Mar
30
2021
0

Il misterioso linguaggio delle piante (parte 2)

 

Nelle comunità vegetali, ogni pianta potrebbe interagire in modo positivo, negativo o neutro con le sue vicine. Le piante spesso alterano direttamente o indirettamente la disponibilità di risorse e l’habitat fisico attorno ad esse. L’architettura della chioma, l’ombreggiamento, la temperatura e l’umidità dell’aria e del suolo sono in grado di alterare la penetrazione della pioggia, l’aerazione e la struttura del suolo. I vicini vegetali possono “tamponarsi” l’un l’altro da condizioni stressanti, come nel caso di forte vento. Alcune piante danno benefici alle loro vicine anche dopo che muoiono: in foreste vetuste e indisturbate, gli alberi cadono e i loro tronchi decomposti rendono l’habitat ideale ai semi per germogliare, con la formazione di migliaia di nuove piantine. Mentre gli effetti positivi sull’habitat fisico sono sicuramente aspetti intrinseci delle comunità vegetali, quasi sempre si verifica una competizione pianta-pianta per le risorse, soprattutto nutrienti e acqua. Quindi, in generale parliamo di interazioni positive (allelobiosi) o negative (allelopatia) tra piante vicine della stessa specie o di specie diverse.

Il commensalismo si verifica quando una specie vive in un’associazione diretta con un’altra (l’ospite), guadagnando un riparo o qualche altro vantaggio per la sopravvivenza e non causando danni o benefici all’ospite. Orchidee e bromeliadi (Neoregelia spp.), ad esempio, vivono sul tronco o sui rami dei loro ospiti, guadagnando acqua e sostanze nutritive dall’aria o della corteccia, senza penetrare nei tessuti dell’ospite. Le radici tozze e le foglie xeromorfe che aiutano a guadagnare e conservare acqua sono caratteristiche di molte epifite vascolari (“epifita” significa vivere su un altro). Le epifite appartenenti a briofite, licheni e felci sono così abbondanti nella foresta pluviale tropicale che spesso costituiscono più biomassa vegetale rispetto ai loro alberi ospiti. Un’altra facilitazione è illustrata dalla crescita della piantina del cactus saguaro (Cereus giganteus), che avviene in genere all’ombra di alberi di Parkinsonia microphylla o di altre piante, le quali creano un migliore habitat per il cactus e lo proteggono dagli effetti negativi del sole intenso e dalla carenza di acqua. Nelle pratiche agronomiche spesso si utilizzano altre piante, che fungono un po’ da loro “infermiere”, per migliorare il microhabitat per il raccolto principale. Ad esempio, l’avena e l’erba medica possono essere seminate insieme in modo che l’avena ombreggi e mantenga una più alta umidità nel suolo, necessaria alle piantine emergenti di erba medica. Esempi di questo genere abbondano in agricoltura sostenibile e conservativa, dove consociazioni e rotazioni sono la norma.

Interazioni dirette pianta-pianta che forniscono benefici ad entrambi gli organismi rientrano nel mutualismo. Includendo anche i microorganismi, un buon esempio di questa interazione è l’associazione di legumi e batteri azotofissatori che vivono all’interno dei noduli radicali delle leguminose. Le piante beneficiano ottenendo l’azoto dai batteri, mentre i batteri ottengono l’energia dei carboidrati sintetizzati dalla fotosintesi dei legumi. La stragrande maggioranza delle piante superiori presenta associazioni delle radici con le ife fungine (micorrize). Le piante vascolari ne traggono beneficio perché il fungo è molto più capace di assorbire e concentrare fosforo (ma anche altri nutrienti minerali) rispetto alle radici, mentre il fungo si assicura una fonte di zuccheri sicura da parte della pianta.

Le interazioni con piante parassite sono invece dannose per l’ospite. Molte piante (ad es., cuscuta, orobanchaceae e Pterospora) non contengono clorofilla e quindi non possono fotosintetizzare. Parassitizzano quindi la pianta ospite penetrando nel tessuto esterno mediante i loro austori (estroflessioni della radice), che alla fine vengono a contatto con l’acqua e le sostanze nutritive. Anche il vischio forma austori ma la funzione primaria di queste strutture è quella di assorbire acqua, poiché questa pianta parzialmente parassita (emiparassita) è in grado di produrre gli zuccheri da sé mediante fotosintesi. Striga spp. ha foglie verdi ma è una parassita obbligata (oloparassita) che provoca enormi perdite di legumi e cereali di origine tropicale. La striga si è evoluta in modo che le sostanze chimiche della pianta ospite siano diventate segnali che consentono al seme di germogliare e attaccare l’ospite. Successivamente, la striga penetra nelle radici ospitanti e sottrae acqua, minerali e ormoni. Il fico strangolatore (Ficus watkinsiana) è invece un albero che germoglia in alto sull’albero ospitante e invia radici a terra, uccidendo infine l’ospite quando le radici e le liane del fico lo circondano e lo strangolano, ombreggiando e bloccando così la sua fotosintesi.

Così come avviene per noi umani, è molto difficile che le piante non siano influenzate dalle piante a loro vicine. Gli effetti negativi su uno dei vicini sono indicati come interferenze, e comprendono la competizione e l’allelopatia. La competizione, la situazione in cui una pianta esaurisce le risorse dell’ambiente richieste per la crescita e la riproduzione dell’altra pianta, è il fenomeno più comune in natura. Piante che hanno più successo nell’assumere le principali risorse, acqua, sostanze nutritive, luce e spazio, hanno vantaggi e tipicamente dominano nelle comunità vegetali. Il vantaggio competitivo può derivare dalla stagione di crescita di una pianta, dal tipo di crescita o delle caratteristiche morfologiche, come la profondità delle radici, o caratteristiche fisiologiche, come differenze nell’efficienza della fotosintesi. Al contrario della competizione, l’interferenza allelopatica è messa in atto da una pianta che immette sostanze chimiche tossiche nell’ambiente intorno a essa e che inibiscono la crescita e la riproduzione delle specie associate o quelle che possono in seguito crescere nella stessa area.

Molti effetti negativi sulle specie bersaglio probabilmente si verificano per una combinazione di competizione e allelopatia. La capacità di alcune specie di piante di influenzare negativamente altre piante è stata ben documentata fin dall’antichità. I primi scritti su questo argomento sono attribuiti a Teofrasto (300 a.C.), uno studente di Aristotele che per primo notò gli effetti dannosi del cavolo su una vite e suggerì che tali effetti erano stati causati da “odori” provenienti dalle piante di cavolo. Questo fenomeno di interferenza tra piante vicine, noto appunto come allelopatia, in genere include lo studio delle interazioni pianta-pianta e pianta-microorganismi, nonché gli effetti dei composti allelochemici rilasciati da alcune piante sulla crescita delle piante o su fattori edafici, e possono essere studiati a diversi livelli all’interno delle comunità vegetali. Le interferenze allelopatiche sono mediate in genere dal rilascio di metaboliti secondari nell’ambiente tramite volatilizzazione, lisciviazione in seguito a precipitazioni, essudazione radicale o decomposizione della lettiera. Un singolo composto o una miscela di metaboliti potrebbe rivelarsi attivo ma, in genere, il fenomeno dell’allelopatia dipende dalla concentrazione accumulata di composti bioattivi e dalla loro persistenza nel tempo nell’ambiente naturale. Pertanto, lo l’ecologia di tali interazioni, nonché la fisiologia e la chimica delle interferenze allelochimiche sono tutte coinvolte nello studio di questi fenomeni. Il coinvolgimento dei meccanismi allelopatici nelle dinamiche della vegetazione e nella distribuzione spaziale delle piante è stato esplorato fino ad oggi su base limitata, sia negli ecosistemi naturali che negli ecosistemi o negli agroecosistemi. Oltre agli aspetti fondamentali della ricerca sull’interferenza delle piante e sulle relazioni tra le specie di piante, il campo dell’allelopatia comprende anche gli aspetti applicati dell’ecologia delle piante, comprendendo ad esempio l’ecologia delle colture e delle infestanti, e la gestione delle specie invasive.

Ma dei fattori ecologici delle interazioni pianta-pianta piante parleremo la prossima volta.

 

[continua il mese prossimo…]

 

 

Grazie a loro, ho scritto:

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Written by Horty in: Senza categoria |
Feb
22
2018
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Direttamente al succo

Le piante sono laboratori viventi di sostanze chimiche, la cui varietà oltrepassa la nostra immaginazione. Ogni anno vengono scoperti nuovi composti e potenziali medicinali sintetizzati proprio dalle piante, le quali, per la loro natura sessile, sono sottoposte a condizioni ambientali mutevoli e spesso ostili, nonché ad una vasta gamma di patogeni. Non potendosi spostare, ancorate al terreno, le piante devono ad ogni costo difendersi usando mezzi chimici. Le soluzioni che hanno funzionato, sono state setacciate dalla selezione naturale e sono arrivate fino ad oggi. Ci sono difatti molecole “antichissime”, la più famosa delle quali è la clorofilla, “inventata” nei batteri e trasmessa poi, attraverso i cloroplasti, in tutte le piante. In un articolo di qualche tempo fa, ricordavo che una parte della clorofilla è presente anche in noi come emoglobina, nei citocromi e nella vitamina B12, le cui strutture chimiche – basate sull’anello eme – sono molto somiglianti a quella della clorofilla, ma questa è un’altra storia. In parole povere, la natura conserva quello che funziona e a volte lo adatta anche a funzioni diverse (exaptation); come in una scatola di Lego, i mattoni di base sono sempre quelli ma è possibile ricombinarli a piacere. Se poi la molecola “funziona bene”, si “propaga” facilmente perché diventa un vantaggio adattativo ed evolutivo per l’organismo che la possiede ed è quindi possibile riscontrarla in piante anche non imparentate filogeneticamente.

Pensavo a tutte queste amenità, in ordine sparso come in questa introduzione, qualche settimana fa mentre stavo raccogliendo limoni in campagna. Sotto l’albero, tra spine conficcate e muri cadenti, i limoni pendevano sulla mia testa, alcuni verdi, altri giallognoli, altri ancora solo potenziali perché in fiore. L’odore prevalente era di zagara misto a quello di limone, che poi è simile a quello di quasi tutti gli agrumi (Citrus spp.), ma non solo di quelli. Lo stesso odore lo si può ritrovare in varie altre piante tra qui la citronella (Cymbopogon spp., una graminacea), dove è fortissimo, ma anche nello zenzero, nella curcuma e nel cardamomo (che appartengono alla famiglia Zingiberaceae), e io lo avverto anche in molte Lamiaceae, cioè le nostre comuni menta, lavanda, basilico, salvia, ecc., o nell’aneto e nel cumino (della famiglia Apiaeceae, parenti di carote e finocchi) o, ancora, nell’anice e nella verbena, e in alberi come il pino, il cipresso e l’eucalipto, ecc. Questi miei pensieri furono riposti in un cassetto fino a che una sera, ospite di una mia amica, mi fu rimproverato il mancato recapito come cadeau dei limoni raccolti. Tale mancanza era stata resa ancora più grave dalla passione della mia amica per le tisane, per cui mi furono mostrati una serie di agrumi e non, tutti accomunati dal tipico odore. C’era il classico limone (Citrus limon) e l’esotico lime (limetta in italiano, Citrus aurantiifolia, a buccia verde), considerati paradigmi di agrumi ma erroneamente. Difatti quasi tutti gli agrumi che conosciamo, con il loro frutto chiamato esperidio (da “Esperidi”, ninfe della mitologia greca che custodivano il giardino dei pomi d’oro di Era), sono ibridi, ad esclusione di mandarino, pomelo e cedro, che sono per così dire gli “agrumi primari”. Oltre questi due, c’erano foglie bilobate di kaffir lime (Citrus hystrix) e fusti di citronella (Cymbopogon spp.) usati in cucine orientale, e assimilabili al gusto dello zenzero, c’era anche il pepe del Sichuan (Zanthoxylum piperitum), la cui bacca ricorda quella del pepe nero, al quale non è per nulla imparentato. La storia di quest’ultima pianta è curiosa: si scartano i semi e si mangiano solo i gusci, che hanno inizialmente un sapore piccante e di limone e, dopo pochi minuti, causano un leggero intorpidimento della mucosa orale dovuto all’idrossi-alfa-sanshoolo (simile alla capsaicina dei peperoncini).

 

Lime, limone, pepe di Sichuan, fusto di citronella e foglia di kaffir lime.

 

Ho fatto tutta questa lunga dissertazione per arrivare al succo (non di limone, ma del discorso, appunto), cioè la presenza in tutte queste specie, così distanti tra loro, di una molecola chiamata limonene, oltretutto gradita al palato umano in varie culture. Il limonene è un metabolita secondario delle piante, un idrocarburo (contiene solo atomi di carbonio e idrogeno, e difatti può essere usato anche come biocarburante), ha un odore di limone/arancia o di trementina (resinoso), a seconda della sua forma enantiomerica. Il principale composto chimico presente in natura e di maggior interesse in campo industriale e merceologico è il D-limonene, ovvero l’(R)-(+)-4-isoproprenil-1-metilcicloesene. Appartiene al gruppo dei terpeni, che costituiscono le resine e gli oli essenziali di molte piante, la cui unità di base è un idrocarburo a 5 atomi di carbonio, l’isoprene. Aggiungendo varie unità di isoprene (5 atomi di carbonio alla volta, quindi), le piante sintetizzano vari composti, sia lineari (es. carotene, il mircene, il geraniolo, lo squalene, ecc.) sia ciclici (vari fitosteroli, il mentolo, il limonene, appunto, e altri ancora). Come tutti i terpeni, il limonene si scioglie meglio in alcool che in acqua, proprietà grazie alla quale possiamo godere di prodotti come il limoncello (e sue interessanti varianti, come il mandarinoncello, il Cointreau, il Grand Marnier, e altri cari compagni di serate).

 

Il D-limonene

 

Ora, considerando che il limonene lo riscontriamo sovente e oltretutto in piante non affini, il suo vantaggio adattativo dovrebbe essere indubbio. È vero che il sapore del limonene è gradito in molte culture e si associa ad una sensazione di freschezza, ma questo non fa gli esseri umani dei vettori biologici di queste piante (anche perché ci cibiamo prevalentemente del succo e non mangiamo – e conseguentemente – defechiamo e propaghiamo semi interi). Anche l’agricoltura è relativamente recente (10.000 anni fa?) rispetto alla comparsa del limonene, per cui è difficile che l’appetibilità del composto abbia favorito addirittura la propagazione da parte degli agricoltori. Rimane quindi un vantaggio ancestrale e lontano che, a pensarci bene, abbiamo usato in passato e usiamo anche noi oggi: l’uso del limonene come insetticida e come antimicrobico (contro batteri e, in minor misura, funghi), che è poi l’uso prevalente che ne fanno piante. Noi stessi usiamo le candele alla citronella per tenere lontane le zanzare, e gli antichi egizi includevano oli essenziali di agrumi nel loro nécessaire per l’imbalsamazione dei cari estinti, al fine di arrestare l’inevitabile decomposizione microbica. E difatti, da un rapido esame di articoli scientifici sul tema (vedi lunga lista alla fine), le piante sintetizzano il limonene come difesa chimica contro molti patogeni (batteri, funghi e nematodi) e come deterrente contro gli insetti erbivori e/o che depongono uova sui/nei tessuti della pianta, uova da cui emergono voraci larve mangiafoglie.

 

Attività antimicrobica contro Xanthomonas oryzae da parte del (S)-limonene (riga b) e del suo enantiomero (R)-limonene (riga c). Gli aloni scuri intorno alla carta imbevuta di limonene indicano l’inibizione della crescita batterica (da Lee et al., 2016).

Controllo positivo (P.C.), foglie infettate (controllo negativo, N.C.) e pretrattamenti con varie concentrazioni di (S)-limonene in foglie di riso infettate da Xanthomonas oryzae (Lee et al., 2016).

 

Spesso il limonene è solo un prodotto intermedio, un precursore del carvone, un terpenoide dall’odore di menta o di cumino, a seconda della forma enantiomerica, che spesso ha capacità insetticida e antimicrobica anche maggiori di quelle del limonene. Il problema è che un segnale chimico non è “positivo” o “negativo” di per sé ma la risposta che induce dipende dal recettore dell’organismo bersaglio. Si potrebbe pensare quindi che elevati livelli di limonene siano favoriti nelle piante in quanto conferirebbero una maggiore protezione, ma ciò non è sempre vero. In arancio, ad esempio, livelli troppo alti di limonene fungono da deterrente anche per alcuni microorganismi utili per la pianta, i quali hanno capacità antibiotiche nei confronti di microorganismi patogeni o che favoriscono la germinazione dei semi della pianta stessa. Anche alcuni impollinatori sono attratti dal limonene, cosa che spiegherebbe perché negli agrumi i frutti, dove viene prodotto il limonene, si accompagnano spesso ai fiori. Per mantenere questo equilibrio, le piante regolano la produzione di limonene e la confinano in determinati organi e in determinati periodi. La faccenda è anche più complicata di quanto sembri perché il limonene sembra attrarre le femmine di alcune specie di coleotteri, che depongono quindi le uova sulle foglie, ma ciò è in qualche modo “tollerato” dalla pianta perché altri erbivori, più dannosi delle larve di coleottero, possono accorgersi della presenza di uova sulle foglie, evitando di mangiarle. Il limonene sarebbe quindi, ameno in questo caso, una protezione indiretta che renderebbe le femmine ovopositrici, come definiscono gli autori dell’articolo, più “choosy” (termine di forneriana e triste memoria).

La produzione industriale del limonene (attenzione, possibilmente da scarti di agrumi, dal momento che, da buon idrocarburo, si può sintetizzare anche a partire da copertoni usati) è oggi in crescita a causa del suo uso in medicina come antisettico, digestivo, aromaterapico, antinfiammatorio, antiasmatico, antiossidante, chemiopreventivo e anticancerogeno a concentrazioni di 2-2000 μM. Inoltre, a concentrazioni sotto i 10.000 μM, non ha effetti genotossici né provoca danni al DNA in cellule umane. Concentrazioni molto più alte consentirebbero invece il suo utilizzo come erbicida in agricoltura biologica perché è fitotossico e citotossico su molte erbe infestanti. A causa della loro azione insetticida, soprattutto contro le larve di lepidotteri e di coleotteri, gli oli essenziali contenenti limonene possono essere usati come biopesticidi in agricoltura biologica, anche in virtù della loro complete biodegradabilità. Un’altra proprietà fondamentale del limonene è la sua azione allelopatica, per cui le specie vegetali che lo sintetizzano e lo volatilizzano hanno vantaggi, anche a distanza, nei confronti di altre specie, inibendone la crescita o la germinazione dei semi nelle vicinanze. Una dei chemotipi più interessanti a tale riguardo è Dracocephalum kotschyi, una Lamiacea iraniana che ha altissimi livelli di limonene, con spiccate attività insetticida e allelopatica.

Oltre a questi usi, il limonene può essere usato come solvente, come biomateriale e come biocombustibile, anche se questi usi sono ancora molto limitati. Considerando la sua importanza industriale (la produzione mondiale ammonta a 60.000 t/anno), il gene della limonene sintasi, il principale enzima coinvolto nella sintesi del limonene, proveniente dal limone è stato usato per produrre piante transgeniche di Camelina sativa. Il gene, che nel limone non è costitutivo, cioè non viene sempre espresso, è stato messo sotto il controllo di un promotore (interruttore) molto forte proveniente dalla pianta modello Arabidopsis thaliana, per cui si sono ottenute piante transgeniche con alti livelli di limonene. Altre ricerche simili sono state condotte con successo su altre specie (es. tabacco) e su vari microorganismi, tra cui cianobatteri, in grado di produrre alti livelli limonene. È anche vero però che l’olio essenziale di agrumi contiene dal 70 al 98% di limonene, per cui continuano ad essere le bucce dei frutti le fonti di limonene preferite dall’industria.

 

I vari usi del limonene (da Jongedijk et al., 2016).

 

Le piante hanno una capacità notevole di produrre e accumulare in alcuni tessuti specializzati un’ampia gamma di metaboliti e molti di essi sono escreti in forma liquida o – se hanno un basso punto di ebollizione – volatile, al punto tale che si parla di secretoma e di volatoma, cioè dell’insieme di tutte queste sostanze. I tricomi ghiandolari sono dei peletti spesso non fotosintetici sulla superficie delle foglie, sormontati da un serbatoio di olio essenziale ricoperto da un sottile strato di cuticola, che si rompe facilmente al contatto fisico. Negli esperidi degli agrumi, il limonene è accumulato in cavità secretorie nella buccia colorata (flavedo), mentre non è sintetizzato nella parte bianca (albedo). Sono questi due i tessuti dove sono presenti gli enzimi necessari (tra cui la limonene sintasi) per la produzione del limonene a partire dal glucosio e dai suoi derivati ottenuti dalla fotosintesi. La produzione è spesso concentrata in alcune fasi, di solito quando il frutto o la foglia sono a piena maturazione.

Penserete a tutte queste cose quando vi preparerete la prossima aranciata?

 

Tricomi ghiandolari in Cannabis spp. (fonte qui).

 

Schema di un tricoma ghiandolare.

 

 

Grazie a loro, ho scritto:

 

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Written by Horty in: Senza categoria |
Feb
28
2016
0

Il digiuno delle piante

01 - Allelopatia

 

Oltre alle molecole principali che le piante normalmente producono durante il loro ciclo vitale, prevalentemente legate ai processi chimici fondamentali (come la fotosintesi, la respirazione, la fotorespirazione, la sintesi degli aminoacidi e di altri composti azotati, ecc.), ci sono composti, chiamati metaboliti secondari, la cui sintesi è regolata da fattori ambientali. Il fatto che siano “secondari”, non significa che siano meno utili rispetto agli altri, ma soltanto che seguono vie biosintetiche diverse da quelle principali. Le piante sono dei veri e propri laboratori viventi e producono migliaia di metaboliti secondari, principalmente fenoli, terpeni, composti azotati e molecole di difesa contro i patogeni (es., alcaloidi, glucosinolati, glicosidi cianogenici, ecc.).

 

Tra questi, i fenoli (circa 10.000 quelli identificati) sono i più conosciuti. Sono molecole aromatiche (presentano una struttura ad anello con doppi legami alternati) e dei gruppi -OH (idrossile), che conferiscono loro proprietà antiossidanti. Quelli che presentano più gruppi idrossile sono chiamati polifenoli. Molti fenoli hanno una funzione di difesa contro erbivori e patogeni, altri hanno una funzione di sostegno (il legno è un polimero fenolico), attraggono gli insetti impollinatori, assorbono le radiazioni UV e inibiscono la crescita di piante vicine della stessa specie o di specie diverse. Le piante, si sa, sono organismi sessili e sono quindi sottoposte continuamente a cambiamenti ambientali, molti dei quali sfavorevoli, per cui si servono dei fenoli per contrastare patogeni ed erbivori oppure per sopravvivere ad avversità climatiche e carenza di risorse. Dal momento che sono sintetizzati soprattutto in “situazioni difficili”, ci si aspetta che il livello di fenoli aumenti quando le piante sono sottoposte a “stress”, che siano di tipo abiotico (eccesso di luce, carenza di acqua o di nutrienti, eccessi termici, salinità, danno fisico, ecc.) o biotico (patogeni fungini, batterici, virus, ed erbivori).

02 - Polifenoli

Alcuni esempi di fenoli e polifenoli

 

Sarebbe lungo descrivere l’effetto di tutti questi stress sulla sintesi e l’accumulo di fenoli. La curiosità mi è venuta però dopo aver analizzato dei dai su lattuga, in cui osservavo che il livello dei fenoli totali (ma anche di molti fenoli specifici) aumentava in suoli trattati con pratiche agronomiche intensive (abbastanza poveri di azoto) rispetto a suoli gestiti biologicamente (ricchi di azoto). A parità di condizioni climatiche, dal momento che i due campi erano vicini e le caratteristiche fisiche e chimiche del suolo molto simili, le lattughe “biologiche” erano più grosse e ricche di elementi minerali, ma più povere di fenoli.

 

Anche se il discorso filava (più nutrienti = meno fenoli e minore capacità antiossidante), molti revisori del lavoro non sono stati d’accordo sui risultati, insistendo sul primato dell’agricoltura convenzionale, almeno sul piano delle rese (quindi, dicevano, convenzionale = più resa e meno fenoli; biologico = meno resa e più fenoli). Ora, il fatto che l’agricoltura convenzionale renda di più è spesso dovuto al fatto che la concimazione minerale (soprattutto azotata) è a buon mercato e quindi l’agricoltore spesso abbonda nelle dosi. Non parliamo delle ricadute della cattiva gestione di questo eccesso di concime aoztato sull’ambiente e sulla nostra salute, ma vediamo il tutto da una prospettiva vegetale. Avere più azoto, l’elemento minerale fondamentale per sintetizzare proteine, significa di solito crescere meglio e di più. E’ chiaro che il confronto con l’agricoltura biologica in questo caso non regge, dato che in regime biologico l’azoto è fornito sotto forma di materiale organico (letame, compost, residui colturali e di potatura), a lento rilascio e spesso in quantità calcolate in base al fabbisogno reale delle piante (raramente in eccesso).

 

03 - Gestione suolo

I risultati sui campi di lattuga gestiti con pratiche agronomiche differenti

 

Ma cosa succede se i due campi sono gestiti in modo differente da decenni (50 anni nel mio caso) e i tenori di azoto sono più o meno comparabili? Cioè, come si comporta la lattuga in due campi che differiscono solo nella gestione? In un campo biologico mi aspetto una struttura fisica (aerazione, ritenzione idrica, aggregati del suolo, ecc.) ottimali rispetto ad uno convenzionale; e difatti è quello che ho osservato. Le radici delle lattughine biologiche crescerebbero molto meglio in un suolo soffice, ben strutturato e ricco di sostanza organica, il tutto si ripercuoterebbe sulla pianta intera e sulla sua capacità di resistere agli stress ambientali. Mi aspetterei (come è avvenuto), meno fenoli, dal momento che ne servirebbero meno, e una pianta mediamente più grande. Dall’altra parte, le lattughe convenzionali sarebbero più stressate, in tutti i sensi, e produrrebbero più fenoli per contrastare le avversità naturali. Dal momento che tutte le altre condizioni erano uguali per entrambi i campi, l’effetto poteva essere solo quello della gestione. Il suolo biologico conteneva più azoto organico, questo era qualcosa che mi aspettavo, ma non c’erano grandi differenze in azoto minerale (nitrati e ammonio), quello che assorbono le piante, tra i due campi. La vera differenza, nelle piante biologiche, era però l’azoto nelle foglie, circa il doppio di quello delle piante non biologiche, e il minore contenuto di fenoli.

 

04 - Azoto fenoli

Le correlazioni inverse tra contenuto di alcuni microelementi nutritivi (ferro, rame e zinco) e del principale macronutriente (azoto) e il contenuto di fenoli totali, nel mio studio su lattuga

 

La carenza di nutrienti si può definire come un vero e proprio stress abiotico. Cercando in letteratura, ho visto che la correlazione tra il contenuto minerale delle piante e la biosintesi e l’accumulo di fenoli non è stata poi molto studiata, rispetto ad altri stress, e soprattutto non sono mai stati indagati i vantaggi per le piante. Si sa che l’attività e la trascrizione di tre enzimi chiave nella sintesi dei fenoli (fenilalanina ammonio liasi [PAL], polifenolo ossidasi e perossidasi) di solito aumentano se i nutrienti del suolo, e in particolare l’azoto, sono scarsi. Aumenti dell’attività della PAL e aumenti di fenoli nelle piante (e talvolta negli essudati radicali, le sostanze secrete dalle radici) sono stati osservati in piante fatte crescere a basse concentrazioni dei macronutrienti principali – azoto e, in minor misura, fosforo – ma anche la carenza di microelementi (es. Zn, Fe, Cu, Mn, Cd, Cr, and Pb) sembra aumentare la sintesi di sostanze fenoliche e un conseguente aumento di lignificazione, anch’essa una risposta dall’evidente funzione protettiva.

 

Modificando le proprietà fisiche e biochimiche della rizosfera (lo strato di suolo intorno alle radici), le piante aumentano la disponibilità di nutrienti e tamponano l’effetto di condizioni ostili, contribuendo alla crescita e sviluppo delle piante stesse. Ad esempio, quando il ferro è limitante, le radici secernono fenoli nel terreno e così alterano e stimolano i microorganismi del suolo, che a loro volta favoriscono l’ingresso nelle radici del poco ferro disponibile mediante la produzione microbica di sostanze in grado di intrappolarlo (siderofori e fenoli) e solubilizzarlo (fenoli e auxine). Inoltre, quando le piante non hanno sufficienti nutrienti, la produzione di metaboliti secondari aumenta perché la crescita è spesso più inibita della fotosintesi e il carbonio fissato è usato soprattutto per la sintesi di metaboliti secondari. La ridotta disponibilità di azoto sembra influire sulla sintesi delle proteine, per cui il precursore dei fenoli (l’amminoacido fenilalanina) aumenterebbe, favorendo quindi la sintesi di fenoli.

 

Per concludere, quali sono i vantaggi della produzione di fenoli in piante senza azoto? Su questo si sa ancora molto poco ma qualche ipotesi può essere fatta.

 

  • Molti fenoli sono inibitori della crescita, e una crescita ridotta è un vantaggio in condizioni in cui i nutrienti sono scarsi.
  • Molti fenoli sono agenti allelopatici, cioè inibiscono la crescita di piante vicine. Anche questo è un vantaggio quando il cibo è scarso per tutti.
  • I fenoli hanno un effetto deterrente contro gli erbivori. In suoli poveri di azoto, questo evita alle piante di riformare le foglie e i germogli mangiate dagli animali.
  • Come ho detto prima, senza azoto la crescita si riduce di più della fotosintesi, e questo causa un eccesso temporaneo di zuccheri. I fenoli sintetizzati costituiscono quindi una riserva di carbonio non appetibile per gli erbivori, ma sono pur sempre una riserva e, come tale, utile, soprattutto in condizioni in cui si prospetta carestia.

 

Insomma, come spesso succede, anche nelle piante la fame e la necessità aguzzano l’ingegno!

 

 

Grazie a loro, ho scritto:

 

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