Ago
27
2019

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Reduci da radici

Cupola della bomba atomica a Hiroshima (foto mia).

 

Prima dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima si conosceva approfonditamente la fisica necessaria per farla esplodere ma quasi niente degli effetti che le radiazioni avrebbero avuto sugli organismi viventi. A Hiroshima si raggiunsero temperature di 4000-6000 °C e morirono 140.000 persone in pochi secondi. Visitare il museo della pace di questa città suscita quindi sensazioni che vanno dalla commozione al terrore, soprattutto perché oggi le bombe potrebbero essere ancora più distruttive di allora e molti Stati ne sono in possesso. Leggere sui cartelli esplicativi del museo le dichiarazioni di pace tra popoli che scongiurano una nuova guerra nucleare e avere buoni propositi non è stato sufficiente a migliorare il mio umore e a farmi nutrire speranze per un futuro migliore. Del resto, per la brutta china che abbiamo preso, sono quasi sicuro che le generazioni future soffriranno e ci malediranno per i cambiamenti climatici irreversibili che stiamo causando. Quando le risorse del pianeta finiranno definitivamente, la miccia nucleare si potrebbe accendere per un motivo apparentemente futile, anche solo per avere accesso ad un bacino di acqua potabile o ad una foresta o un suolo da sfruttare. La consolazione è che però la natura continua sempre e comunque; è stato sempre così e lo sarà sempre, anche senza di noi. E ora vediamo perché.

Tempo fa, durante una visita ai Giardini di Pomona, un conservatorio botanico meraviglioso tra Martina Franca e Cisternino, mi colpì molto un albero di kaki al centro di un cerchio di lavanda. Mi fu spiegato che il 9 agosto 1945 Nagasaki veniva bombardata e sembrava che qualunque forma di vita fosse stata annientata. Sotto le macerie, invece, ci si accorse che erano sopravvissute alcune piante, tra cui alcuni alberi di kaki, anche se piuttosto malconci. Uno di questi, molto indebolito, ritornò in buona salute dopo essere stato curato dal botanico Masayuki Ebinuma. L’albero apparteneva alla varietà “Tongo”, comune nella zona di Nagasaki. Dai suoi frutti si sono ottenuti alcuni semi, da cui sono poi nate le pianticelle di seconda generazione. Nel 1994, Ebinuma ha iniziato ad affidare le pianticelle ai bambini in visita alla città, chiedendo loro di farle crescere perché diventassero simboli di pace. Nell’agosto 1995, grazie al contributo dell’artista Tatsuo Miyajima, nasceva il progetto “Revive time” kakitreeproject.com. Oggi, i kaki di seconda generazione sono stati piantati in tutto il mondo proprio a testimonianza della forza della vita e della capacità di rinascere.

 

Kaki di seconda generazione – Orto di Pomona, Cisternino (BR) (foto mia).

 

Ebinuma, da botanico e profondo osservatore, aveva intuito il potere rigenerativo delle piante che, proprio per la loro struttura modulare e non centralizzata, nonché per le la loro poliploidia (nelle loro cellule hanno solitamente più copie di DNA delle nostre – come se avessero più “ruote di scorta genetiche”), sono più plastiche e rapide nel recuperare i danni da radiazioni. L’intuizione di Ebinuma è diventata realtà quando, dopo il disastro di Chernobyl del 1986, si pensava che la vita degli organismi della zona, inclusa quella delle piante, sarebbe stata irrimediabilmente compromessa. Ebbene, a distanza di più di 30 anni, la foresta di pini e betulle si è invece sorprendentemente ripresa, nonostante le inevitabili mutazioni genetiche. Anche gli animali, più mobili e meno stanziali dell’uomo, e soprattutto non soggetti agli effetti psicologici e sociali devastanti che hanno provato i reduci di Pripyat (o peggio ancora quelli di Hiroshima), oggi prosperano in aree che saranno radioattive ancora per migliaia di anni. Altra vittima illustre dei test nucleari fu l’atollo di Bikini, tanto bello e famoso quando inavvicinabile a causa degli alti livelli i radioattività. Anche qui le piante, dopo aver subito notevoli danni a livello citogenetico, hanno ricolonizzato tutti gli areali da cui erano scomparse. Purtroppo l’atollo ha i giorni contati per l’innalzamento del livello del mare dovuto al riscaldamento globale.

Hiroshima è un monito imperituro per tutto il male che può derivare da una bomba atomica. Qui la vegetazione subì danni in relazione alla distanza dall’ipocentro della bomba. La maggior parte degli alberi entro un chilometro da esso furono bruciati dalle fiamme, molti altri spazzati via dalla deflagrazione. I fiori, inutile anche dirlo, furono i primi a disintegrarsi. L’impatto del calore sprigionato sulle foglie fu notevole anche a parecchi chilometri dall’ipocentro. Dai resti carbonizzati delle foglie di riso, si è stimato che i danni arrivarono fino a 5,7 km a nord, 4,0 km a ovest e 4,5 km a est dell’ipocentro. Nonostante tutto, in molti alberi, le foglie sottostanti a quelle bruciate apparivano normali e recavano l’impronta delle foglie che le avevano “protette”, proprio come rimasero sui muri di alcuni edifici le impronte delle persone incenerite.

 

Foglie di agrifoglio dopo l’esplosione – Museo della Pace di Hiroshima. Quelle che possono sembrare naturali screziature sono in realtà le impronte delle foglie carbonizzate sovrastanti.

 

Dopo la bomba, si disse che “nessuna pianta sarebbe cresciuta per 75 anni” ma, un mese dopo l’esplosione, le piante cominciarono nuovamente a germinare tra le rovine. Questa ripresa fu ancora più accentuata dopo l’acqua portata dal tifone Makurazaki, tra il 17 e il 18 settembre. Alcune di queste piante avevano caratteristiche strane dovute alle radiazioni, quali foglie macchiate, o biancastre o di forme mai viste prima. Come racconta Stefano Mancuso in uno dei suoi libri, alcuni alberi incredibilmente vicino all’ipocentro della bomba sopravvissero alla bomba (il record è di un salice piangente a 370 metri ricresciuto dalle radici rimaste in vita). A tali alberi i giapponesi danno il nome di hibakujumoku, ovvero “alberi che hanno subito un’esplosione atomica”. Anche per i reduci fu preferito il termine hibakusha (“persone esposte alla bomba”) piuttosto che “sopravvissuti”, per non offendere tutti quelli che non ce l’avevano fatta.

A questi reduci vegetali va tutta la nostra considerazione e ammirazione. Ci ricordano che, anche nel periodo più buio, la vita vince sempre.

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