Dic
27
2014

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E agricoltura fu (parte prima)

 

00 - Incroci frumento

 

Alla fine dell’ultima glaciazione, a partire da a 12.500 anni fa, alcuni gruppi umani di cacciatori-raccoglitori divennero agricoltori in modo indipendente e in diversi luoghi del pianeta. Perchè compirono questo passo? Non certo per la ricerca di una vita più comoda. La vita del contadino è spesso più faticosa di quella del nomade cacciatore-raccoglitore – come si può anche oggi verificare nella vita dei gruppi di cacciatori-raccoglitori tuttora esistenti – e neppure si può dire che sia stata la scarsità di selvaggina, frutti e/o semi: l’agricoltura è nata in aree e in periodi in cui abbondavano le risorse alimentari. E allora perché? Non lo sapremo mai con certezza (sono passate circa 400 generazioni!) ma una motivazione alla base fu probabilmente la preoccupazione per il futuro,  la necessità di sapere che la comunità in cui gli uomini vivevano potesse continuare a vivere e prosperare, anche in un ambiente mutevole. Liberarsi dall’aleatorietà della caccia (un giorno va bene, ma tante volte si torna a mani vuote) è stata sicuramente una spinta importante per iniziare a coltivare. L’avvento dell’agricoltura fu probabilmente favorito da una prima specializzazione dei compiti tra i membri delle comunità umane, da cui derivarono una certa stanzialità e la comparsa del “tempo libero”, un concetto inesistente nei gruppi di cacciatori-raccoglitori.

“In breve, l’agricoltura e l’allevamento comparvero in modo spontaneo in poche aree del pianeta, con tempi assai diversi, e si diffusero da questi nuclei originari in due modi: tramite l’apprendimento delle tecniche da parte dei popoli confinanti, o con l’invasione da parte dei primi agricoltori. (…) In alcune aree in cui le condizioni climatiche erano favorevoli, tuttavia, l’agricoltura non nacque mai spontaneamente, né fu portata in tempi preistorici, e l’uomo vi continuò a vivere per millenni come cacciatore e raccoglitore fino a quando non venne in collisione con il mondo moderno. Possiamo ben vedere che, senza un qualche intervento, l’uomo avrebbe comunque continuato a praticare le sue attività di caccia e raccoglimento. Quindi: cosa o chi ha permesso all’uomo in alcune zone del globo di “evolversi” ed iniziare così a praticare agricoltura ed allevamento? Questo è un problema che rimane ancora oggi aperto nello studio della preistoria.”

Jered Diamond (“Armi, acciaio e malattie”)

 

Inoltre, con il ritiro dei ghiacci, le pianure e le colline si andavano ricoprendo di distese erbose dove crescevano spontaneamente graminacee e leguminose selvatiche e l’area era popolata da animali selvatici. La caccia, la pesca e i molluschi rappresentavano una fondamentale risorsa alimentare per i nostri antenati, ma frutti, radici, tuberi e semi di piante selvatiche erano attivamente raccolti, come documentato dal ritrovamento di resti di frutti e semi carbonizzati e mineralizzati in numerosi siti paleolitici e mesolitici. Il ritrovamento di mortai primitivi dimostra anche che i semi venivano macinati. L’ambiente forniva abbondanti risorse alimentari e i nomadi potevano permettersi uno stile di vita semisedentario sfruttando sistematicamente le risorse presenti sul territorio, creando rifugi temporanei e depositi scavati nel terreno per conservare ciò che trovavano. Le piante raccolte erano piante selvatiche e a maturità disperdevano i semi nell’ambiente. Questo carattere è fondamentale per la sopravvivenza allo stato selvatico: se i semi restano sulla spiga o nel baccello, infatti, non cadono a terra e non possono germinare. Non è detto poi che la stagione successiva sia una stagione favorevole alla crescita delle nuove piante: una stagione fredda o molto piovosa, o molto secca potrebbe essere fatale per la crescita. È necessario quindi che i semi, una volta caduti a terra, non germinino tutti nello stesso tempo ma che alcuni restino dormienti fino all’anno successivo. Meglio una germinazione scalare, scaglionata nel tempo: se i primi semi che germinano incontrano una stagione sfavorevole non è grave, essi moriranno, ma altri semi che germinano più avanti nella stagione possono essere più “fortunati” e di conseguenza la sopravvivenza della pianta (e della specie) sarà assicurata.

Questi caratteri dipendono dall’azione di specifici geni presenti nel patrimonio genetico, cioè nel DNA, di ogni pianta e di tanto in tanto vanno incontro a mutazioni spontanee che li rendono inattivi. Di solito le mutazioni sono svantaggiose per le piante perché le privano di caratteristiche importanti per la sopravvivenza alto stato selvatico, ma d’altro canto potrebbero essere molto interessanti per dei raccoglitori. Cosa c’è di meglio che trovare spighe mature con ancora i semi attaccati al rachide, semi non ricoperti da glume che possono essere subito macinati piuttosto che sbucciati uno ad uno, semi che messi in terra prontamente germinano. In poche parole, i nostri antenati, raccoglitori sistematici che esploravano quotidianamente il loro territorio, erano attenti all’insorgenza di nuovi caratteri e ne comprendevano il valore. Queste “novità” erano preziose perché avrebbero potuto facilitare di molto la raccolta del cibo; valeva quindi la pena osservare se le mutazioni venivano conservate anche nelle generazioni successive di piante. Ebbe inizio quindi un doppio processo: la domesticazione, cioè la scelta da parte dell’uomo di quei mutanti spontanei con caratteristiche a lui favorevoli, e la coltivazione, che implicava la conservazione del seme, la preparazione del terreno, la raccolta e la semina, cioè un preciso progetto culturale.

Un bel carattere. Come avviene che una pianta selvatica non disperda più i semi? La dispersione richiede la formazione di tessuti particolari, detti di abscissione, posti alla giunzione tra il seme e la pianta madre, in cui le cellule si “suicidano” precocemente per formare uno strato fragile. La formazione del tessuto di abscissione è un processo attivo, regolato e che richiede numerose funzioni geniche. Quando qualcuna di queste si “rompe”, non si forma più il tessuto e, nel caso dei cereali, la spiga non si disarticola più, rimane cioè intatta. I dettagli su quali siano i geni coinvolti e quale sia la mutazione che favorì la mancata abscissione variano da specie a specie o addirittura da varietà a varietà. Nel caso del riso si è scoperto che basta la mutazione di una sola base nel gene qSH1 (17.000 paia di basi), per bloccare la dispersione dei semi. Tutti gli altri 50.000 geni del riso, che insieme ammontano a 400 milioni di paia di basi, potrebbero rimanere identici, ma questo piccolo cambiamento nel gene qSH1 è sufficiente a stravolgere completamente la biologia riproduttiva della pianta. Cosa succede infatti quando una pianta selvatica non disperde più i semi? La riproduzione è molto più difficile perché quando tutta la spiga e non il singolo seme cade a terra, i semi si interrano più difficilmente e se anche germinassero, andrebbero velocemente in competizione tra loro per l’acqua, nutrienti e luce. Nel frumento, la comparsa di questo carattere risale a circa 11.000 anni fa, poco prima dell’affermarzione dell’agricoltura. Fu l’operato dei primi selezionatori e agricoltori che permise a questo carattere, altrimenti fortemente negativo, di diffondersi nelle popolazioni di piante cerealicole (foto in basso).

01 - Abscissione semeLa domesticazione comporta quasi sempre la mancata formazione degli strati di abscissione a livello del seme

 

Un pronto risveglio. Il secondo carattere distintivo della domesticazione di tutti i cereali e di molte altre piante coltivate è la ridotta dormienza del seme. I semi delle piante selvatiche quando cadono a terra in genere non germinano con le prime piogge ma rimangono dormienti, cioè vitali ma inattivi, per mesi o anni. Questo meccanismo previene la germinazione nella stagione sbagliata o quando le condizioni climatiche non siano favorevoli ed è quindi importante per la sopravvivenza. D’altra parte, la perdita totale di dormienza è un carattere molto negativo perché implica la germinazione dei semi quando sono ancora nella spiga, situazione che conduce a morte precoce. È facile intuire come i primi agricoltori abbiano favorito il carattere di una dormienza ridotta, ma non del tutto assente: per il fatto stesso di seminare e raccogliere, tendevano a selezionare le piante che spuntavano per prime e che per prime arrivavano a seme. I semi più dormienti, al contrario, spuntavano in ritardo e avevano poche possibilità di contribuire alla generazione successiva. Questo spiega perché le piante coltivate mostrano oggi, dopo millenni di selezione, una germinazione rapida e sincrona.

Nasce l’agricoltura. I due processi alla base dell’invenzione dell’agricoltura, domesticazione e coltivazione, si sono ripetuti sostanzialmente immodificate in diverse parti del pianeta (foto in basso), in tempi diversi e con piante diverse, grazie a comunità umane che hanno agito indipendentemente le une dalle altre, accomunate dallo stesso atteggiamento di fondo nei confronti dell’ambiente che li ospitava: uomini non più passivi di fronte alla natura (solo raccoglitori) ma coltivatori, cioè in rapporto continuo con il territorio in cui vivevano. I primi in assoluto sono stati gli abitanti della Mezzaluna fertile. Questa è un area a forma di arco che sale da Egitto, Israele, Siria, Turchia e poi scende verso Iraq e Iran: è racchiuso dal Mar Mediterraneo a ovest, dai monti Zagros a est e dalla catena del Tauro a nord. Qui sono state ritrovate le tracce più antiche di agricoltura con la domesticazione e coltivazione di frumento, orzo, piselli, ceci, lenticchie e lino.

 

03 - Nascita agricoltura

 Lo sviluppo dell’agricoltura in varie regioni geografiche.

 

Il frumento. I progenitori del frumento, l’alimento base di tutte le grandi civiltà antiche del bacino del Mediterraneo, sono graminacee delle specie Triticum boeoticum, Triticum urartu, Aegilops speltoides, Triticum tauschii e Triticum dicoccoides che crescevano (e crescono tuttora) nella Mezzaluna fertile. Sono tutte specie con 14 cromosomi, eccetto il T. dicoccoides che ne ha 28 perché deriva da un incrocio interspecifico spontaneo tra T. urartu (genoma AA) e A. speltoides (genoma BB). Il fatto importante è che l’incrocio mantiene insieme nella pianta figlia tutti i 14 cromosomi delle due specie parentali: se quindi i “genitori” sono diploidi (14 cromosomi ciascuno), T. dicoccoides è un tetraploide (28 cromosomi; genoma AABB) e, come spesso accade, è una specie più vigorosa e produttiva, ma soprattutto in questo caso anche fertile, cioè capace di mantenersi e propagarsi spontaneamente allo stato tetraploide. Queste specie presentano i tipici caratteri della “selvaticità”: spighe fragili che a maturità disperdono i semi, semi ricoperti da foglioline (le glume e glumelle) che aderiscono tenacemente al chicco e “dormienti“, cioè che germinano in tempi diversi, anche dopo anni. Con la coltivazione ebbe inizio anche la domesticazione, cioè la scelta da parte dell’uomo di quelle variante genetiche che spontaneamente emergevano nelle popolazioni selvatiche: la spiga non fragile, il seme nudo, non rivestito tenacemente dalle glume, la maggiore dimensione del seme e la maggiore fertilità della spiga, che comportavano una più alta produttività.
Il primo frumento ad essere stato coltivato è stato il T. monococcum (piccolo farro) specie che deriva, a seguito di domesticazione, dal T. boeoticum. Ben presto i coltivatori privilegiarono però il T. dicoccoides (genoma AABB) in quanto più produttivo e più adattabile a climi più caldi. Da esso è derivato per domesticazione il T. dicoccum (farro medio, forma con semi ancora “vestiti”, che mantiene le glume anche dopo la trebbiatura), base principale dell’alimentazione dei popoli del Mediterraneo per millenni. Dal T. dicoccum ha avuto origine il T. durum (grano duro, a semi “nudi”, capostipite dei frumenti utilizzati oggi per fare la pasta). Il T. dicoccum è stato a sua volta protagonista di un evento fortuito molto particolare: esso si è incrociato spontaneamente con il T. tauschii (genoma DD) che cresceva negli stessi territori dove veniva coltivato il T. dicoccum. L’incrocio ha causato un aumento del numero di cromosomi, generando stavolta una specie esaploide (genoma AABBDD) con 42 cromosomi (i 28 del T. dicoccum più i 14 del T. tauschii) ancora più produttiva: il T. spelta (grande farro o spelta; con semi “vestiti“) dal quale successivamente si è ottenuto il T. aestivum, a semi nudi, cioè l’attuale frumento tenero con cui si prepara il pane e una miriade di altri prodotti da forno.

 

04 - Origine frumento

Gli incroci che hanno dato origine alle specie odierne di frumento.

 

Un’accoppiata fortunata. Frumento e orzo sono essenzialmente una fonte di carboidrati (e quindi di energia) per l’alimentazione umana: sono pero relativamente poveri di proteine, oltretutto di bassa qualità nutrizionale per l’uomo in quanto carenti di aminoacidi essenziali come la lisina, il triptofano e la treonina. Per arrivare a una dieta equilibrata, bisogna associarli quindi ad altre fonti di proteine. Nella Mezzaluna fertile, queste non mancavano. Insieme alla domesticazione di capre, pecore e bovidi che fornivano latte e carne, si coltivavano infatti anche alcune leguminose (piselli, lenticchie, ceci, lupini, cicerchie) contenenti un elevato contenuto di proteine ricche di amminoacidi essenziali e in grado così di supplire alle carenze nutrizionistiche dei cereali.

 

[continua…]

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