Set
20
2015

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Purple rain

 

Questo articolo comincia con una visita a Point Reyes, un promontorio sulla costa nord californiana, a circa 50 km da San Francisco. Dopo una sgambata notevole in city bike bimarcia (perché le restanti dieci erano bloccate), tra le interminabili collinette, l’oceano perennemente lontano e, infine, la visione mistica del faro che segnava la conclusione del percorso, mi imbatto in rocce con vistose macchie di colore rosso sangue.

 

01 - Point Reyes

 

Scartata l’ipotesi – molto probabile dopo la suddetta smazzata – di un sanguinamento della retina o del classico omicidio/suicidio sul promontorio di stampo Hitchcock, mi avvicino e guardo meglio per capire lo strano fenomeno.

 

02 - Trentepohlia

 

Il caso non era isolato perché diverse rocce sporgenti erano colonizzate da una vistosa patina polverosa di colore arancione/rosso sangue che al tatto aveva la consistenza del talco. Penso ad un lichene e comincio a googlare per capire qualcosa di più sulla creatura. Senza la pretesa di arrivare alla specie, leggo che è un’alga attribuibile al genere Trentepohlia. Nonostante il colore, questo taxon appartiene al gruppo delle Clorophyta, le Alghe Verdi, e raggruppa specie comuni su rocce, muri, tronchi di alberi e, negli ambienti tropicali, anche sulle foglie. I pigmenti arancioni, ai quali si deve la forte colorazione, conferiscono a queste alghe la capacità di tollerare una vita al di fuori dall’acqua. La funzione principale dei carotenoidi, infatti, è quella di proteggere la clorofilla dall’eccessiva radiazione solare, eliminando pericolosi elettroni spaiati che potrebbero compromettere la fotosintesi. Oltre ai suoi beta-carotenoidi, in questo genere di alghe ci sono, ad altissime concentrazioni, altri potenti antiossidanti, quali l’acido L-ascorbico (vitamina C) e varie forme di tocoferolo (vitamina E). Questi conferiscono all’alga la capacità di tollerare condizioni ambientali avverse, a cui è continuamente sottoposta, data la sua vita sessile.

Anche se sembra strano che un’alga viva fuori dal suo ambiente naturale completamente acquatico, in realtà le rocce su cui Trentepohlia vive sono quasi sempre ricoperte da acqua. Nel caso di Point Reyes, da aerosol proveniente dall’oceano e dalla condensa dell’umidità atmosferica, elevatissima in tutti i periodi dell’anno. In altri casi, un apporto idrico elevato e prolungato per almeno qualche settimana consecutiva, frutto di alti livelli di umidità atmosferica e/o periodiche fasi di sommersione, è indispensabile perché l’alga possa completare il proprio ciclo vitale. La sua riproduzione, infatti, avviene con il rilascio di spore biflagellate, le quali germinano per produrre nuove piante, senza alcuna evidenza di fusione sessuale.

La colonizzazione biologica delle rocce di Trentepohlia può coinvolgere sia specie epilitiche, la presenza delle quali interessa la sola superficie rocciosa, sia specie endofitiche, che tendono a penetrare e svilupparsi all’interno del substrato litico, sfruttando processi di dissoluzione. Trentepohlia ha generalmente sviluppi epilitici, mentre si comporta da endolitica solo se è in forma lichenizzata; in quest’ultimo caso non è morbida come un velluto, come ho potuto invece constatare io. La specie è quindi estrema, potendo vivere direttamente sulle rocce, priva di suolo e continuamente sottoposta a radiazione solare fortissima intervallata a piogge continue.

Dopo le prime informazioni, ho un flash e mi ricordo che una colorazione simile l’ho vista anche sulle fontanelle della villa comunale del mio paese e che, effettivamente anche là le alghe potevano crescere grazie all’intermittente ma costante apporto di acqua. Qualche volta le ho viste anche su monumenti marmorei. E infatti, Gaylarde et al. (2006) hanno scoperto che Trentepohlia forma dei biofilm sulle superfici calcaree, a lungo andare erodendole per secrezione di acidi organici.

 

03 - Monumento 1

04 - Monumento 2

05 - Monumento 3Trentepohlia sulla superficie di reperti archeologici calcarei. Nell’ultima foto, al microscopio elettronico, si notano i forellini dovuti all’erosione da parte dell’alga. Fonte: Gayarde et al. (2015).

 

Considerando che la maggior parte delle specie di Trentepohlia non è in forma lichenica e quindi non associata a funghi, l’alga estrae i nutrienti necessari per la sua crescita – principalmente composti azotati e fosfati – direttamente dalla disgregazione dei substrati su cui vive, i quali vengono lentamente erosi dall’azione delle sue secrezioni acide. La sua capacità di assorbire nitrati, nitriti, ammonio e fosfati è talmente alta che è stato anche proposto un suo uso come bio-agente per purificare le acque di scarico fognarie. In forma di ficobionte, cioè di alga in simbiosi obbligata con un fungo, a formare un lichene, Trentepohlia è un ottimo e sensibile indicatore della qualità ambientale (e del surriscaldamento climatico), e infatti la sua distribuzione cambia significativamente in ambienti inquinati.

 

Una più attenta osservazione al microscopio, svela come il tallo (corpo) dell’alga sia costituito da sottilissimi filamenti, larghi circa un centesimo di millimetro.

 

06 - Tallo 1

07 - Tallo 2

(in alto) Filamenti di Trentepohlia spp. Fonte: Rindi e Guiry (2002). (in basso) Filamenti in sezione trasversale. Fonte: Gayarde et al. (2015).

 

E ora, il siparietto Kazzenger.

 

08 - Kazzenger

 

La pioggia rossa di Kerala, uno Stato dell’India meridionale, è un fenomeno che è stato osservato sporadicamente dal 25 luglio al 23 settembre 2001. L’85% della pioggia rossa cadde entro 10 giorni dal 25 luglio, diminuendo poi in frequenza fino alla scomparsa nel tardo settembre. Inizialmente, la pioggia rossa fu attribuita alla polvere proveniente dal deserto dell’Arabia. Infatti, nel 582 d.C. su Parigi cadde una pioggia di sangue che spaventò a morte chiunque vide il fenomeno, i quali credettero ad un castigo divino. L’origine del fenomeno era però da ricercare nel vento di Scirocco proveniente dal deserto del Sahara che, carico di polvere rossa, la restituì con la pioggia. Poi si pensò che la pioggia contenesse sangue di mammifero: forse un grande stormo di pipistrelli ucciso ad un’altitudine elevata, forse da una meteora. Ancora, fu suggerito che la polvere piovana rossa fosse stata il risultato della combustione incompleta dei rifiuti chimici provenienti da una vicina zona industriale.

 


 

Queste ipotesi, fin troppo scientifiche, furono subito accostate da altre ben più interessanti. Louis e Kumar, due ricercatori del Mahatma Gandhi University, affermarono che le particelle rosse non assomigliavano a granuli di polvere ma piuttosto a cellule biologiche. Analisi chimiche indicarono che queste particelle sono formate da materiale organico; e così si arrivò all’ipotesi dei microbi di origine extraterrestre (con tutti i microbi terrestri, giusto quelli extraterrestri, alla faccia del rasoio di Occam…). Le particelle rosse erano di dimensioni da 4 a 10 µm in larghezza, di forma sferica od ovale, e simili nell’aspetto ad organismi unicellulari. Ogni millilitro di acqua piovana conteneva 9 milioni di particelle rosse. Non furono trovate tracce di DNA o RNA, segno che l’ipotetica vita aliena doveva basarsi su ben altre molecole. La teoria dell’invasione aliena fu quindi pubblicata sul periodico peer-reviewed Astrophysics and Space Science, una rivista specializzata in astronomia e astrofisica.

 

Are these cell like particles a kind of alternate life from space? If the red rain particles are biological cells and are of cometary origin, then this phenomena can be a case of cometary panspermia (Hoyle & Wickramasinghe, 1999) were comets can breed microorganisms in their radiogenically heated interiors and can act as vehicles for spreading life in the universe. Future collaborative studies are expected to provide more answers“.

 

Subito dopo, Chandra Wickramasinghe, una ricercatrice della Cardiff University che insieme al noto astronomo Fred Hoyle avvallava fermamente la tesi della panspermia (secondo la quale la vita è stata portata sulla Terra da qualche altra porzione dell’universo), affermò: “Non abbiamo mai visto nulla del genere prima d’ora. Non ci sono dubbi che questi globuli sono composti da idrogeno, silicio, ossigeno, carbonio e alluminio. Possiedono pareti molto spesse così che è difficile entrarvi o estrarre il materiale che vi è all’interno. Le analisi che abbiamo eseguito con il Dapi [la sostanza utilizzata dai biologi per mettere in luce la presenza di DNA all’interno delle cellule viventi] ha dato risultati contrastanti“.

Il mistero si infittì perché, poche ore prima dell’inseminazione aliena mediata da spore sanguinolente, i residenti dei distretti indiani adiacenti a quelli di Kerala affermarono di aver udito un grosso botto con un lampo di luce. Louis e Kumar corressero allora il tiro e suggerirono che questo era stato probabilmente causato dalla disintegrazione di una piccola cometa entrata nell’atmosfera terrestre e contenente grandi quantità di particelle rosse. Si ipotizzò che queste cellule fossero capaci di riprodursi anche a temperature superiori ai 300°C, ben oltre il limite delle specie ipertermofile terrestri, le quali riescono a vivere “soltanto” fino a 130°C. “Forse” – sostenne Louis – “le pareti spesse servono a quegli organismi per sopravvivere nello spazio, al di fuori dell’atmosfera terrestre”. Secondo David Lloyd, direttore della Cardiff University, i “globuli rossi” sarebbero potuti essere una forma di vita ancora in parte sconosciuta ma del tutto terrestre che si era sviluppata nelle nubi sopra Kerala.

Dopo la rincorsa ad un probabile premio (ig)Nobel, altre prove sulle spore stratosferiche vennero eseguite all’Università di Sheffield da Milton Wainwright. Nel marzo 2006, egli affermò che le particelle erano apparentemente simili alle spore di un fungo della ruggine; più tardi disse di aver confermato la loro somiglianza con le spore di un’alga, e non trovò alcuna prova che suggerisse la presenza di polvere, sabbia, gocce di grasso o sangue all’interno della pioggia. Un campione di pioggia venne spedito anche all’Università di Cardiff per eseguire delle analisi, richieste proprio da Chandra Wickramasinghe. La ricerca riportò risultati positivi riguardanti il DNA, che non era assente come era stato precedentemente affermato. I microbi furono analizzati alla ricerca di specifici isotopi del carbonio, per vedere se erano differenti da quelli delle forme di vita presenti sulla Terra ma, al contrario, i dati confermarono l’origine terrestre.

Successive e definitive ricerche dimostrarono che in realtà si trattava di un’alga. Indovinate quale.

 

 

Grazie a loro, ho scritto:

 

Abe K, Imamaki A, Hirano M (2002) Removal of nitrate, nitrite, ammonium and phosphate ions from water by the aerial microalga Trentepohlia aurea. Journal of Applied Phycology 14: 129–134

Abe K, Nishimura N, Hirano M (1999) Simultaneous production of β-carotene, vitamin E and vitamin C by the aerial microalga Trentepohlia aurea. Journal of Applied Phycology 11: 331–336

Aptroot A, van Herk CM (2007) Further evidence of the effects of global warming on lichens, particularly those with Trentepohlia phycobionts. Environmental Pollution 146: 293-298

Gaylarde P, Englert G, Ortega-Morales O, Gaylarde C (2006) Lichen-like colonies of pure Trentepohlia on limestone monuments. International Biodeterioration & Biodegradation 58: 119–123

http://www.vallesoana.it/da-visitare/forzo-alghe-rosse/

L’enigma della pioggia rossa. http://lidi.forumfree.it/?t=51395107

Rindi F, Guiry MD (2002) Diversity, life history, and ecology of Trentepholia and Printzina (Trentepohliales, Cgloropyta) in urban habitats in Western Ireland. Journal of Phycology 38: 39–54

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