Nov
29
2020
0

Un fico proveniente da lontano

 

L’aumento della popolazione umana e del commercio internazionale stanno alterando le risorse naturali da cui dipende la nostra società. Molti di questi cambiamenti sono utili e vantaggiosi, ma alcuni possono avere impatti negativi, anche involontari, sull’ambiente. L’introduzione di piante da altri paesi o continenti negli ultimi quattro secoli ha indubbiamente fornito beni e servizi preziosi alla nostra società ma, al contempo, ha permesso alle specie vegetali invasive e generaliste di minacciare o addirittura soppiantare, le specie vegetali endemiche. È quindi importante comprendere il compromesso tra alterazione ambientale e processi ecologici naturali, per gestire le nuove risorse in modo sostenibile (Mooney et al., 2005). In molti paesi, le piante aliene pongono seri problemi per l’agricoltura, la gestione dell’acqua, la biodiversità e i servizi ecosistemici. In agricoltura, per esempio, le piante aliene, spesso non appetibili agli erbivori, possono causare una diminuzione di produttività dei pascoli, un aumento dei costi per la lavorazione del suolo e il controllo delle infestanti, alla diminuzione della fertilità del suolo dovuta all’assorbimento di nutrienti e/o al rilascio di tossine e, nel lungo periodo, alla riduzione del valore della terra. I servizi ecosistemici minacciati dalle piante aliene includono un aumento del rischio di inondazioni, smottamenti, incendi e erosione del suolo, alla perdita di risorse idriche a causa di una maggiore traspirazione, all’abbassamento della falda freatica, ad una ridotta densità di piante autoctone, e a cambiamenti dell’habitat che influiscono negativamente sulla nidificazione, alimentazione e dispersione degli animali nativi. Le piante aliene possono inoltre danneggiare la ricreazione e l’ecoturismo, soprattutto quando specie spinose o spinose creano barriere impenetrabili per persone o animali.

Tra queste piante, anche se molti non lo direbbero, rientra il fico d’India (Opuntia ficus-indica (L.) Mill., 1768), una pianta originaria del Centro America. Ha un habitus a cespuglio spinoso che può raggiungere i 2 metri di altezza e cresce soprattutto in terreni aridi, rocciosi e in pendenza, sulle sponde di torrenti e fumi, ma anche in ambienti urbani. Le sue pale, comunemente considerate foglie (ma che in realtà sono fusti modificati chiamati cladodi) possono facilmente fungere da propaguli che originano per via asessuata un nuovo organismo, identico a quello da cui derivano. Le vere foglie, modificate, sono invece le famigerate, numerose e persistenti spine. Siamo abituati a considerare il fico d’India come una specie che ha da sempre contraddistinto il nostro panorama mediterraneo ma in realtà si tratta di una pianta aliena neofita (introdotta dopo il 1500) che ha attecchito molto bene, fino al punto da integrarsi nel nostro paesaggio e nella nostra cultura (DAISIE, 2008). È stato introdotto molte volte in diversi paesi del mondo come un’importante pianta domestica coltivata in ambienti aridi e semiaridi (Griffith, 2004). Ciò ha portato a grandi miglioramenti dei mezzi di sussistenza di popolazioni rurali (i frutti sono commestibili e la pianta richiede praticamente pochissime cure), ma ha anche provocato problemi ambientali quando la pianta è diventata invasiva. Il fico d’India è oggi considerato infatti un trasformatore del paesaggio (land transformer), poiché sostituisce le specie autoctone e animali da esse dipendenti, e la sua espansione può coprire in un breve lasso di tempo ampie porzioni di prezioso terreno coltivabile. Considerando che è un cactus adattato a climi aridi, i modelli climatici prevedono l’aumento della produzione di biomassa di questa specie con il riscaldamento climatico e l’aumento della CO2 atmosferica (Schröter et al., 2005).

Nei campi agricoli e nei pascoli abbandonati del Mediterraneo è in atto una crescente invasione da parte del fico d’India. Tuttavia, l’invasione della regione mediterranea dell’Europa meridionale da parte del fico d’India è decisamente meno grave rispetto, ad esempio, alla enorme diffusione di questa specie nelle regioni a clima mediterraneo di Australia e Sudafrica (Essl & Kobler, 2009; Stace & Crawley, 2015). In Australia, è stato considerato la peggiore specie invasiva, prima di essere efficacemente contrastato con interventi di contenimento, eradicazione e ripristino di terreni. In Sudafrica, dove il problema è più grave, si sta invece cercando di controllarlo con mezzi biologici utilizzando la falena del cactus (Cactoblastis cactorum) e la cocciniglia Dactylopius opuntiae. Data anche la sua importanza economica, c’è quindi la necessità di indagare sui fattori biologici che possono influenzare la diffusione del fico d’India, per aiutare a gestire in modo sostenibile la crescita di questa pianta benefica ma altamente invasiva. Oggi più che mai, è necessario alimentare direttamente le politiche di protezione e gestione degli ecosistemi, in particolare nell’area del Mediterraneo, in relazione al conflitto tra interessi economici ed ecologici. Anche una più profonda comprensione dell’impatto che la composizione microbica del suolo ha sulla diffusione di questa specie è una necessità per la sua conservazione e per prendere decisioni agronomiche e paesaggistiche. Un ulteriore obiettivo è quello di rilevare potenziali relazioni tra diversità genetica intraspecifica, origine geografica, profilo del microbioma del suolo e composizione fitochimica di fico d’India. Infatti, il profilo fitochimico di questa specie è estremamente diversificato, comprendendo betalaine, zuccheri, acidi organici, flavonoidi e altri polifenoli biosintetizzati e selettivamente accumulati in diversi organi e tessuti (Yahia et al, 2011).

Le antiche barriere biogeografiche che permettevano l’evoluzione di una ricca diversità biologica sono state abbattute dal commercio internazionale, e questo ha portato a uno scambio biologico di specie in competizione per le nuove risorse su scala globale. Alcuni esperti prevedono un futuro in cui poche specie generaliste infestanti conquisteranno ampie porzioni del globo, spingendo fuori le specie specializzate che si sono evolute isolatamente. Scienziati e responsabili politici devono concordare metodi oggettivi per valutare i vari effetti delle specie aliene: ecologici, genetici ambientali, economici e sociologici. È probabile che tutto ciò richieda una stima dell’estensione geografica dell’impatto delle specie aliene, dell’abbondanza di queste all’interno del raggio di distribuzione e dell’impatto per pianta aliena (o per unità di biomassa). Con risorse sufficienti, è relativamente semplice misurare l’attuale estensione geografica dell’impatto, ma è più complicato, ovviamente, prevedere la sua portata futura. Si sa come eseguire campionamenti randomizzati per misurare l’abbondanza di piante aliene, utilizzando biomassa (opzione costosa) o percentuale di copertura (opzione economica). Tuttavia, siamo ancora molto lontani dal concordare i modi migliori per misurare l’impatto delle specie aliene ed è probabile, ad esempio, che il modo migliore per misurare l’impatto ecologico sia diverso dal quello applicato per misurare l’impatto economico. Abbiamo bisogno di questi dati perché ci consentirebbero quindi di stimare i costi diretti (ad es., perdite di entrate derivanti dalla resa dei raccolti, resa idrica o reddito del turismo) e costi indiretti (ad es., perdita di servizi ecosistemici e biodiversità). Se avessimo queste informazioni quantitative, sarebbe relativamente semplice prevedere la fattibilità degli interventi e i costi di mitigazione.

Dovremmo anche sapere se l’effetto dell’aggiunta di più specie aliene a un ecosistema è funzione del numero di specie aliene già presenti. Dovemmo esse meno preoccupati per le prime introduzioni che per quelle che si verificano dopo che il pool di piante esotiche è già grande? Molto resta ancora da fare, perché la maggior parte delle attuali valutazioni dell’impatto sono irrimediabilmente qualitative e aneddotiche. Alcune delle valutazioni non costituiscono nient’altro che la prova di ripetute affermazioni: “Le cose vanno male perché tutti dicono che le cose vanno male”. Habitat diversi supportano un numero diverso di specie di piante aliene e queste specie sono presenti a diversi livelli di abbondanza: alcune devastanti ma la maggior parte irrilevanti. Molte ricerche si concentrano sull’abbondanza delle specie aliene, ma cosa dire sulle conseguenze della loro continua presenza? Cosa sono e come dovremmo quantificarle? Tra molte altre pressanti preoccupazioni, dobbiamo capire come le piante aliene influenzano gli ecosistemi e come migliorare il peggiore dei loro impatti negativi. Ci sono molte domande altrettanto difficili da considerare. Quanto durano gli effetti delle invasioni? Una generazione di piante aliene sarà sostituita da un’altra generazione della stessa specie o la successione porterà alla sua sostituzione? La sostituzione sarà nativa o aliena? E così via.

Nel caso del fico d’India, perché questa specie è devastante e abbondante in alcuni ambienti ed è invece innocua e più limitata da noi. Potrebbe dipendere dai suoli diversi, dalle condizioni climatiche, dalla competizione con le specie native e dall’attacco degli erbivori e dei patogeni locali, o da altro che ci sfugge? Perché una pianta aliena dovrebbe essere una competitrice migliore rispetto ad una specie nativa? Dopo tutto, quella nativa si è evoluta là, quindi dovrebbe essere meglio adattata alle condizioni locali. La spiegazione più semplice è che la storia evolutiva differente della pianta aliena l’abbia pre-adattata al punto di essere superiore a quella nativa. Nel suo ambiente di origine, ha dovuto “sforzarsi di più” di dove si trova ora, così arriva nel nuovo ambiente e cresce usando meno risorse rispetto alla specie nativa. I principali beneficiari di queste ricerche possono essere gli istituti di ricerca che studiano l’impatto delle specie aliene, e gli agricoltori che coltivano il fico d’India. Un obiettivo chiave è quello di affinare le metodologie agronomiche per gestire meglio gli organismi potenzialmente deleteri. Sarà necessario migliorare la gestione delle pratiche di controllo di questa specie ogniqualvolta vi sia un conflitto tra fattori economici e ambientali.

 

Grazie a loro, ho scritto:

DAISIE. (2008). DAISIE, 2008. European Database of Alien Species. Retrieved from http://www.europe-aliens.org/pdf/Opuntia_ficus-indica.pdf

Essl, F., & Kobler, J. (2009). Spiny invaders – Patterns and determinants of cacti invasion in Europe. Flora – Morphology, Distribution, Functional Ecology of Plants, 204(7), 485–494. doi:10.1016/j.flora.2008.06.002

Griffith, M. P. (2004). The Origins of an Important Cactus Crop, Opuntia ficus-indica (Cactaceae): New Molecular Evidence”. American Journal of Botany, 91(11), 1915–1921.

Mooney, H. A., Mack, R. N., McNeely, J. A., Neville, L. E., Schei, P. J., & Waage, J. K. (2005). Invasive Alien Species: A New Synthesis: Harold Mooney, Richard Mack, Jeffrey McNeely, Laurie Neville, Peter Schei, Jeffrey Waage: Island Press (p. 368). Washington D.C.: Island Press. Retrieved from http://islandpress.org/bookstore/details3ada.html?prod_id=436

Schröter, D., Cramer, W., Leemans, R., Prentice, I. C., Araújo, M. B., Arnell, N. W., … Zierl, B. (2005). Ecosystem service supply and vulnerability to global change in Europe. Science (New York, N.Y.), 310(5752), 1333–7. doi:10.1126/science.1115233

Stace. C. A., Crawley, M. (2015) Alien Plants. HarperCollins Publisher.

Thompson, J.D. (2005) Plant Evolution in the Mediterranean. Oxford University Press.

Yahia, Elhadi M., and Candelario Mondragon-Jacobo. “Nutritional components and anti-oxidant capacity of ten cultivars and lines of cactus pear fruit (Opuntia spp.).” Food Research International 44.7 (2011): 2311-2318.

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Mar
29
2019
0

Verdi ma non marziane

 

 

“Ma è una pianta o un animale?”

“E chi lo sa… a quanto sembra è privo di un sistema nervoso centrale; non ha circolazione.”

“E allora come fa a muoversi?”

“Tutte le piante si muovono, ma in genere non fino al punto di sradicarsi da sole e correrti dietro.”

 

“È fuggito, è ritornato in vita ed è fuggito. Si rigenerano?”

“Come i vermi, come gli anellidi; anche se li tagli a metà, non riesci a ucciderli.”

 

“L’invasione dei mostri verdi (The Day of the Triffids)”, 1963, regia di Steve Sekely.

 

Il film da cui sono state tratte le citazioni sopra è liberamente tratto dal romanzo “II giorno dei trifidi”, di John Wyndham, pubblicato nel 1951, una tipica favola post-apocalittica dove la minaccia proviene dallo spazio ma è di tipo vegetale. Come ha scritto Richard Mabey nel suo “Elogio delle erbacce” (ed. Ponte delle Grazie), che ha ispirato questo articolo, la storia de “II giorno dei trifìdi” rappresenta un’acuta analisi dei modi in cui piante nuove e invasive si trovano inevitabilmente coinvolte nei bisogni dell’uomo e nei suoi preconcetti culturali. Anche se film e romanzo divergono un po’ sulla trama, essi sono accomunati dalla presenza inquietante della pericolosa pianta, coltivata nei giardini come pianta ornamentale, utile dal punto di vista alimentare (produce un olio eccellente) e in grado di produrre milioni di semi leggerissimi e trasportati dal vento (a strategia r, insomma). In poco tempo, la pianta di dubbia origine diventata una presenza comune nella vita di tutti ma, crescendo la pianta inizia ad avere una forma sempre più strana, fastidiosamente “aliena”: una sorta di arbusto ma allo stesso tempo albero, con in cima al fusto una curiosa formazione simile a una piantina di felce appena sbocciata, ricoperta di una sostanza appiccicosa in cui gli insetti restano invischiati. La pianta, aveva inoltre la capacità di camminare barcollando, estraendo la radici dal suolo, di pungere e iniettare un veleno letale, di secernere un fluido viscoso e urticante, e, dulcis in fundo, di nutrirsi di uomini che individuano dal suono e dall’odore. Infine, i ramoscelli intorno al fusto principale producono un segnale sonoro grazie al quale le piante comunicano tra di loro.

 

La pianta del film, e ancora di più del romanzo, possiede tutte le caratteristiche di una specie infestante (sostanze tossiche, aculei, grande adattabilità, capacità di propagarsi velocemente e in maniera invasiva, aspetto apparentemente innocuo, carnivoria), al punto da farla somigliare più a un animale. Riporto dal romanzo la mitica frase: “Non dico che non vi sia del girasole. Non dico che non vi sia della rapa. Non dico che non vi sia dell’ortica e nemmeno dell’orchidea. Tuttavia dico che se anche tutti loro avessero dato vita a quella pianta, nessuno di loro riuscirebbe a riconoscerla come propria discendenza”. Anche se ci sembrano caratteristiche fantascientifiche, in realtà non lo sono: conosciamo tantissime piante provviste di aculei, piante carnivore (le Nepenthes riescono a digerire anche un topo), piante in grado di muoversi strisciando sul suolo grazie a fusti filamentosi, come nel caso della cuscuta, o allungando vigorosamente i propri fusti rampicanti, come nel caso della Fallopia baldschuanica. È da poco nota la capacità delle piante di “udire” determinate frequenze, soprattutto quelle dell’acqua, ed è assodato che le piante comunicano tra di loro attraverso segnali chimici, fino ad avvertire “olfattivamente” la presenza di altri organismi, in particolare predatori e impollinatori. In più, nel romanzo, si anticipa il terrore che suscitano oggi gli OGM, particolarmente produttivi e utili ma allo stesso tempo considerati pericolosi e fuori controllo. In breve, le piante infestanti e invasive, chiamate in ecologia “aliene” (dal latino alienus: altrui, a sua volta dal greco ἄλλος: altro), devono avere qualcosa in più rispetto alle altre che non lo sono; provenienza, persistenza, peculiarità e soprattutto opportunismo sono gli ingredienti necessari perché un’infestante possa a pieno diritto essere considerata tale. L’infiltrazione delle specie aliene può avvenire in modo lento e riservato ma meticoloso, oppure può trattarsi di un’invasione ad ampio raggio, come quella della bella acetosella gialla (Oxalis pes-caprae, nella foto in alto, dai molteplici nomi comuni proprio perché ubiquitaria), proveniente dal Sudafrica, dai fiori giallo evidenziatore Stabilo, di cui facevo dei bei mazzetti da piccolo davanti alla mia scuola elementare.

 

L’atmosfera da thriller fantascientifico del romanzo e del film, oggi considerati un po’ trash e retrò, era ispirata da quella che respirava all’inizio della Guerra fredda, quando si scatenò l’ossessione collettiva di un’infiltrazione comunista: il pericolo fu così trasformato nell’immagine della pianta aliena che invade il giardino di casa. L’incubo peggiore era che l’intruso, capace di mutare aspetto, potesse essere scambiato per una persona comune, come nel film “L’invasione degli ultracorpi”, guarda caso anch’esso di quel periodo (1956). Qui, le sagome amorfe e carnose degli extraterrestri uscivano da enormi baccelli prima di assumere l’identità della persona più vicina. Ne “Il mondo senza di noi” di Alan Weisman (2007) non siamo nel fantasy e nemmeno nella fantascienza, bensì nella realtà: partendo dall’assunto la biomassa vegetale è enormemente più abbondante di quella animale e microbica, cosa avverrebbe se l’uomo scomparisse di colpo? L’autore, basandosi su dati reali e modelli previsionali, conclude che la vegetazione si riapproprierebbe del pianeta lentamente ma inesorabilmente. Nel giro di 100-200 anni, di case e condomini non rimarrebbero che macerie di plastica non degradabile; dopo 10.000-50.000 anni dell’uomo rimarrebbero solo scheletri e manufatti. In piccolo, è quello che è avvenuto a Detroit, passata da essere una città ricchissima ad una poverissima in poco tempo perché basata sulla “monocultura” automobilistica: qui le erbe di prateria hanno colonizzato i parcheggi e le superstrade deserte, viti selvatiche scrostano i muri, e sui tetti delle fabbriche sono spuntati alianti alti decine di metri.

 

Oggi il pericolo è costituito, proprio come per il trifide da giardino del romanzo, da specie alloctone che si sono naturalizzate dopo essere state accettate nei giardini, apprezzate, propagate e diffuse da giardiniere in giardiniere, finché la loro popolazione non ha raggiunto un livello in cui la fuga spontanea o la messa al bando sono diventati inevitabili. Il pericolo non è solo di tipo ambientalista, ma minaccia anche i campi coltivati e le foreste, causando ingenti danni economici. Oggi poi, il cambiamento climatico è e sarà sempre di più una minaccia per le piante native, che si allontaneranno dai loro habitat tradizionali, finendo in giardini botanici o estinguendosi a livello locale. In questo caso lasceranno nella vegetazione dei vuoti che potranno essere colmati solo da piante più adatte alle nuove condizioni climatiche, provenienti cioè da aree più calde. Queste si “naturalizzeranno” e diventeranno comuni – cioè in grado di riprodursi e diffondersi senza l’intervento deliberato dell’uomo – e di conseguenza saranno considerato con il tempo “accettabili”. È difatti il tempo che si dimostra il fattore decisivo per le sorti delle piante invasive: quelle che infestano le colture agrarie possono restare nel loro territorio solo se questo viene continuamente disturbato, e quindi coltivato, e la loro avanzata, apparentemente inarrestabile, prosegue solo fino a quando un insetto o un microbo non imparano a cibarsene.

 

In questa epoca di migrazioni, dovute molto spesso proprio alle carestie causate dai cambiamenti climatici di origine antropica, i significati culturali della “naturalizzazione” possono avere delle sfumature attuali, perché pongono l’accento sulla accettabilità e sulla “idoneità” culturale. La naturalizzazione culturale implica il vedersi riconosciuti i diritti e i privilegi dei nativi o dei cittadini residenti. Tutte queste espressioni contengono un’accezione di dare e avere in cui lo straniero apporta il suo contributo alla cultura adottiva, oltre a cercare di fondersi con essa e a riceverne i principi. Per questo motivo, le piante aliene, invasive, infestanti, alloctone, esotiche, ecc. che in fin dei conti seguono gli spostamenti e le migrazioni umane, ci insegnano qualcosa di importante anche in ambito antropologico e socio-politico, e cioè che le migrazioni hanno causa ambientali e che un’integrazione è possibile, anche se richiede del tempo.

 

Tornando alla fantascienza, cioè da dove abbiamo iniziato, divertitevi su questo sito a trovare la vostra fiction plant preferita tra 80 specie aliene diverse.

 

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