Ago
15
2016

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Oblivion

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Una delle caratteristiche che accomuna gli italiani, prima ancora che una lingua unica e un certo atteggiamento cinico e disilluso nei confronti della realtà, è la nostra caratteristica amnesia nazionale. L’italiano si dimentica di tutto; il passato prossimo diviene immediatamente passato remoto e poi dimenticanza totale. Un popolo che idolatra fino al disgusto i suoi personaggi marionetta per poi farli immediatamente cadere nell’oblio. Ora, non dubito che questa caratteristica possa esserci utile – ci ha permesso di dimenticare velocemente Mussolini e Berlusconi, a cui seguirà inevitabilmente Renzi – ma l’amnesia viene applicata anche a persone valide, ad esempio artisti, letterati o scienziati. L’Italiano medio, complice anche un basso livello di istruzione, non conosce la sua letteratura, la sua storia e i suoi scienziati illustri; questo ci rende un popolo facilmente manovrabile, dal momento che anche la sana diffidenza della cultura contadina, che ci rendeva prudenti e dubbiosi – e in un certo colti e curiosi anche con la 5a elementare – è ormai un lontano passato. Così, noi italiani dimentichiamo i nostri primati, come ad esempio quello del triestino Weyprecht, un tenente di vascello che nel 1872 per primo intraprese una spedizione al Polo nord per cercare un passaggio a nord-est verso il Pacifico; dimentichiamo di aver fondato le prime università del mondo, di aver inventato l’elica e le corazzate a cannoni girevoli, l’hovercraft e i siluri, gli aerei da combattimento e il telefono, il paracadute e il telegrafo, il primo personal computer di Adriano Olivetti e la plastica di Natta; abbiamo dimenticato i Nobel di Rubbia e Montalcini e fior di scienziati: mi vengono in mente Galileo, Malpighi, Redi, Spallanzani, Golgi, Cannizzaro, Volterra, Torricelli, Segré, Fermi, Majorana, Luria, Cavalli-Sforza, Marconi, ma ce ne sono stati tantissimi altri. Nel 2015, la ricerca nazionale italiana ha stanziato la miseria di 95 milioni di euro per i progetti PRIN (Progetti di ricerca di Rilevante Interesse Nazionale), risorse a cui accederanno più di 70 università e tutti i centri di ricerca del CNR (non ho idea di quanti siano questi ultimi, ma suppongo molti); per capirci una cifra paragonabile all’ingaggio di Higuain da parte della Juventus. Per i non addetti ai lavori, i PRIN sono gli unici progetti di ricerca di base, libera e indipendente, quelli più tenuti in considerazione dalle Commissioni Giudicatrici che conferiscono le idoneità ai futuri professori universitari.

Nel campo scientifico, l’Italia supera se stessa: è in grado di dimenticare, unica nazione al mondo, non solo il suo passato, ma anche il presente, e di conseguenza il futuro, che si prospetta a partire dai primi due. Unici, almeno tra quelli dei Paesi industrializzati, gli scienziati italiani emigrano da una nazione in cui vorrebbero spesso rimanere e che spende migliaia di euro per la loro istruzione superiore, per poi perderli definitivamente una volta che si sono formati. La visione, come sempre, è cieca: per favorire nell’immediato vertici e responsabili nel peggiore dei casi corrotti e nel migliore ammanicati con politici e signorotti locali, semianalfabeti o analfabeti di ritorno, inconsapevoli e quindi felici nella loro ignoranza (con le dovute eccezioni, ma sono relativamente poche), si saturano i pochi posti disponibili e si perdono per sempre le menti più creative e sganciate dalle logiche comuni, più libere e meno bigotte, più originali e meno conformiste, in poche parole quelle più adatte a diventare ricercatori e portare futuri vantaggi, anche economici. Il passaggio successivo è quello in cui gli enti di ricerca diventano  stutture pubbliche con un funzionamento simile a quello di Comuni, Province e Regioni, rigidi, burocratizzati, politicizzati, poco aperti al vero cambiamento se non a parole, e che si differenziano da questi ultimi solo per il fatto che i dipendenti possiedono una laurea scientifica invece che una in giurisprudenza o in scienze politiche. A questo punto, la frittata è fatta (o meglio, l’obiettivo è raggiunto): tutto è ingessato, gerarchizzato, nella mani di pochi oligarchi, e anche spostare una pianta o un armadietto da una stanza ad un corridoio finisce per richiedere un’autorizzazione dal capo e un’approvazione collegiale. In parole povere, pur di mantenere lo status quo, si sacrificano i migliori e, se questi malauguratamente accedono, si escludono in altri modi più o meno velati.

Questo atteggiamento nei confronti della ricerca spiega le recenti sulle borse ERC (vinte da italiani, ma che ormai risiedono da tempo all’estero perché l’Italia non li ha voluti), con i battibecchi tra Roberta D’Alessandro e il Ministro Giannini, già ovviamente finiti nel dimenticatoio. Ultimo caso, quello di David Cannella, che dal 2010 lavora come ricercatore a Copenaghen nel campo della “fotosintesi inversa”, una tecnica che utilizza energia solare, clorofilla, ossigeno e particolari enzimi (monossigenasi) estratti da funghi per degradare le biomasse vegetali (una risorsa abbondante e a buon mercato) e produrre 100 volte più velocemente, rispetto ai metodi convenzionali, molecole più semplici che possono essere punto di partenza per la sintesi di altre sostanze, tra cui biocarburanti come il bioetanolo. La fotosintesi clorofilliana, che avviene nelle piante e in alcuni batteri, è un processo anabolico (costruttivo), nel senso che parte da componenti semplici (CO2, acqua, clorofilla e luce solare) per fissare il carbonio gassoso della CO2 nel carbonio solido degli zuccheri; al contrario la “fotosintesi inversa” è una sequenza di reazioni cataboliche (distruttive), in quanto le biomasse vegetali sono decomposte in sostanze più semplici a partire dagli stessi “ingredienti” della fotosintesi clorofilliana. In Italia, di questa scoperta se ne sono accorti in pochi, un po’ per scarsa cultura scientifica e interesse nei confronti della ricerca, un po’ per comodità. Fatto sta che il lavoro di Cannella è stato pubblicato su Nature Communications, dal cui sito è scaricabile gratuitamente. Cannella, laureatosi alla Sapienza, aveva poi lavorato in un’azienda laziale, dove si era accorto che i fondi europei erano “a fondo perduto” e non spesi con una chiara strategia né per comprare attrezzature utili a svolgere il progetto di ricerca che aveva in testa.

Un’altra perdita, come sempre nell’indifferenza più totale.

 

P.S. Dal prossimo articolo, prometto di lasciar perder questi discorsi almeno per anno e di tornare alla scienza hard. Ho visto infatti bravi ricercatori e professori partire da considerazioni come queste mie di oggi e finire i loro giorni lavorativi come sindacalisti, assessori, burocrati o statistici della domenica.

 

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