostanza organica e quindi dall’entità dei residui colturali. Diventano così fondamentali le scelte che prevedono la presenza/assenza di animali, la dislocazione delle colture nello spazio (monocolture o consociazioni) e nel tempo (monosuccessioni e rotazioni) per un’armonica interazione dei principali componenti dell’agroecosistema: produttori (colture), animali (consumatori) e microrganismi del suolo (decompositori). La sostanza organica, conferendo al substrato detritico gli attributi di maggiore capacità per l’acqua e di riserva di energia e di elementi nutritivi, investe così il suolo di una nuova proprietà emergente: la fertilità.

La cotica erbosa è costituita da tre piani quasi sovrapposti di radici: quelle fittonanti (apice verso il basso) delle leguminose esplorano e drenano di elementi nutritivi negli strati più profondi; quelle delle graminacee a cespo lasso (fascicolate: numerose radici, ciascuna delle quali ha ramificazioni laterali) attingono dall’orizzonte concrezionale (dove abbondano P, Ca e Fe); e quelle delle graminacee rizomatose (rizoma: fusto perenne sotterraneo e funzionante come organo di riproduzione vegetativa) arricchiscono l’orizzonte superficiale dopo la loro decomposizione. Le piante, che a livello di capillizio radicale non possono tollerare periodi prolungati di siccità, utilizzano gli spazi tra i grumi per diffondersi, mentre localizzano le loro superfici assorbenti preferibilmente all’interno dei grumi, dove l’acqua viene trattenuta contro la gravità ma rilasciata facilmente alle radici (si parla di grumi o aggregati di 500-2000 µm).

A titolo di esempio, una classica terra nera o “cernozem” della Russia meridionale, che corrisponde alla fase pedogenetica con il massimo grado di fertilità, contiene dal 4 al 10% di sostanza organica. La messa in coltura di un suolo vergine può provocare, dopo 50 anni di coltivazione, la diminuzione del 25-50% di sostanza organica. La tendenza alla diminuzione della sostanza organica del suolo con la coltivazione può essere tuttavia contrastata mediante l’adozione di pratiche agronomiche e (rotazioni, letamazioni, sovesci) che mirano a potenziare il flusso di carbonio al suolo e quindi a ripristinare ciclicamente livelli accettabili di fertilità. In accordo con la regola di Van’t Hoff, la velocità delle reazioni biochimiche risulta positivamente correlata al livello di temperatura, con un aumento di 2-2,5 volte per ogni 10 °C di variazione. La tessitura del suolo influisce sul tasso di decomposizione della sostanza organica non solo in maniera indiretta, influenzando i rapporti aria-acqua che regolano l’attività microbica, ma anche in maniera indiretta, per il ruolo stabilizzante della sostanza organica da parte delle particelle argillose, originando composti umo-minerali più resistenti all’attacco microbico. Le perdite di sostanza organica si accentuano nei suoli a tessitura più grossolana. L’aratura redistribuisce la sostanza organica, con un relativo arricchimento in profondità e un depauperamento in superficie. Il succedersi di stati umidi e secchi e l’effetto delle lavorazioni provocano la rottura degli aggregati che sono cementati dalle sostanze umiche e si ha la disponibilità di nuovi micrositi dove previamente la sostanza organica era fisicamente inaccessibile all’attacco microbico. Con le lavorazioni, nel complesso, viene ad essere sensibilmente influenzato il ciclo della materia nell’ambiente, con un progressivo impoverimento delle riserve di sostanza organica e di elementi biogeni nel suolo e un parallelo aumento degli stessi nelle acque (eutrofizzazione). Tanto i componenti idrolizzabili (amminoacidi, ammonio prodotto dalla idrolisi acida, esoammine e altre forme non identificate) quanto quelli non idrolizzabili sono suscettibili di mineralizzazione e di conseguenti perdite in seguito alla coltivazione. Non è possibile fissare un valore preciso per il livello di sostanza organica che dovrebbe essere mantenuto nel suolo ma si indica un valore orientativo del 3% in peso (1,7% di carbonio organico quando si assume che la sostanza organica contenga il 58% di carbonio) come soglia al di sotto della quale la struttura diventa instabile.

I trattamenti con erbicidi (diserbo chimico) e l’assenza di lavorazioni si risolvono in un naturale consolidamento e in una compattazione meccanica della superficie del suolo, attraverso l’incremento della densità apparente e la riduzione della porosità totale, minore aereazione e mineralizzazione, effetto pacciamante da parte della vegetazione disseccata dagli erbicidi, e conseguente più lenta decomposizione della sostanza organica. I fitofarmaci vengono degradati dai microrganismi e quindi forniscono una riserva aggiuntiva di carbonio organico ma possono essere anche tossici e influenzare l’entità delle popolazioni microbiche e i cicli degli elementi nutritivi. La fertilizzazione (organica e minerale) e la rotazione colturale riequilibrano il dissesto nel bilancio della fertilità, consentendo un maggiore sviluppo degli apparati radicali delle colture e quindi un maggiore apporto di residui a disposizione per i successivi processi di umificazione e mineralizzazione. Oltre all’azione sulla vegetazione colturale, si attribuisce alla concimazione minerale un ruolo di promozione (priming effect) nello stimolare la mineralizzazione della sostanza organica del suolo. È da sottolineare anche il ruolo importante degli avvicendamenti colturali che lasciano residui vegetali su suolo. Infatti, la fertilità del suolo si mantiene nel tempo attraverso un’opportuna successione di colture di diverso tipo (da rinnovo, depauperanti e miglioratrici). La leguminosa erba medica, ad esempio, è una coltura ad elevata potenzialità produttiva che, senza somministrazione di alcuna concimazione azotata, riesce ad accumulare annualmente un quantitativo di biomassa aerea pari a quello ricavato da altre colture foraggere, come loietto e mais, però largamente concimate con azoto.

Il letame è stato definito principe dei concimi perché ha un lento rilascio degli elementi minerali, che è garanzia di prevenzione nei riguardi delle perdite per lisciviazione, denitrificazione e volatilizzazione; apporta materiale organico già in parte stabilizzato (per l’elaborazione microbica subita in concimaia) ed è quindi idonea ad aumentare il contenuto di humus del suolo. Il suo rapporto C/N (10-12, vicino a quello dell’humus) non induce problemi di immobilizzazione azotata; è ricco infine di microrganismi che mantengono una sana attività biologica del suolo. La paglia invece ha un C/N pari a 80-100 e quindi a causa del processo di immobilizzazione microbica viene utilizzato l’azoto inorganico del suolo, che quindi viene sottratto alle colture successive; è quindi necessario somministrare quote aggiuntive di concime minerale azotato. Il sovescio è la coltivazione di specie destinate ad essere interrate, soprattutto leguminose, in relazione al loro apporto di azoto grazie alla simbiosi con i rizobi, ma anche crucifere e graminacee. Se il rapporto C/N del materiale interrato è di circa 20, la mineralizzazione può intervenire nel giro di una settimana (green manuring: concimazione verde). Per quanto riguarda i fanghi di risulta, essi sono derivati melmosi (contenuto di acqua intorno al 90%) che derivano dal trattamento di depurazione delle acque di fogna urbane, degli scarichi industriali, ecc. Possono contenere virus, batteri sostanze tossiche, nitrati e cationi, e provocare fenomeni di salinità del suolo, modifiche del pH, eccesso di fosforo e altri nutritivi. I rifiuti solidi urbani invece andrebbero impiegati come compost, facendo decomporre biologicamente la sostanza organica in idonei digestori e poi facendo maturare il materiale derivato all’aria aperta, affinché si raggiunga un idoneo grado di umificazione. È importante che sia di buona qualità e maturo al fine anche di migliorare lo stato sanitario delle colture per la capacità di soppressione manifestata verso i funghi fitopatogeni del suolo. Infine è importante anche citare l’agricoltura biologica, cioè l’esercizio dell’agricoltura senza far ricorso all’ausilio di prodotti chimici di sintesi, siano essi concimi o mezzi di difesa o di promozione della crescita. Essa prevede minori input esterni, massima intercettazione dell’energia solare attraverso ordinamenti colturali più complicati nello spazio e nel tempo (consociazioni, rotazioni, colture intercalari), sovescio, apporto di deiezioni animali, letame e compost.

 

[continua…]

Written by Horty in: Senza categoria |
Set
22
2022
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Far luce sulle piante

Gli organismi viventi sono soggetti a condizioni ambientali fluttuanti. Mentre la maggior parte degli animali è in grado di allontanarsi da condizioni sfavorevoli, le piante sono sessili e devono quindi far fronte a vari tipi di segnali ambientali. Tra questi segnali, la luce può probabilmente essere considerata la più importante. Oltre al suo ruolo chiave nel metabolismo vegetale, dove guida il processo di fotosintesi, l’energia luminosa agisce anche per regolare la crescita e lo sviluppo delle piante. La quantità, la qualità, la direzione e la durata diurna e stagionale della luce regolano i processi che vanno dalla germinazione, all’insediamento, all’architettura e alla transizione verso lo sviluppo riproduttivo delle piante. Queste risposte alla luce costituiscono la fotomorfogenesi. In effetti, non c’è quasi nessun processo nella vita delle piante, dalla germinazione dei semi alla fioritura, che non sia influenzato dalla luce. La luce è anche un segnale molto versatile, che varia non solo in qualità, ma anche in quantità, durata e direzione. Non inaspettatamente, i segnali luminosi regolatori sono rilevati da una serie di fotorecettori specializzati nella trasduzione di informazioni, tra cui i fitocromi che assorbono la luce rossa/rossa, i criptocromi e le fototropine che assorbono la luce blu/ultravioletta-A e una o più molecole fotorecettrici che assorbono la luce ultravioletta-B, non ancora identificate. La trasduzione del segnale mediata dalla luce nelle piante inizia con la percezione della luce da parte di questi fotorecettori specializzati, che portano a un’alterazione dell’espressione di diverse migliaia di geni, consentendo così alla pianta di rispondere a livello fisiologico. I segnali vengono trasdotti in modo diverso a seconda della struttura molecolare del fotorecettore. È evidente che i fotorecettori operano attraverso interazioni tra loro e con altri sistemi di segnalazione, formando così complesse reti di risposta. Un campo di ricerca emergente è l’interazione tra fotorecettori diversi, una situazione analoga a quella delle interazioni tra ormoni. È inoltre comunemente osservato che i germogli delle piante crescono (o si piegano) verso una fonte di luce, mentre le radici si allontanano da essa. Questi movimenti di crescita, chiamati fototropismo, avvengono in risposta a uno stimolo luminoso direzionale e differiscono da altri movimenti di crescita delle piante, che non hanno una componente direzionale. Le risposte fototropiche differiscono l’una dall’altra per gli stimoli che le inducono e le vie di trasduzione del segnale, ma entrambe portano alla fine a una crescita non uniforme sui due lati di uno stelo o di una radice, una risposta che è mediata in parte da alcuni ormoni vegetali, come le auxine.

 

La luce è la sorgente primaria di energia per l’ecosistema. Le piante, assorbendo la luce, ne assimilano l’energia per fotosintesi. La luce è costituita da radiazioni elettromagnetiche che arrivano sulla Terra dal Sole, ma non tutte le radiazioni elettromagnetiche che incidono sulla superficie della Terra sono utili per la fotosintesi. L’arcobaleno e i prismi mostrano che la luce visibile è costituita da uno spettro di radiazioni di differenti lunghezze d’onda, espresse generalmente in micrometri o in nanometri (milionesimi o miliardesimi di metro), che percepiamo come differenti colori. Le lunghezze d’onda dello spettro visibile si estendono da 400 nm a 700 nm, che è la regione della radiazione fotosinteticamente attiva (RFA). Il contenuto di energia della luce varia con la lunghezza d’onda e, quindi, con il colore; la luce blu, di lunghezza d’onda più piccola, ha più energia della luce rossa, di lunghezza d’onda maggiore. Soltanto il 44% della radiazione solare totale che incide sulla superficie della Terra al livello del mare giace in questa regione, mentre il resto non è disponibile per le piante come risorsa energetica.

 

L’assimilazione netta (cioè la fotosintesi meno respirazione) è negativa nell’oscurità e cresce con l’intensità della luce, arrivando a una regione costante (plateau) nelle cosiddette piante C3 o continuando a crescere, sebbene con rendimenti decrescenti, nelle cosiddette piante C4. In entrambi i casi, quanto più alta è l’intensità della luce, tanto più bassa è la percentuale di essa che viene usata nell’assimilazione. Durante una giornata soleggiata e luminosa, una foglia esposta può essere incapace di sfruttare completamente molta della radiazione solare incidente. Questo può essere dovuto alla forma della pianta in due modi. In primo luogo, le foglie possono essere esposte sotto angoli acuti rispetto alla radiazione incidente, e ciò ha l’effetto di distribuire un fascio incidente di radiazione su una più ampia area fogliare, ossia, in pratica, di ridurre l’intensità del fascio luminoso. In secondo luogo, le foglie possono essere sovrapposte a formare una volta pluristratificata (ricordate la fillotassi?). In presenza di luce solare intensa, però, anche le foglie ombreggiate che si trovano negli strati (volte) inferiori possono avere velocità di assimilazione positive e portare un contributo all’assimilazione della pianta a cui sono inserite. La velocità di fotosintesi dipende anche dalle richieste che vengono fatte da altre parti della pianta. In assenza di parti in vigoroso accrescimento, che servono da “pozzo” per i prodotti fotosintetici, la fotosintesi può subire una riduzione anche se le condizioni sono potenzialmente ideali. Variazioni della luce ricevuta da una foglia sono causate dalla natura e dalla posizione delle foglie vicine e di quelle che la sovrastano. Ogni strato di vegetazione, ogni pianta e ogni foglia, intercettando la luce, creano una zona di depauperamento (o deplezione) della risorsa (ZDR): una striscia di ombra in movimento in cui si possono trovare altre foglie della stessa pianta o di altre piante. Anche la composizione della radiazione che ha attraversato le foglie in uno strato si modifica, diventando meno utile per la fotosintesi, poiché la RFA si riduce e gran parte della luce perde la sua direzione iniziale per diffusione e riflessione.

 

Le principali differenze strategiche tra le specie nella loro reazione all’intensità della luce sono le differenze evolutesi tra le specie eliofile e le specie sciafile. In generale, le specie vegetali che sono caratteristiche degli habitat ombreggiati usano la luce di bassa intensità più efficientemente rispetto alle specie eliofile, ma raggiungono un plateau di velocità di fotosintesi a intensità più basse. Inoltre le sciafite tendono a respirare a velocità più basse. Perciò l’assimilazione netta delle specie sciafile è più alta di quelle delle specie eliofile in condizioni di ombreggiamento. Inoltre le piante definite come C4 sono capaci di aumentare la loro velocità di fotosintesi in risposta all’aumento dell’intensità della luce di gran lunga oltre qualsiasi valore che sia probabile incontrare all’aperto, rispetto alle piante C3. Data tale variazione tra specie di piante nella risposta a differenti intensità della radiazione, non sorprende che la vegetazione spontanea tenda ad essere formata da strati di piante la cui capacità di usare la radiazione corrisponde alle loro posizioni negli strati di vegetazione. Può anche accadere che, via via che una pianta si accresce, le sue foglie si sviluppino differentemente in risposta diretta all’ambiente luminoso in cui la foglia si è accresciuta. Ciò determina spesso la formazione di “foglie da Sole” e “foglie da ombra” all’interno della volta formata da una singola pianta. Le foglie da Sole sono tipicamente meno estese, sono più spesse e hanno più cellule per unità di area, venature più dense, cloroplasti raggruppati più densamente e maggiore peso secco riferito all’unità di area della foglia. Le foglie da ombra presentano, invece, un’area più grande rispetto al loro peso secco e sono di solito più traslucide. Le foglie da ombra inferiori in un albero possono non dare un grande contributo al bilancio energetico della pianta di cui fanno parte, ma, con i loro punti di compensazione inferiori, possono perlomeno compensare l’energia necessaria alla loro respirazione.

 

Queste “manovre tattiche”, che si svolgono a livello della singola foglia o persino delle sue parti, richiedono però del tempo. Per formare foglie da Sole e foglie da ombra in risposta alla posizione in cui stanno crescendo, la pianta, la sua gemma, o la foglia in sviluppo devono percepire il microambiente intorno della foglia e rispondere sviluppando una foglia con struttura appropriata. Ma, nel formare una nuova foglia, c’è un ritardo, e quindi per la pianta è impossibile cambiare la propria forma tanto rapidamente quanto basta per inseguire le variazioni dell’intensità della luce tra un giorno nuvoloso e uno sereno, per esempio. La volta di una popolazione di piante coltivate è costituita una popolazione di foglie. Essa può essere descritta olisticamente con un parametro chiamato “indice di area fogliare” (IAF), che definisce l’area delle foglie su un’area di superficie/suolo. Le zone di depauperamento della luce prodotte dalle singole foglie in una volta creano al suo interno un gradiente di intensità della luce. La forma di questa curva di estinzione della luce dipende in grande misura dagli angoli sotto cui le foglie giacciono. Una volta di foglie che sono portate quasi orizzontalmente, come nel caso del trifoglio, produce una brusca diminuzione dell’intensità della luce quando il sole è alto nel cielo. Per contro, le foglie di una densa distesa di graminacee permettono a una grande quantità di luce di penetrare e di riflettersi internamente in profondità nella volta.

 

Nella maggior parte della vegetazione, le foglie sono ammassate, con alcune foglie in pieno Sole e altre in ombra. La maggior parte della fotosintesi si svolgerà nella parte più alta della volta, ma, quanto più alta è l’intensità della luce, tanto maggiore è il contributo portato dagli strati più bassi. Però, se le foglie occupano una posizione troppo bassa nella volta, la respirazione può superare la fotosintesi. Tali foglie avrebbero una velocità di assimilazione netta negativa e farebbero diminuire la velocità di fissazione dell’energia della chioma nel suo insieme. Per una popolazione di qualsiasi data specie vi sarà un indice di area fogliare, capace di assicurare la massima velocità di fissazione dell’energia riferita all’unità di superficie di terreno. Ad alti valori di IAF, la maggior parte delle foglie o delle piante ombreggiate può fare diminuire il potenziale di assimilazione della comunità nel suo insieme: una popolazione di piante può avere quindi troppe foglie. Un agricoltore o un forestale intelligente potrebbe volere ottenere la densità fogliare ottimale, ma è più facile dirlo che farlo. L’indice di area fogliare ottimale per una comunità di piante (nell’ipotesi che l’acqua e le sostanze nutritive non siano limitanti) dipende infatti dalla forma e dalla disposizione delle foglie nella volta, dall’inclinazione dei raggi solari e dalla intensità della radiazione solare. Inoltre, quando l’intensità della luce cresce, il punto in cui la fotosintesi supera la respirazione si sposta più in profondità nella volta. Perciò, l’indice di area fogliare ottimale per un’area di vegetazione varierà di stagione in stagione, di giorno in giorno, e persino nel corso di uno stesso giorno. La conseguenza è che la maggior parte della vegetazione trascorre quasi metà della vita con un indice di area fogliare subottimale e l’altra metà con un indice di area fogliare sovraottimale, mentre solo temporaneamente avrà un indice di area fogliare ottimale. Difatti, i il rendimento approssimato delle colture delle zone temperate è pari a solo lo 0.6 % dell’energia radiante incidente. Il fatto che la luce non venga utilizza con alto rendimento non implica di per sé che essa non limiti la produttività della comunità (nelle piante coltivate in condizioni ideali si possono raggiungere rendimenti del 3-10%). L’intensità della luce durante una parte del giorno è inferiore al valore ottimale per la fotosintesi nella volta della vegetazione. Inoltre, in corrispondenza di intensità massime di luce, spesso la vegetazione continua ad avere le foglie più basse in relativa oscurità e quasi certamente farebbe fotosintesi più velocemente se l’intensità della luce fosse più alta. Nel caso delle piante C4, a quanto pare, non viene raggiunta mai un’intensità della radiazione che determina saturazione e di conseguenza la produttività può essere limitata da una penuria di radiazione fotosinteticamente attiva anche in presenza della più luminosa radiazione naturale.

 

Ma andiamo un po’ più nel dettaglio.

 

Le radiazioni elettromagnetiche solari che raggiungono la parte superiore dell’atmosfera terrestre si estendono oltre la regione visibile, da ambo i lati di essa. Oltre l’estremo di piccola lunghezza d’onda dello spettro, giacciono la regione ultravioletta, i raggi X e i raggi gamma, la cui energia cresce al decrescere della lunghezza d’onda; oltre l’estremo di grande lunghezza d’onda, c’è la regione infrarossa e le radioonde, la cui energia decresce al crescere della lunghezza d’onda. A causa del suo alto contenuto di energia, l’ultravioletto può danneggiare le cellule ed i tessuti esposti, anche se la maggior parte degli UV viene assorbita dallo stato stratosferico di ozono. La conversione fotochimica dell’energia luminosa in energia chimica ad opera delle piante avviene principalmente in quella regione dello spettro solare che contiene la massima quantità di energia. L’assorbimento dell’energia radiante dipende dalla natura della sostanza assorbente. L’acqua assorbe soltanto lievemente la luce le cui lunghezze d’onda cadono nella regione visibile dello spettro di energie. Le sostanze colorate, chiamate anche pigmenti, assorbono fortemente la luce di alcune lunghezze d’onda nella regione visibile dello spettro e riflettono o trasmettono la luce di lunghezze d’onda definite, i cui colori corrispondenti permettono di identificarle. Le foglie delle piante contengono vari tipi di pigmenti, in particolare clorofille (verdi) e carotenoidi (gialli-arancio), che assorbono la luce utilizzando la sua energia. I carotenoidi assorbono principalmente la luce blu e verde e riflettono la luce gialla e arancione. La clorofilla assorbe la luce rossa e la luce violetta e riflette la luce verde e la luce blu. La luce verde viene assorbita meno e, quindi, le foglie ci appaiono verdi.

 

La luce inoltre ha un ruolo fondamentale nell’irraggiamento, nella conduzione e nella convezione dell’energia radiante nelle piante. La velocità di fotosintesi è direttamente proporzionale a bassi livelli di radiazione, tipicamente minori di ¼ di quello prodotto dall’esposizione alla piena luce solare. Un irraggiamento maggiore satura i pigmenti fotosintetici e, al suo crescere, la velocità di fotosintesi aumenta più lentamente o si stabilizza. In molte piante, un irraggiamento estremamente alto compromette le fotosintesi a causa della inattivazione delle reazioni fotosintetiche (fotoinibizione). La risposta della fotosintesi all’irraggiamento ha due punti di riferimento. Il primo, detto punto di compensazione, è il valore dell’irradiamento in corrispondenza del quale l’assimilazione fotosintetica di energia bilancia esattamente la respirazione. Al di sopra del punto di compensazione, il bilancio energetico della pianta è positivo; al di sotto, il bilancio energetico è negativo. Il secondo punto di riferimento è il punto di saturazione, al di sopra del quale la velocità di fotosintesi non risponde più all’irradiamento crescente.

 

Il rendimento fotosintetico (o “efficienza fotosintetica”), che è la percentuale di energia radiante incidente che si converte in produzione primaria netta durante la stagione di accrescimento, fornisce un utile indice della velocità di produzione primaria in condizioni naturali. Dove l’acqua e le sostanze nutritive non limitano severamente la produzione delle piante, il rendimento fotosintetico varia fra l’1 e il 2%. Le foglie e le altre superfici fotosintetizzanti riflettono da ¼ a ¾ del restante 98-99%. Molecole diverse dai pigmenti fotosinteticamente attivi assorbono la maggior parte del resto, che si converte in calore e viene irradiato o trasmesso per conduzione attraverso la superficie fogliare, o dissipato dall’evaporazione dell’acqua dalla foglia (traspirazione).

 

Le quantità relative di radiazione diretta o di radiazione diffusa che giungono su una foglia esposta dipendono dalla quantità di polvere presente nell’aria e, in particolare, dallo spessore dello strato di aria diffondente interposto tra il sole e la pianta. L’indice di area fogliare (IAF) è, per definizione, l’area della superficie delle foglie riferita all’unità di area della superficie di suolo. La vegetazione del deserto possiede un IAF più basso di quello della foresta e ciò spiega gran parte della differenza di produttività. In generale, quando si aggiungono foglie alla volta della vegetazione, si può prevedere che l’aumento dell’IAF faccia aumentare la produttività; ma alla fine, a causa dell’ombreggiamento, viene raggiunto un punto in cui le foglie che occupano una posizione bassa nella volta non ricevono luce sufficiente per fotosintetizzare con una velocità eguale alla loro velocità di respirazione. Oltre questo livello, al crescere dell’IAF decresce la produttività. L’IAF non è l’unica caratteristica strutturale che influenza la produttività della volta della vegetazione. Altri due attributi importanti sono l’inclinazione delle foglie e la densità delle foglie lungo la profondità della volta. Ad alte intensità di luce, la produttività è maggiore in una volta in cui le foglie situate alla sommità sono maggiormente inclinate rispetto al piano orizzontale. In questo caso, in corrispondenza dell’ambiente ricco di luce dello strato superficiale, la conseguente riduzione dell’assorbimento della luce non riduce la velocità di fotosintesi, mentre una maggiore quantità di luce è resa disponibile nei livelli più bassi della volta. Un’alta produttività è associata anche alla concentrazione di foglie nella parte superiore della volta, tranne quando le foglie situate alla sommità sono inclinate orizzontalmente.

 

La produttività di una comunità di piante può perdurare soltanto per quel periodo durante il quale le piante sono provviste di fogliame fotosinteticamente attivo. Gli alberi caducifogli hanno un limite autoimposto al periodo dell’anno durante il quale portano fogliame. Al contrario, gli alberi sempreverdi sono provvisti di fogliame durante tutto l’anno ma, durante alcune stagioni, esso può fotosintetizzare a malapena o persino respirare più velocemente di quanto fotosintetizzi. Gli andamenti latitudinali della produttività delle foreste sono quindi in gran parte una conseguenza di differenze nel numero di giorni in cui c’è una fotosintesi attiva. Quali che siano l’intensità dei raggi solari e la frequenza delle piogge, a temperatura costante, la produttività sarà comunque bassa se il terreno è carente di sostanze minerali nutritive essenziali. La radiazione incidente viene usata con basso rendimento da tutte le comunità. Le cause di questo basso rendimento di utilizzazione possono essere fatte risalire ai seguenti fattori: penuria di acqua che limita la velocità di fotosintesi, penuria di sostanze nutritive minerali essenziali che fa diminuire la velocità di produzione di tessuto fotosintetizzante e la sua efficacia nella fotosintesi, temperature letali o troppo basse per consentire l’accrescimento, insufficiente profondità o carenze minerali del suolo, incompleta copertura di fogliame (stagionalità della produzione delle foglie, defogliazione per opera di organismi nocivi), basso rendimento con cui le foglie fotosintetizzano (difficilmente >10% anche nei sistemi agricoli più produttivi).

 

Inoltre, la luce ha anche altri effetti sullo sviluppo delle piante, causando il fototropismo e permettendo il geotropismo nelle radici di certe specie. Esistono inoltre numerosi altri effetti della luce, indipendenti dalla fotosintesi e dal fototropismo. La maggior parte di questi effetti controllano la forma della pianta, cioè il suo sviluppo o morfogenesi. Il controllo della morfogenesi da parte della luce è comunemente indicato come fotomorfogenesi. Un pigmento, chiamato fitocromo, assorbe la luce in rapporto a questo fenomeno; di esso ne esistono almeno due tipi. Altri fotorecettori scoperti più di recente sono il crittocromo (tipico della Crittogame, ma presente anche in piante superiori), il fotorecettore UV-B e la protoclorofillide a (il precursore immediato della clorofilla). Esistono in bibliografia molte ricerche sugli effetti del fitocromo in particolare sulla germinazione fotodipendente, sulla natura della fotodormienza, sul ruolo della luce nella morfogenesi delle plantule e nell’accrescimento vegetativo, sugli effetti fotoperiodici della luce, sull’incremento della sintesi dei flavonoidi indotto dalla luce e infine sugli effetti della luce sulla disposizione dei cloroplasti. La luce è inoltre coinvolta nei fenomeni relativi al cosiddetto “orologio biologico”, in parte influenzato da ritmi circadiani, e nei fenomeni di fotoperiodismo. Quest’ultimo è un fenomeno veramente straordinario! Spesso la sincronizzazione degli organismi con le stagioni è in rapporto con la riproduzione: ad esempio è importante che tutti gli individui di una data specie di angiosperme fioriscano nello stesso momento (garantendo la possibilità dell’impollinazione incrociata) o che i muschi, le felci, le conifere ed anche alcune alghe formino le strutture riproduttive in una determinata stagione. Molte altre risposte delle piante, come l’allungamento del caule, la crescita delle foglie, la dormienza, la formazione di organi di riserva, la caduta delle foglie e lo sviluppo della resistenza al gelo, si manifestano durante certe stagioni. Spesso queste risposte sono sincronizzate dal fotoperiodismo. Molto di quello che succede nel mondo della natura dipende dal fatto che le piante e gli animali sono capaci di percepire le lunghezze relative del giorno e della notte.

 

Si possono trarre delle conclusioni generali sul ruolo del fotoperiodismo. Innanzitutto esiste un’ampia diversità nei tipi di risposta fotoperiodica. Prima che una pianta possa fiorire in risposta al suo ambiente (in particolare alla lunghezza del giorno e della temperatura), gli organi che percepiscono le modificazioni, di solito le foglie e i meristemi, devono raggiungere una condizione, detta maturità alla risposta. Esiste un’ampia diversità tra le specie e gli organi delle piante rispetto all’età nella quale viene raggiunta questa condizione. Il periodo di buio ha un ruolo importante nella risposta fotoperiodica, dato che la sua interruzione con la luce inibisce la fioritura nelle piante brevidiurne e stimola quella delle piante longidiurne. Il fitocromo chiaramente percepisce l’interruzione con la luce, al cui efficacia dipende dalla durata dell’illuminazione. Un’interruzione della notte inibisce la fioritura nelle piante brevidiurne e stimola la fioritura in quelle longidiurne. Inoltre, la luce rossa è più efficace per le piante brevidiurne e una mescolanza di rosso e rosso-lontano è più efficace per le piante longidiurne. Una parte del meccanismo della misura del tempo nel fotoperiodismo ha le caratteristiche della clessidra, e ciò riguarda in particolare la trasformazione del pigmento e la sintesi di un ormone della fioritura. Esistono molte prove circostanziate che la stimolazione della fioritura sia controllata da ormoni: uno o più florigeni ad azione positiva ed uno o più inibitori ad azione negativa. Queste sostanze sono ancora da identificare. In particolare, sono le foglie gli organi della pianta che percepiscono la lunghezza del giorno. La risposta della fioritura è spesso influenzata dalla somministrazione di regolatori della crescita e ormoni, ma i meccanismi sono ancora poco noti. Anche se diversi composti provocano la formazione dei fiori, non esiste alcuna prova convincente che il florigeno sia costituito da uno, o più di uno, degli ormoni vegetali noti. Il fotoperiodismo inoltre regola lo sviluppo dei fiori, la dormienza delle gemme e dei semi (giorni brevi), l’allungamento del caule (giorni lunghi), la formazione di organi di riserva (favorita da giorni brevi), la crescita vegetativa delle foglie (più lunghe, larghe, sottili e gialli con giorni lunghi), dei rami (stimolata da giorni brevi), la sintesi di antociani, alla radicazione delle talee (giorni lunghi), fenomeni di clorosi tra le venature (as es., pomodoro illuminato per 18 h). Non ultime, sono le diverse risposte biochimiche in piante fatte crescere a fotoperiodi differenti (es., acidi organici, ormoni, viscosità citoplasmatica, ecc.).

Written by Horty in: Senza categoria |
Ago
28
2022
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Effetti dell’inquinamento sugli organismi viventi

Questo mese pubblico un articolo un po’ più tecnico. Stavo cercando nuovo materiale per il mio corso di “Inquinamento del suolo e bioremediation” che comincerà ad ottobre e mi sono imbattuto in questo mini-saggio che avevo scritto per prepararmi all’esame di Stato da biologo (siamo nel secolo scorso; era il 1999!). Rileggendolo, mi sono accorto che ero molto più tecnico e categorico rispetto ad ora e che le mie nozioni di zoologia erano decisamente più fresche (del resto ho fatto la mia tesi su un uccello acquatico). Ve Lo ripropongo qui dopo averlo corretto un po’ nella forma. Potrebbe essere molto utile agli studenti, ma non solo.

 

Inquinamento, degradazione, alterazione sono termini divenuti ormai di uso corrente che indicano una modifica delle caratteristiche naturali di un ecosistema apportata dalle attività umane. Gli organismi reagiscono in vario modo in rapporto al tipo ed all’intensità del disturbo dando luogo a situazioni biologiche particolari. Molte alterazioni si verificano anche per cause naturali, indipendentemente da qualsiasi azione antropica. Così il riscaldamento delle acque dovuto a fenomeni di vulcanesimo, la concentrazione di mercurio nelle acque dovuta al dilavamento di terreni mercuriferi o la diminuzione dell’ossigeno per la putrescenza di vegetazione accumulatasi in aree con scarso ricambio, ecc., sono tutti fenomeni naturali che condizionano le comunità biologiche ed i singoli organismi. I comparti abiotici interessati da fonti inquinanti sono l’acqua, l’aria ed il suolo. Inquinare uno solo di questi comparti significa in realtà inquinarli tutti, in quanto essi sono intercomunicanti per mezzo di scambi di energia e di materia. Gli effetti dell’inquinamento atmosferico si possono ripercuotere sul suolo mediante fenomeni meteorici oppure se un corso d’acqua è inquinato, l’acqua potrebbe invadere il terreno per ruscellamento, compromettendo anche il suolo; l’acqua inquinata può contaminare anche l’aria se nell’acqua sono presenti composti inquinanti a bassa tensione di vapore. Esempi di questo genere sono molteplici.

 

In questi tre comparti sono sempre presenti delle impurità di origine naturale o antropica e può capitare che queste siano addirittura benefiche per gli organismi viventi, anche causando scompensi negli ecosistemi in questione. Per questa ragione non si può considerare l’inquinamento un concetto soltanto qualitativo, ma anche quantitativo: l’inquinamento è in atto allorquando le concentrazioni delle impurità presenti superano il livello che noi riteniamo essere naturale. E’ quindi la quantità delle impurità presenti che può dimostrare che una risorsa sia inquinata o meno. E’ importante però definire anche la qualità di una risorsa in rapporto all’uso che se ne fa. Per questo bisogna stabilire degli standard di qualità, individuando tutta una serie di sostanze, per ognuna delle quali vengono stabiliti dei limiti. Poco ci importa se ci sono impurità nell’acqua di un porto utilizzata unicamente per la navigazione, ma piccole quantità di una sostanza nociva nell’acqua potabile diventano allarmanti perché potrebbero mettere in pericolo numerosi individui. Si parla comunque di inquinamento quando ci si riferisce all’immissione nelle acque di sostanze che hanno effetti dannosi sugli organismi, sulla salute dell’uomo o sulle risorse naturali in genere. Tali sostanze possono avere un diverso grado di tossicità e comunque sono tali da determinare situazioni di anormalità a seconda della concentrazione.

 

Le fonti principali di inquinamento antropico derivano principalmente da pratiche agricole (fertilizzanti, pesticidi, reflui zootecnici, fanghi di depurazione), processi industriali (acque di lavaggio, di raffreddamento e di processo, ossidi di zolfo e di azoto) e scarichi urbani (residui metabolici, tensioattivi, residui provenienti da attività domestiche e dal dilavamento delle strutture urbane) L’agricoltura inquina probabilmente in misura maggiore dell’industria, perché ha fonti più diffuse di inquinamento, mentre l’industria prevede sorgenti inquinanti puntiformi più facilmente individuabili e per le quali possono essere presi provvedimenti più specifici. Altra sorgente di inquinamento pericolosa in quanto diffusa, è costituita dai trasporti, soprattutto per l’immissione in atmosfera di monossido di carbonio e ossidi azoto, nonché di composti organici volatili e particolato sospeso. Gli effetti inquinanti possono essere diretti sulle risorse e sugli organismi viventi, causando alterazioni caratteristiche dei comparti, oppure indiretti. Un esempio di effetto diretto è l’inquinamento atmosferico, che aggredisce i monumenti o gli organismi viventi. Le azioni indirette sono invece di diversi tipi, come l’inquinamento che provoca danni immediati se molto forte, soprattutto quello atmosferico, oppure quello che provoca effetti a lungo termine mutageni e subletali, che può portare addirittura alla sparizione del processo riproduttivo e addirittura all’estinzione di una specie. Fra gli inquinanti più subdoli bisogna annoverare anche quelli presenti nelle confezioni alimentari che contengono cibi di solito già preparati e conservati con sostanze spesso non ancora testate adeguatamente.

 

Consideriamo in primo luogo gli effetti dell’inquinamento marino sugli organismi acquatici.

 

L’inquinamento marino consiste nell’introduzione diretta o indiretta nell’ambiente marino di sostanze capaci di produrre effetti negativi sulle risorse biologiche sulla salute umana, sulle attività marittime e sulla qualità delle acque. L’eccessivo aumento di nutrienti, dovuto principalmente a scarichi urbani, può causare il fenomeno delle cosiddette maree rosse, che consiste in una massiccia proliferazione di alghe unicellulari la cui pigmentazione conferisce al mare una colorazione rossastra o giallo-bruna. Le alghe che determinano questo fenomeno appartengono principalmente ai Dinoflagellati e alle Diatomee. La loro abbondanza è tale che durante la notte consumano tutto l’ossigeno presente nelle acque causando estese morie di pesci, molluschi, crostacei ed altri animali che vanno in putrefazione sulle spiagge e sul fondo. Un altro fenomeno, ricorrente ad esempio nell’Adriatico settentrionale, è la formazione di ammassi gelatinosi prodotti da Diatomee bentoniche, noto come “mare sporco”. Si tratta di mucopolisaccaridi extracellulari secreti durante la fase riproduttiva dalle alghe, quindi all’inizio della primavera, che vanno in superficie e scompaiono del tutto prima dell’estate.

 

Il graduale aumento dell’eutrofizzazione e della sedimentazione, con conseguente diminuzione dell’ossigeno sul fondale, fa risentire i suoi effetti sulle comunità bentoniche. Ad esempio le posidonie vengono sostituite da altri vegetali man mano che ci si avvicina alla fonte di disturbo. La Posidonia muore in seguito al cambiamento del substrato, alla riduzione della quantità di luce a causa della diminuita trasparenza delle acque, al sovraccarico di epibionti. Nelle zone interessate direttamente dagli inquinamenti organici, le conseguenze ultime sono la rarefazione e la scomparsa dell’ossigeno, per cui sui fondali le comunità dei vari tipi di fondo subiscono drastiche modifiche. Alla grande varietà di specie animali e vegetali si sostituiscono gradualmente specie saprobie sempre più resistenti agli agenti inquinanti e in grado di sopportare condizioni di grave carenza di ossigeno come i Policheti Capitella capitata e Nereis caudata e alghe nitrofile come Ulva, Enteromorpha e Cladophora, specie opportuniste. Si verifica quindi una diminuzione delle specie in rapporto ad un gradiente di stress ambientale e al tempo stesso un corrispondente incremento numerico delle poche specie in grado di sopravvivere e di riprodursi in ambienti prevalentemente controllati da fattori fisici. Negli ambienti portuali o comunque in zone con scarsa circolazione, come baie o fiordi, inquinate da materiali prevalentemente organici, vi è una fauna caratteristica la cui distribuzione segue, in linea di massima, un gradiente di concentrazione dell’ossigeno. Sono quindi frequenti i mitili, il tunicato Ciona intestinalis, i crostacei Sphaeroma serratum e Corophium insidiosus, i policheti Aoudouinia tentaculata; le specie più resistenti alla carenza di ossigeno sono N. caudata e C. capitata, che è l’ultima a scomparire. Per quanto riguarda la resistenza ai detersivi, la risposta di un organismo è diversa in rapporto al grado di adattamento delle popolazioni, al tipo di detersivo, alla sua concentrazione in acqua e al tempo di esposizione. Un organismo molto resistente e Mytilus edulis. Più sensibili appaiano le alghe, soprattutto le Feoficee.

 

Le conseguenze globali di un inquinamento da petrolio sulla fauna e la flora marina appaiono con drammatica evidenza soprattutto nel caso di massicci sversamenti. Dove l’inquinamento è cronico, come nei porti, risulta più difficile stabilire la specifica azione perché possono essere presenti più inquinanti. Gli effetti sugli organismi dei vari composti del petrolio dipendono dal grado di tossicità dei singoli idrocarburi, dovuto alla struttura chimica; in generale, la tossicità diminuisce con l’aumentare del peso molecolare. Gli idrocarburi aromatici, piuttosto volatili e quindi assumibili dalla respirazione, sono senz’altro più tossici; tendono ad accumularsi in particolare nei grassi e sono quindi difficilmente eliminabili dall’organismo; tra di essi ricordiamo il toluene, il fenantrene ed il naftalene. Le conseguenze sulla fauna e sulla flora bentonica possono essere diverse secondo il tipo di fondo e l’idrodinamismo. Sulle coste più esposte infatti il moto ondoso favorisce la rimozione e la dispersione del petrolio, con una conseguente diminuzione dei danni. Inoltre i danni sono più gravi su una costa sabbiosa perché il petrolio, se non è prontamente rimosso quando è ancora allo stato liquido, tende a penetrare nell’interno del substrato dove mantiene più a lungo le sue proprietà tossiche e dove la degradazione batterica è fortemente rallentata per la carenza di ossigeno. Il grado di sensibilità dei vari gruppi zoologici presenta notevoli variazioni, ma i gruppi più sensibili sono gli echinodermi, anfipodi, isopodi e turbellari, seguiti da molluschi lamellibranchi e gasteropodi; infine policheti e nematodi sono i più resistenti. Gli effetti di un inquinamento da petrolio provocano anche la scomparsa di plancton di superficie, ma la ricostituzione delle comunità avviene rapidamente una volta cessata l’azione tossica sia per immigrazione del plancton nelle aree colpite, sia per una più rapida crescita del fitoplancton.

 

Di grande evidenza sono gli effetti che l’inquinamento petrolifero ha sugli uccelli, i quali rimangono invischiati dalle masse oleose, sia quando queste si accumulano sulle coste, sia quando stratificano sulla superficie del mare. Il piumaggio perde le sue proprietà idrorepellenti e non consente più l’isolamento termico, per cui l’animale appesantito non è più capace di volare, e la morte segue per ipotermia. Nei casi meno gravi gli uccelli provano col becco a pulire le penne, ingerendo così petrolio, che provoca gravi alterazioni agli organi interni ed ostacola la deposizione e lo sviluppo delle uova. Più colpite sono le specie che trascorrono la maggior parte della vita in mare aperto e si portano sulle coste solo per la cova. Questi animali, nuotando sott’acqua in cerca di preda, quando risalgono in superficie, rimangono facilmente invischiati. Le specie più a rischio sono gli alcidi (gazze marine, urie, pulcinella di mare) ed alcuni anatidi tuffatori come l’edrendone e la moretta codona. Danni minori sono causati anche a svassi, cormorani, smerghi, gabbiani. Anche le lontre marine sono minacciate da questo tipo di inquinamento: la probabilità di sopravvivenza di una lontra marina che abbia avuto contatti con il petrolio sono del 50%, a causa principalmente di danni al fegato dopo l’ingestione di petrolio.

Le frazioni pesanti del petrolio sono i catrami, mentre le frazioni volatili tossiche sono benzene, toluene e xilene (cancerogeni). L’altro effetto dannoso del petrolio è quello coprente, in quanto si spande sull’acqua e impedisce gli scambi gassosi e la penetrazione della luce, appesantisce le alghe e copre le branchie degli invertebrati.

 

I composti organo-alogenati costituiscono un vasto gruppo di molecole organiche contenenti un o più atomi di alogeni. Varie alghe e organismi marini sono capaci di sintetizzare alcuni composti a basso peso molecolare di questo tipo, tuttavia la maggior parte dei composti organo-alogenati riscontrati in mare sono prodotti dalle industrie. Sono composti organo-alogenati a medio peso molecolare molti insetticidi e pesticidi. Sono di esclusiva origine industriale, molto stabili, scarsamente reattivi, fortemente assimilabili dalle microparticelle, insolubili in acqua, solubili nei grassi e resistenti all’azione batterica. Data la loro spiccata lipofilia, passano facilmente attraverso il doppio strato lipidico della membrana cellulare oppure si accumulano nei tessuti adiposi degli animali. Il DDT è un insetticida che persiste a lungo nell’ambiente, mantenendo le sue proprietà. Derivati del DDT sono il DDE e il DDD, meno tossici. Non hanno azione selettiva contro il bersaglio prescelto, non vengono riconosciuti subito dai batteri, si accumulano e si magnificano nell’ambiente. Gli erbicidi sono usati in agricoltura per distruggere le piante dannose alle coltivazioni, tra i più importanti ricordiamo i due erbicidi clorurati 2,4-D e MCPA, che esercitano un effetto erbicida proporzionale alla superficie fogliare. Fieno e cereali, che hanno foglie strette, sono così protetti da molti infestanti. L’azione di questi composti simula quella di ormoni vegetali, provocando uno sviluppo eccessivo delle piante bersaglio che rapidamente muore, ed esercitando invece un effetto più blando sui cereali che ne ricevono un beneficio. Oppure agiscono contro la fotosintesi, Sono cmq tossici anche per la fauna, anche se in misura minore. I policlorobifenili più noti sono i PCB ed i PCT, altamente liposolubili e usati nell’industria elettrica come dielettrici e come liquidi di raffreddamento, nell’industria delle plastiche e delle vernici.

 

Ad un graduale aumento di DDT e di PCB nelle acque corrisponde una sempre più accentuata diminuzione della produttività primaria. I PCB sono addirittura molto più tossici. I composti organo-clorurati accumulati nei tessuti adiposi possono esplicare la loro azione patogena in periodi più o meno dilazionati secondo le attività metaboliche, come ad esempio la necessità da parte dell’organismo di utilizzare i grassi accumulati: l’effetto di questi composti si manifesta con maggiore incidenza quando l’animale utilizza come fonte di energia le riserve di grasso. Pesci e crostacei sono molto sensibili, i molluschi appaiono invece più resistenti per la capacità che hanno di accumulare questi composti. Negli uccelli e mammiferi i PCB, il DDT ed i DDE interferiscono sulla riproduzione poiché, stimolando l’attività enzimatica del fegato mantengono ad alti livelli le sue attività metaboliche con conseguente degradazione degli ormoni sessuali. I PCB sono molto più efficaci del DDT e presentano anche un forte effetto sinergico. DDT e DDE interferiscono anche sul metabolismo del calcio; negli uccelli inibiscono l’enzima anidrasi carbonica, che è essenziale per la deposizione del carbonato di calcio e per il mantenimento dei gradienti di pH attraverso le membrane, per cui risulta una diminuzione dell’indice di riproduzione. Le uova prodotte hanno gusci sottili e fragili (pellicani, cormorani, sterne). Anche le foche hanno un’alta concentrazione di DDT e di PCB nei loro tessuti: ciò causa il loro forte declino, soprattutto a causa della diminuita natalità. Il DDT è un insetticida organo-clorurato, ma ce ne sono anche di fosforati e di carbammati. Cmq i primi sono i più pericolosi a causa della elevata persistenza e accumulo nei grassi.

 

Senza dubbio, una delle classi di inquinanti più pericolosa è costituita dai metalli pesanti, o meglio elementi di transizione, a cui fanno parte elementi di transizione con orbitali d incompleti: questo li porta a presentare caratteristiche intermedie tra metalli e non-metalli. I sistemi biologici sono coinvolti dalla contaminazione di questi metalli perché gli elettroni liberi degli atomi di azoto delle proteine si posizionano negli orbitali d vuoti dei metalli di transizione, dando origine a complessi di coordinazione che, richiedendo configurazioni elettroniche del tutto diverse da quelle della proteina di partenza, ne causano la perdita dell’attività enzimatica e la flocculazione. I metalli pesanti possono esistere allo stato elementare (o metallico) o come ioni liberi, o come parte di molecole più complesse. Allo stato elementare nessun metallo è tossico, ma non bisogna dimenticare che numerosi processi chimici e biochimici sono in grado di trasformare un elemento in ioni, che invece hanno attività biologiche. I metalli pesanti essenziali sono Fe, Cu, Zn, Cr, Mn, Ni e Co: essi sono richiesti dall’organismo in quantità minime e sono coinvolti in molteplici funzioni biologiche come costituenti indispensabili di molti enzimi, ma una concentrazione eccessiva di tali ioni è tossica. Elementi invece come Hg, Cd, Pb non presentano alcuna funzione biologica e vengono quindi definiti non essenziali: essi possono essere tollerati dall’organismo entro determinate concentrazioni, al di sopra delle quali diventano tossici. A concentrazioni alte nell’acqua di mare, si verifica un accumulo nei tessuti, in quanto i meccanismi di incorporazione comportano l’assorbimento in quantità superiori a quelle di cui necessita l’organismo. Se i processi di escrezione non sono sufficienti, gli elementi tossici possono essere trasformati in composti non tossici e immagazzinati nel fegato e nel rene o anche in altre parti del corpo (peli, penne, gusci). Ciò permette che organi estremamente sensibili come il cervello, siano protetti da una concentrazione eccessiva.

 

L’effetto tossico sugli organismi deriva dai danni che gli ioni possono indurre a livello cellulare. L’avvelenamento da metalli pesanti può essere acuto o cronico. Viene detto acuto quando l’organismo riceve una dose elevata del veleno e ne subisce immediatamente i danni; l’avvelenamento cronico consiste invece nel progressivo accumulo nell’organismo di piccole dosi dell’agente tossico, ciascuna delle quali da sola non è in grado di provocare i sintomi dell’avvelenamento acuto. La tossicità varia a seconda del metallo considerato, tra Hg e Co c’è una differenza di tossicità di circa 1000 volte. I meccanismi di azione dei metalli pesanti sono dovuti al blocco dei gruppi funzionali con conseguente interruzione delle catene metaboliche. Hg lega i gruppi sulfidrilici delle proteine, il Cd colpisce in particolar modo il rene e la spermiogenesi e determina ipocalcemia e decalcificazione delle ossa. Il cromo colpisce il rene, soprattutto nella sua forma esavalente, Cu è un algicida fortissimo, Pb è affine ai gruppi sulfidrilici e provoca alterazioni della colonna vertebrale e dell’apparato ematopoietico e nervoso, Zn attacca organi ematopoietici e gastrointestinali. I composti mercurici, con ioni positivi bivalenti, sono molto più tossici di quelli mercurosi monovalenti. Data la sua grande affinità chimica con lo ione solfuro, lo ione Hg++, si lega ai radicali cisteinici delle proteine della membrana cellulare, alterandone la struttura secondaria. E’ presente anche la forma metallorganica Hg(CH3)2, fotodegradabile, e che quindi interessa soprattutto gli organismi che vivono in profondità, molto tossica perché presenta una catena alifatica solubile nei lipidi, che gli permette di attraversare facilmente la membrana cellulare. L’azione del mercurio è principalmente teratogena, aggravata dal fatto che l’accumulo negli organismi può raggiungere valori altissimi (soprattutto nei pesci che vivono in aree contaminate e nelle penne degli uccelli marini che frequentano le coste delle aree industrializzate).

 

I metalli pesanti si possono trovare in acqua anche sotto forma di composti organometallici, soprattutto come composti metilati (Hg, Pb, Sn, Si). La parte organica può essere un gruppo alchilico oppure arilico ad anello chiuso. Questi composti sono prodotti industrialmente ed usati come pesticidi oppure come stabilizzanti di polimeri. Sul fondo degli stagni però, questi composti possono formarsi per via naturale a contatto con il sedimento; ciò avviene utilizzando la metilcobalamina (vit B12), trasferendo un gruppo metilico su un metallo della vitamina. L’altro meccanismo è quello che parte da metalli organici come lo stagno trimetile o il piombo trimetile, lo ioduro di metile, il solfuro di dimetile.

Questi composti sono più tossici dei corrispondenti sali di metallo per il fatto che il gruppo lipofilo permette l’attraversamento della membrana cellulare. I composti organostagnici sono utilizzati come pesticidi o come vernici antifouling e agiscono a livello di membrana dei mitocondri, interferendo con l’assimilazione dell’ossigeno. I piomborganici sono usati come antidetonanti nelle benzine e colpiscono il SNC. I silossani non hanno effetti tossici. Il cadmio colpisce invece soprattutto i molluschi, mentre crostacei ed echinodermi sembrano più sensibili soprattutto durante i primi stadi del ciclo vitale, causando un rallentamento della crescita dei giovani e un aumento dell’indice di mortalità. Lo ione cadmico bivalente (Cd++), che si riscontra nelle aree marine, è molto più pericoloso dello ione cadmioso (Cd+). Il piombo è molto velenoso nelle due serie di composti piombosi (Pb++) e piombici (Pb++++). È pericoloso anche allo stato metallico, perché la sua inspirazione e manipolazione dà luogo a un’intossicazione cronica detta saturnismo. Nell’ambiente naturale è andato sempre più aumentando parallelamente allo sviluppo dell’industrializzazione e della motorizzazione. È utilizzato come antidetonante nelle benzine. Gli organismi presentano differenze nella resistenza a quest’inquinante. I più sensibili sono gli uccelli che si avvelenano mangiando molluschi.

 

Gli effetti della radioattività sugli organismi variano a secondo dell’esposizione totale e della dose assorbita, della lunghezza dell’esposizione, del tipo e dell’energia della radiazione e della localizzazione della sorgente di radiazioni (interna o esterna all’organismo). Tutti gli esseri viventi nel corso della loro esistenza si trovano esposti di continuo a radiazioni, senza apparentemente ricevere alcuna alterazione significativa. La capacità di resistenza poi, varia notevolmente da un organismo all’altro, e da un isotopo all’altro. In generale, tuttavia, la sensibilità alle radiazioni aumenta con l’organizzazione degli esseri viventi. I danni da radioattività possono essere somatici o genetici. I danni somatici più noti sono le leucemie ed i tumori, i danni genetici invece provengono dal fatto che le radiazioni ionizzanti agiscono sul DNA, modificandolo chimicamente. Gli enzimi di riparazione hanno la funzione di ripristinare il DNA allo stato originale, ma, se il danno è molto esteso o interessa entrambe le catene nello stesso punto, la riparazione può essere difettosa. In alcuni casi il processo di riparazione può per errore introdurre basi azotate diverse da quelle di partenza, dando origine ad una progenie non vitale, mostruosa o con tumori ereditari. Il processo di incorporazione degli isotopi radioattivi è identico a quello del corrispondente elemento non radioattivo, ma poiché il danno non proviene dalla natura chimica dell’elemento, data l’estrema diluizione di questo, ma dalle radiazioni che esso emette, un accumulo insignificante di un determinato elemento può essere molto significativo se questo è radioattivo. Gli organismi marini più colpiti sono le alghe rosse, i molluschi bivalvi, i granchi. Dopo l’incidente di Chernobyl, i pesci contengono ancora dosi eccessive di 137Cs nelle ossa e nei muscoli. È però l’effetto a livello embriologico quello che dà più informazioni sulle possibilità di sopravvivenza e sulle possibili mutazioni delle specie esaminate.

 

I cicli vitali degli organismi sono strettamente condizionati dall’andamento termico delle regioni in cui vivono, e quindi un innalzamento della temperatura rispetto ai valori a cui le popolazioni sono adattate, può avere conseguenze imprevedibili sulle comunità. L’abnorme riscaldamento delle acque dovuto allo scarico di effluenti caldi viene quindi a determinare la modifica degli equilibri biologici con conseguenze la cui gravità è direttamente in rapporto alle caratteristiche ecologiche del corpo ricevente. Le acque più in pericolo sono quelle di raffreddamento per le centrali termoelettriche o per le industrie in genere. Le masse di acqua che vengono pompate nelle centrali si depauperano degli organismi planctonici in esse contenute, sia per il brusco innalzamento della temperatura, sia per l’effetto meccanico del trascinamento contro gli schermi, le pompe e le angolature del sistema di raffreddamento. La mortalità è totale quando nei circuiti vengono immessi Cl2 o NaClO in funzione antifouling. Uno dei fenomeni più appariscenti che si riscontra nei mari temperati è l’attrazione che l’innalzamento termico esercita su molte specie ittiche (spigole e muggini ad esempio). Si tratta di un fenomeno legato al periodo invernale. L’attrazione è anche dovuta alla grande disponibilità di nutrimento nell’area dello scarico per l’alta mortalità degli organismi planctonici trascinati nei circuiti di raffreddamento. Questa situazione modifica le normali migrazioni costiere di varie specie di pesci eurialini, come i salmoni. Il danno alle popolazioni si può manifestare come aumentata mortalità o come riduzione dell’accrescimento e della riproduzione. Le comunità bentoniche forniscono importanti indicazioni sulle conseguenze degli scarichi termici, essendo costituite da specie fisse o scarsamente mobili. Si possono così stabilire i limiti entro cui si fa sentire l’influenza termica ed il grado di tolleranza dei vari componenti della comunità. Per fare un esempio, i molluschi bivalvi dei fondi sabbiosi (vongole, telline, arselle) divengono incapaci di scavare il substrato, mentre quelli viventi su substrati rocciosi, come i mitili, manifestano difficoltà a formare i filamenti del bisso.

 

Ci sono insetti che depongono larve e uova in acqua e queste si sviluppano solo se ci sono alcune temperature. Se è presente acqua calda, avviene allora lo sfarfallamento dalle uova in mesi freddi, causando la morte. Molti altri organismi acquatici hanno bisogno di accumulare molto vitello prima di deporre le uova, ma la temperatura diminuisce il periodo di maturità sessuale e quindi gli animali deporranno prima le uova, ma queste saranno povere di vitello. Altre volte, l’elevata temperatura provoca la morte degli organismi a causa di inattivazioni enzimatiche, o causa della diminuzione dell’ossigeno in acqua e del contemporaneo aumento dl metabolismo (che si verificano entrambi all’aumentare della temperatura). Inoltre diversi composti sono più tossici a temperature più alte, come ad esempio NH3, presente ad alte temperature al posto di NH4+, meno tossico. Le diatomee hanno un optimum di temperatura di 25° C, le Cloroficee di 30 °C e i cianobatteri 35 °C. I copepodi sono meno termofili dei cladoceri; i plecotteri, i tricotteri e gli efemerotteri hanno diversa sensibilità alla temperatura: se la temperatura aumenta scompariranno nell’ordine in cui sono stati scritti. I problemi più gravi per la fauna e la flora marina si manifestano nelle regioni tropicali. Qui infatti un aumento di temperatura, anche di 2-3 °C, può causare gravi danni in quanto gli organismi vivono in condizioni molto più vicine ai limiti di tolleranza alla massima temperatura. È stato infine osservato in varie aree marine costiere soggette a scarichi termici, la comparsa di specie estranee viventi a più basse latitudini. Il fenomeno è segnalato soprattutto in Gran Bretagna e in Nord America. Ed è dovuto probabilmente al trasporto di larve nell’interno di correnti calde che corrono lungo le coste da sud a nord, o di individui aderenti allo scafo di navi provenienti dai meri caldi. Gli individui, una volta trovatisi in condizioni ottimali, si insediano e si riproducono dando origine a popolazioni che possono rimpiazzare completamente quelle di alcune specie originarie.

 

In aggiunta al materiale particolato trasportato a mare dai processi naturali, vari tipi di materiali inerti raggiungono il mare a causa delle attività produttive. SI tratta di apporti terrigeni dovuti ad operazioni di dragaggio, di ceneri trasportate dal vento risultanti dalla combustione di carbone nelle città e nelle industrie, si polveri o minuti frammenti di argille, marmo, pietrisco, vetro, carcasse metalliche ed infine una grande varietà di materie plastiche prodotte dalle industrie. Tutta questa massa di materiali di così diversa origine ha dimensioni estremamente variabili, ed influisce in varia maniera sulle attività biologiche degli organismi. Delfini, foche, uccelli, tartarughe e pesci rimangono spesso impigliati nelle reti abbandonate che galleggiano alla deriva o coprono il fondo rimanendo talvolta sospese agli spuntoni di roccia. Questi attrezzi rappresentano un pericolo costante che è andato aumentando con l’adozione del nylon, una fibra poliamidica a lentissima degradazione e difficilmente individuabile a causa della sua trasparenza. L’animale che rimane impigliato, anche se riesce a liberarsi, può rimanere ferito o subire degli impedimenti nella ricerca di cibo o nello sfuggire ai predatori. Inoltre, frammenti ed oggetti di materiali sintetici di varie dimensioni vengono ingeriti da vari animali che non sono in grado di distinguerli da una normale preda. L’ingestione di plastica, oltre a causare una diminuzione delle capacità nutrizionali, può anche lacerare la mucosa del tubo digerente. Albatros, puffini, procellarie e alche ingeriscono frammenti di plastiche e sferule che galleggiano sulla superficie del mare e che vengono confuse con le prede vive. Le tartarughe sono invece particolarmente attratte dai sacchetti di plastica e dai materiali translucidi che scambiano per le loro prede naturali: meduse, molluschi planctonici, tunicati. L’esame di individui spiaggiati rivela spesso che la causa della morte è dovuta ad occlusione del tubo digerente. Gli scarichi delle marmerie provocano lattescenza delle acque, con conseguente scomparsa di alghe e bentos. L’aumento della torbidità causa una minore trasparenza, una minore quantità di luce e quindi un minore tasso di fotosintesi. Anche le sostanze sedimentabili si sovrappongono alle alghe e causano una minore fotosintesi. Gli animali sono danneggiati in quanto i solidi sedimentabili abradono le branchie e alterano l’equilibrio ionico. Le branchie così danneggiate, sono più facilmente attaccabili da parte dei batteri. La fauna di grosse dimensioni non subisce invece danni diretti, specialmente quando il fenomeno è transitorio. Altri danni rilevanti sono quelli causati alle uova, che vengono coperte dai solidi e non possono più respirare.

 

Un fenomeno che assume sempre maggiore importanza, specialmente nelle zone industrializzate dell’Europa centrale e degli Stati Uniti è quello delle piogge acide. Le piogge acide colpiscono principalmente le foreste, ma interessano anche le acque dolci ed i monumenti. Gli alberi delle foreste nordiche aggrediti dalle piogge acide presentano perdite di clorofilla. Può allora accadere che nella foresta ci siano chiazze di alberi secchi, colpiti dalla acidità. Altri danni, più indiretti, riguardano l’attacco delle piante da parte di insetti, virus, funghi e altri organismi patogeni, i quali hanno un compito facilitato a causa delle scarse condizioni di salute degli organismi che attaccano. Le piante diventano anche più suscettibili all’attacco di altri fattori secondari quali gli inquinanti gassosi, quelli organici e la temperatura. Gli effetti delle piogge acide sulle acque consistono in un abbassamento del pH, che varia a secondo che le deposizioni acide giungano all’acqua in maniera più o meno intensa. Se le deposizioni non sono intense, l’acqua acida ha tutto il tempo di percolare nel suolo, il terreno aumenta la sua naturale alcalinità arricchendosi di carbonati e silicati neutralizzando così l’acidità. Il suolo è implicato anche in fenomeni di scambio ionico che si verificano all’interno di esso ed anche nelle radici e sulle foglie: nel suolo c sono sostanze colloidali come argille e sostanze humiche, le quali, a causa delle numerose cariche negative, legano numerosi ioni. La pioggia acida comunque è destinata a raggiungere torrenti, fiumi e bacini prima di arrivare al mare. L’acqua acida giunge in un lago attraverso le piogge, ma anche da tutto il bacino idrografico circostante. A secondo che il declivio del bacino imbrifero sia ripido o lento, avvengono diversi effetti. Un bacino imbrifero coperto da boschi sarà sempre più favorito di uno senza vegetazione nel bloccare l’acidità: le piante assorbono NH4+ e H+ liberando K+, Mg++ e Ca++ attraverso le radici e la superficie fogliare. Inoltre le radici frenano le acque acide, che scambiano ioni con il suolo. Se la pioggia è intensa, l’acqua scorre rapidamente in superficie e non ci sarà il tempo per lo scambio ionico. Per questo l’acqua arriverà a fiumi e laghi con lo stesso grado di acidità con cui è caduta. In alta montagna, dove la vegetazione è scarsa e i declivi ripidi, le acque sono molto acide, soprattutto al momento dello scioglimento della neve e del ghiaccio, in primavera. Allorquando il pH di un lago o in un corso d’acqua scende sotto il valore di 5 in maniera brusca, scompaiono tutte le specie ittiche più sensibili, quali i salmonidi (quali la trota iridea) che hanno bisogno di acque fredde e pulite. Anche i molluschi bentonici scompaiono e si sviluppano alghe filamentose, mentre comunità di alghe epifitiche ricoprono vari substrati. Al di sotto del pH 4, scompaiono anche le alghe e gli stagni o i laghetti appaiono limpidissimi a causa della quasi totale assenza di vita. Un rimedio a questi danni può essere quello della calcinazione, versando CaCo3 in queste acque. A causa del pH basso, la maggior parte delle specie presenti subiscono alterazioni della riproduzione. L’acidità stessa mette in soluzione delle sostanze tossiche, insolubili in condizioni neutre od alcaline. Ad esempio Al3, è solubile in ambiente acido ed è molto tossico per i salmonidi, alterando le branchie di questi ultimi e compromettendo così la funzione respiratoria ed escretoria. Con le piogge acide giungono negli ambienti acquatici anche solfati e nitrati in abbondanza e questo può alterare i normali rapporti tra N e P. Con l’apporto di nitrati, il rapporto 12 N / 1 P (ottimale per Cianoficee e Diatomee) sostituisce il 4 N / 1 P, con conseguente svantaggio per i Cianobatteri, che preferiscono quest’ultimo rapporto. I grandi fiumi italiani, così come i laghi, non sono molto acidificati, al contrario invece dei laghetti e dei fiumi alpini, che hanno tutti un pH minore di 6 a causa dello scioglimento delle nevi acide.

 

Effetti dannosi per gli organismi sono anche quelli deossigenanti, quelli eutrofizzanti e quelli tossici, che colpiscono sempre l’ambiente acquatico. Gli effetti deossigenanti colpiscono soprattutto le acque lotiche. Se in un corso d’acqua giungono molti scarichi, arriveranno anche sostanze organiche (da scarichi urbani) e tutta una serie di sostanze riducenti (da scarichi industriali). In acqua queste sostanze si devono mineralizzare e devono quindi essere demolite ad opera dei microorganismi presenti nel sedimento. I batteri devono ridurre queste sostanze in composti minerali, ma questo processo di mineralizzazione richiede ossigeno. Più sostanze organiche arrivano e più ossigeno sarà consumato, senza che la quantità di ossigeno che arriva per diffusione dall’aria e quella prodotta dalle alghe riesca a compensare le perdite. Se la quantità di ossigeno scende sotto i 2 mg/L, allora cominciano ad innescarsi processi anaerobici o, in caso di totale assenza di ossigeno, avvengono riduzioni anossiche (fermentazioni) con la formazione di composti tossici quali H2, ammine, H2S, CH4. Queste sostanze tossiche influiscono sugli animali di quelle zone. In primo luogo avviene la scomparsa di specie che non tollerano la scarsità di ossigeno seguita dalla selezione selle specie scarsamente influenzate dall’assenza di ossigeno, dall’espansione di queste ultime fino a livelli intensivi (soprattutto quelle con pigmenti respiratori ad elevata affinità per l’ossigeno come Batteri, Protozoi e Nematodi e quelle con un metabolismo plastico in grado di passare facilmente da aerobiosi ad anaerobiosi, come Anellidi oligocheti e policheti), infine si ha la ricomparsa di specie a sensibilità intermedia al cessare della perturbazione e la ricomposizione della comunità originaria.

 

Prenderanno quindi il sopravvento solo le specie opportunistiche (r-strateghe) e l’indice di diversità diminuirà, anche se le biomasse potranno anche aumentare. In prossimità dello scarico troveremo generi come Tubiflex e Limnodrilus, che vivono anche in condizioni anossiche, Merceriella e Capitella, entrambi indicatori di inquinamento (sono tutti Anellidi). Compariranno anche molluschi lamellibranchi ricchi di emoglobina. Sempre in prossimità dello scarico, si affermerà una popolazione detta “sewage fungus”, un popolamento di batteri e funghi filamentosi che si trovano sul substrato, che rivestiranno tutte le piante sul fondale. Si insediano tra questi poche alghe, ciliati peritrichi e altri protozoi, oltre a Cianobatteri. I principali batteri che fanno parte di questo tipo di associazione sono del genere Spaerotilus, Zooglea, Beggiatoa e Flavobacterium. Il primo è il genere più rappresentato, soprattutto quando c’è sostanza organica azotata. Beggiatoa invece ossida idrogeno solforato in zolfo e vive meglio quindi in presenza di questo elemento. Con gli scarichi urbani, giungeranno anche coliformi, streptococchi, vibrioni, clostridi, Salmonella, che saranno imbrigliati dai filamenti di funghi e batteri. I vegetali moriranno per la scomparsa di radiazioni luminose a causa delle acque torbide oltre che per un effetto meccanico coprente da parte dei detriti con conseguente danno fotosintetico. Alghe e macrofite subiranno danni cospicui. Oltre a questo effetto fisico, ci sarà un danno chimico a causa dell’aumento di nitrati, solfati e fosfati che causeranno una crescita abnorme della vegetazione. Con alti livelli di N e P, si affermeranno le Entomorphaceae, delle alghe filamentose lunghissime che si dispongono nel verso della corrente, sottraendo, durante le ore notturne, ossigeno con la respirazione. Di giorno c’è invece un’elevata fotosintesi e CO2 diminuisce come anche H2CO3 e quindi il pH aumenta. I danni più evidenti si hanno a carico delle comunità faunistiche, dove ci sono diversi gruppi indicativi di diverse qualità delle acque stesse. Insetti quali Tricotteri, Plecotteri, Efemerotteri sono molto sensibili alla riduzione di ossigeno e richiedono acque ben ossigenate. I Ditteri invece richiedono poco ossigeno, quali i ditteri Chironomidi ed Eristalidi. Questi sono rossi in quanto contengono molta emoglobina e si adattano ad acque più inquinate. In caso di uno scarico, scompariranno i primi tre e si affermeranno i Tubiflex e Limnodrilus, più lontano troveremo Ditteri e man mano che il processo di automineralizzazione va avanti, si incontreranno nuove associazioni biologiche in cui entrano nuove specie quali crostacei Isopodi (Asellidi, presenti in condizioni di scarso inquinamento), anfipodi Gammaridi (in condizioni ancora migliori). Infine si ripristinano le condizioni originarie, presenti a monte dello scarico.

 

Gli effetti eutrofizzanti si verificano in ambienti lentici quali laghi, serbatoi artificiali, acque marine e costiere. Questi sono dovuti all’apporto di composti inorganici quali N e P. Si ha così una proliferazione ed un aumento della biomassa fitoplanctonica come primo risultato di P in eccesso, la quale non riesce più ade essere smaltita dagli organismi che si nutrono in questa biomassa (catena fito-zoo-plancton). La quantità elevata di fitoplancton si accumula e queste alghe muoiono e vanno a finire sul fondo. Si instaura così una catena di detrito al posto di quella di pascolo e si verificano alcuni effetti quali quelli deossigenanti visti precedentemente. A causa dell’arricchimento di N e P, variano sia le caratteristiche delle acque e dei sedimenti, sia la trasparenza che diminuisce come la concentrazione di ossigeno disciolto. A livello si sedimento, le alghe finiscono sul fondo e quindi c’è un maggiore utilizzo di ossigeno da parte dei batteri, che possono metabolizzare anaerobicamente fino ad un certo punto, ma poi cominciano a consumare ossigeno, sottratto persino al necton (pesci), che muoiono. In ambiente oligotrofico ci sono molte specie, si affermano determinati gruppi algali sia fitoplanctonti che zooplanctonti, si affermano principalmente Diatomee (fitoplancton) seguite dalle Cloroficee. Andando verso l’eutotrofia cambieranno dapprima le specie (anche se sempre Diatomee e Cloroficee) e poi anche i gruppi più in alto (scompaiono o sono in estrema difficoltà tutte le Diatomee e le Cloroficee) mentre prendono il sopravvento i Cianobatteri. Si assiste anche ad un calo della diversità, che diminuisce, anche se la biomassa è elevata. I Cianobatteri anno una serie di caratteristiche che permettono loro di affermarsi in questi ambienti eutrofizzati: fissano azoto atmosferico, sopportando rapporti N/P di circa 5, mentre le alghe preferiscono N/P intorno a 14, hanno dimensioni maggiori delle altre alghe fitoplanconiche e molti zooplanctonti non riescono più ad alimentarsi di queste alghe. Inoltre sono in grado di secernere sostanze tossiche e hanno cellule con vacuoli che permettono loro di galleggiare e quindi di disporsi sugli strati più superficiali delle acque dove si sono sviluppati. Le altre alghe non ricevono così più luce, inoltre tutti i cianobatteri si disporranno solo negli strati più superficiali e non ci sarà una distribuzione omogenea dio produttività. Per quanto riguarda le popolazioni zooplanctoniche, in acque oligotrofiche gli zooplanctonti si nutrono di fitoplancton, in acque eutrofiche si perde invece molta biomassa sul fondo in quanto non tutta l’energia accumulata dalle alghe è utilizzata dallo zooplancton e si ha una perdita di energia del 70 %, oltre al fatto che del 30%, solo il 10% viene trasmesso in seguito.

 

Le sostanze tossiche sono sostanze chimiche che interagendo con molecole di organismi viventi, ne provoca degli effetti nocivi o diretti o mediati dai loro metaboliti. Altri parametri ambientali quali temperatura o sostanze inerti non sono quindi da considerarsi dei tossici. La gravità dei danni dipende principalmente dal tipo di tossico (struttura chimica) e dalla intensità dello stimolo (cioè il rapporto concentrazione/tempo di contatto). L’effetto negativo si manifesta inoltre solo dopo il superamento di una soglia. Al di sotto del limite, anche in presenza del tossico, non si verificano effetti dannosi evidenti. L’aumento del tempo di contatto con il tossico provoca danni sempre maggiori. Per tempi di contatto brevi, il tossico può alterare alcune catene metaboliche di un organismo. Si possono avere allora due tipi di risposte: alterazioni fisiologiche oppure alterazioni morfologiche. La comparsa di queste alterazioni porta in seguito all’instaurarsi di variazioni comportamentali sia individuali che comunitarie: attività motoria, equilibrio, orientamento, tassie. Per esempio, ciò avviene negli uccelli migratori o in insetti gregari. Continuando, si possono avere alterazioni della riproduzione e dell’accrescimento, in quanto il tossico agisce contro gameti e gonadi, oppure altera i moduli del corteggiamento e dell’accoppiamento, oppure ancora agisce contro lo sviluppo dell’embrione, la schiusa e la sopravvivenza. Con il perdurare dell’intensità, gli effetti negativi si propagano anche a livello di popolazione, la quale varia tanto nella struttura (densità, distribuzione spaziale, rapporto tra sessi o classi di età) quanto nella dinamica (indici di natalità, mortalità, sopravvivenza, crescita numerica). Infine, ci sono anche alterazioni tra le specie che compongono una comunità perché i tossici alterano il rapporto tra le popolazioni e gli indici di abbondanza, similarità, diversità. Per tempi di contatto dell’ordine dei decenni si possono infine avere danni a livello di ecosistema e quindi danni ai cicli degli elementi e ai trasferimenti di energia.

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Ott
25
2021
0

Crescita vegetale

 

Alcune piante sono così piccole che a malapena riusciamo a vederle. Possono persino torreggiare sugli esseri umani. Alcune piante crescono lentamente, altre molto velocemente. Ma come le piante esattamente crescono e di cosa hanno bisogno per farlo? Tutto comincia del seme. Nel posto in cui germina, la pianta deve trovare tutto ciò di cui ha bisogno per sopravvivere: acqua, nutrienti minerali, aria, luce e la giusta temperatura. Una prima radice cresce e la piantina cerca il contatto con il suolo. L’acqua arriva attraverso la radice ed evapora dalle prime foglie sul fusto ancora piccolo. Il fusto cresce verso la luce e sempre più foglie si formano per catturare la luce e produrre zuccheri. Mentre la pianta si sviluppa, usa sempre più nutrienti provenienti dal suolo. Il sistema radicale deve quindi approvvigionarsi: per raccogliere nutrienti, le radici devono esplorare sempre più aree sul terreno. Luce, acqua, sostanze nutritive; alcune piante soddisfano i loro bisogni in modi strani: la felce Platycetum, per esempio, non cresce verso la luce ma piuttosto si siede in alto su altre piante, senza avere contatto con il suolo. Il muschio Tillandsia usneaides cresce senza aver bisogno di pioggia perché estrae acqua dalla rugiada. La “pianta fantasma” Monotropa uniflora, chiamata così per via del suo colore bianco etereo, sopravvive anche senza clorofilla, prendendo tutto ciò di cui ha bisogno da altre piante attraverso un micelio fungino sotterraneo.

Esistono piante veloci? Il bambù e una delle piante a più rapida crescita: cresce fino a 70 cm al giorno! Una pianta più familiare è il rovo (Rubus fruticosus), che cresce fino a 10 cm al giorno. Alcune piante crescono velocemente. Si tratta di fare un uso ottimale delle risorse in particolari condizioni ambientali. La pianta che cresce più velocemente verso la luce del sole, ad esempio, ha più luce per fare fotosintesi. La qualità del suolo è anche importante. Se il suolo e le piante sono ben “accoppiati”, la pianta prospera. Umidità e abbondanza di nutrienti promuovono la crescita, mentre condizioni aride la rallentano. Senza dubbio, le piante possono tollerare un certo grado di fluttuazione nel rifornimento di acqua e nutrienti. Nel deserto, ad esempio, si raggiungono condizioni estreme: il suolo è secco quasi tutto l’anno e non si vede un filo d’erba. Subito dopo le piogge, invece, c’è una corsa alla germinazione: quale pianta può produrre la maggior parte dei semi nel tempo più breve? Dopo due mesi di verde lussureggiante, poi si ritorna al paesaggio spoglio. Una curiosità: nel 2014, il premio per la zucca (Cucurbita maxima) più pesante in Germania fu dato a una zucca di 1054 kg! Il suo frutto ha avuto circa 100 giorni per produrre tanta biomassa, crescendo così di circa 10 kg al giorno.

Rapida crescita, rapido invecchiamento. Alcuni pioppi (Populus spp.) crescono anche di 150 cm in un anno. Il loro legno ha larghi pori, è leggero e non molto flessibile, praticamente perfetto per i mobili. I pioppi sono piante pioniere. Sono i primi a popolare nuovi habitat e crescono rapidamente. Però pagano un prezzo per la loro velocità: le loro cellule non sono molto stabili perché hanno pareti cellulari sottili e quindi invecchiano rapidamente.

Tra 3 e 150. Gli alberi crescono in altezza a differenti velocità, a seconda del periodo dell’anno. In media, gli abeti rossi (Picea spp.) in Europa centrale crescono di 37 cm all’anno, ma in alcuni anni arrivano anche a 150 cm. La stessa cosa fanno i pini (Pinus spp.). Al contrario, il faggio (Fagus spp.) cresce ad un passo più rilassato di 9 cm all’anno, mentre le querce (Quercus spp.) arrivano solo a 4 cm. E il tiglio (Tilea spp.) impiega anche più tempo: aumenta la sua altezza di 3 cm l’anno.

Arrampicatori da record mondiale. Almeno 10 cm al giorno, ma talvolta anche 30 cm: così il luppolo (Humulus lupulus) raggiunge la sua impressionante lunghezza in una sola estate! Le piantine di vite americana (Parthenocissus quinquefolia) si arrampicano ad una velocità di 5-6 cm al giorno, mentre la vite coltivata (Vitis vinifera) cresce di circa 2 cm nello stesso tempo.

Sopravvivenza in cima. Le condizioni ambientali sono difficili alle alte altitudini. Per sopravvivere, le piante hanno tassi di crescita ridotti, proteggendosi così dal vento e dal freddo: poco sopra il terreno, il vento soffia meno fortemente ed è più caldo. La stella alpina (Leontopodium nivale), per esempio, ha foglie spesse e con peli argentei che fungono da scudo contro il disseccamento e la forte radiazione ultravioletta.

Affrontare ogni habitat. Nel lontano nord, il papavero artico (Papaverum radicatum) sfida il gelo e nella regione del Sahel africano, i cespugli spinosi vengono al termine con il calore e l’evaporazione. Le piante sono artiste della sopravvivenza. Crescono in tutte le zone climatiche della Terra, dalle regioni polari alle zone temperate, fino ad arrivare ai tropici. Più variegato è il paesaggio, più diverso è il suolo, la sua umidità e temperatura, più diverse sono le comunità biotiche. Così, in montagna c’è la maggiore abbondanza di specie vegetali, perché qui le rocce in pendenza si alternano con dirupi, laghi e paludi, presenti in aree grandi e piccole poste a diverse altitudini. Le piante si adattano alle loro condizioni specifiche ed evolvono differenti forme, colori e profumi. Attraverso milioni di anni di evoluzione, abbiamo le specie presenti oggi. L’evoluzione però continua ancora: nuove specie con differenti caratteristiche potrebbero anche evolversi oggi. Le piante sono resistenti: crescono anche in regioni inospitali. Come affrontano la mancanza di nutrienti per lunghi periodi di tempo? Per esempio crescendo ad un passo ridotto. E per quanto riguarda il calore e la siccità? Le piante possono formare semi molto velocemente per poi morire. I semi nel suolo poi aspettano fino alla prossima pioggia. La corona di Cristo (Euphorbia milii) in Madagascar ha un modo particolarmente astuto di contrastare aridità e calore: sostiene le foglie verdi solo per pochi giorni l’anno, mentre per la maggior parte del tempo è nuda.

Sfidando il calore. Nelle regioni desertiche, arbusti pungenti e piante succulente sono dominanti. Le piante succulente sono carnose e succose; conservano molta acqua nel loro fusto, come nel caso del cactus, o nelle foglie, come per Aloe spp. Per limitare l’evaporazione al sole cocente, le foglie di questo gruppo di piante hanno una piccola superficie rispetto al volume. Inoltre, molte di esse hanno spine per tenere a bada i loro nemici naturali.

Alcuni lo gradiscono freddo. Le piante crescono anche nelle regioni polari. Una delle specie che cresce più a nord è il salice artico (Salix arctica). Sopravvive anche ad una latitudine di 80 gradi nord: nel nord della Groenlandia, nel Canada artico e nelle isole Svalbard. Il profondo sud, d’altra parte, è il posto in cui vive il Colobanthus quitensis, che raggiunge i 68 gradi sud di latitudine, sul continente antartico.

Semplicemente immortali. Il cespuglio creosoto (Larrea tridentata), originario del Nord America, vive più a lungo di molti alberi. “King Clone” (Re Clone) è il nome dato all’individuo più vecchio conosciuto, di circa 11.700 anni. La pianta continua ancora oggi a generare nuovi fusti che emergono dalle loro radici laterali. In questo modo il cespuglio si propaga nello stesso posto attraverso la rigenerazione perpetua, rendendolo così effettivamente immortale.

Più vivo che mai. Matusalemme, il personaggio più vecchio della Bibbia, ha raggiunto l’età leggendaria di 969 anni; un giovincello se comparato ad altre specie di piante. Le nostre cellule si dividono continuamente e il loro tasso di divisione è programmato geneticamente. Nel tempo, questo tasso rallenta e il nostro corpo diventa più debole. Ad un certo punto, le cellule cessano di rinnovarsi e noi moriamo. In base al rapporto della WHO 2021, l’uomo raggiunge un’età media di 73 anni. Questa è solo un centesimo della vita di alcune piante. Oggi ci sono piante sulla Terra che erano già vive quando gli uomini erano ancora cacciatori-raccoglitori dell’Età della Pietra. Le cosiddette “querce millenarie” sono testimoni della nostra storia recente. Altre piante, al contrario, passano attraverso ogni stadio di sviluppo, dal seme alla propagazione, in solo un anno, per poi morire. Nelle piante, come negli animali, questo processo è specie-specifico. Come può una pianta essere così longeva? Le cellule vegetali non si dividono per rinnovare se stesse. Se il loro tempo è arrivato al termine, semplicemente muoiono. Comunque, un tessuto di speciale formazione produce costantemente nuove cellule che sostituiscono le vecchie. Queste poi si dispongono direttamente vicine o sopra le vecchie cellule morenti, prendendo il loro posto. Le cellule morte sono mantenute nel processo come “materiale”. In questo modo, il tessuto vivo è costantemente spinto verso l’esterno. La pianta cambia costantemente la sua forma durante questo processo: anche un ceppo marcescente potrebbe quindi improvvisamente cominciare a formare nuovi germogli.

Una meraviglia geriatrica del deserto. La Welwitschia mirabilis in Namibia è una pianta particolarissima nonché una delle più longeve del mondo. È stato dimostrato che un individuo ha 920 anni e si stima che altri siano anche più vecchi. La pianta ha solo due foglie che continuano a crescere per tutta la vita. La parte nuova della foglia spinge in avanti quella più vecchia; Il materiale più vecchio della foglia ha probabilmente molte decine di anni prima di morire. Poiché il fusto diventa sempre più spesso nel tempo, le foglie si dividono longitudinalmente e quindi le piante più vecchie sembrano avere foglie numerose.

Vegliardi vegetali. In Nord America è possibile incontrare pini molto longevi (Pinus longaeva e Pinus aristata). Alcuni di essi hanno più di 4000 anni e pochi individui anche più di 5000 anni. Il Rocky Mountain bristlecone pine raggiunge età simili. Anche l’olivo può raggiungere età ragguardevoli. Alcuni individui del Monte degli Ulivi a Gerusalemme potrebbero essere datati a terzo secolo prima di Cristo. L’età di questi alberi così antichi può essere comunque stimata perché non può essere misurata su quelli viventi.

Record! Chi è veramente grande? Minuscole o giganti, alcune piante si innalzano difficilmente sul suolo mentre altre cercano di competere tra loro in altezza. Come avvengono queste “olimpiadi verdi”? Alcuni alberi raggiungono altezze vertiginose ma, al contrario, il centonchio minore (Anagallis minima) misura solamente 2 cm. Quanto alta è una pianta, quanto forti sono le radici, il tronco e il fusto, e quante foglie e rami crescono, dipende dal programma genetico della specie. Ma anche l’habitat gioca un ruolo importante. Dopo tutto, una pianta non può decidere dove i suoi semi atterreranno e germineranno. Alcune piante giovani germinano rapidamente al fine di raggiungere la luce prima dei loro rivali. Altre rimangono gracili, forse perché il tempo e il vento non hanno dato loro una chance. A seconda di quanti nutrienti ha da offrire il suolo, di quanto forte è la luce solare e di qual è il clima prevalente nel sito, le piante della stessa specie semplicemente prosperano o crescono stentatamente. Raggiungere record di altezza ha certamente i suoi limiti: più alta è la pianta, più forte la forza di suzione che porta acqua ai rami più alti. Ma l’acqua resiste solo a certe pressioni: se la forza di suzione è troppo grande, le molecole di acqua perdono contatto tra di loro e il flusso di acqua si interrompe. Questo avviene a circa 110-120 metri di altezza e, per questo motivo, questa è l’altezza massima raggiunta da alcune specie di piante.

Alti e larghi. L’organo a forma di foglia dell’alga gigante (Macrocystis pyrifera) cresce di 30 cm al giorno. Il bambù gigante (Dendrocalamus giganteus) riesce a crescere anche di 70 cm al giorno e può formare lamine fogliari di 37 metri; incredibilmente alte per una pianta erbacea!

Da minuscole a giganti. La lenticchia d’acqua (Wolffia arrhiza) misura solo 1 millimetro ed è probabilmente la più piccola pianta a fiore del mondo. La sua controparte è la sequoia sempreverde (Sequoia sempervirens) del Nord America: l’esemplare con il soprannome di “Hyperion” è alto 115 metri ed è il più alto albero al mondo.

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